INTRODUZIONE O CAPPELLO (0)
Un famoso regista italiano, che tra l'altro ha vinto anche un oscar, una
volta tanto veramente meritato, dichiara in tutta
serietà che la trama in un film, come in un romanzo, non abbia invero alcuna importanza.
Siamo d'accordo e ci fa comodo, tale raziocinio, anche perché questo manoscritto un po' enigmatico, che abbiamo qui alla meglio intepretato e ordinato, si basa su una sequenza temporale volutamente invertita, non si sa bene perché. Probabilmente i capitoli sono stati mischiati e confusi di proposito dall'autore, che poi sarebbe un’autrice, quella originale, diciamo che sono almeno due sovrapposti, insomma.
Si comincerebbe con l'ultimo capitolo, il primo probabilmente lo ha messo
in mezzo, perché se lo avesse piazzato per ultimo sarebbe già stata una specie
di facile indizio per svelare il suo misterioso metodo, se poi veramente ce ne
fosse uno.
Stiamo tentando di mettere in fila una - secondo noi - meno improbabile
serie di porzioni temporali, dichiareremo il numero originale tra parentesi,
sperando che risulti più pratico. Naturalmente non siamo sicuri della giusta
sequenza degli avvenimenti, ci si perdoni l’eventuale errore, che crediamo non
sia determinante alla chiarezza e comprensione dell’accaduto.
Se si confrontano gli essenziali fatti, resi noti dai giornali di quegli anni, dall’attualità non troppo lontani nel tempo, si può constatare che sono cose veramente accadute.
Una storia vera interpretata soprattutto da pensionati, ma anche da una bambina sveglia, che ha cercato di svegliare anche gli altri, cioè noi, i vecchietti che aveva attorno.
PENSIONATI
Ci insegnano
a prestare attenzione, ma non ci dicono che poi non ce la restituiranno mai,
perché non c'è nessun risarcimento di nessun tipo, diciamocelo allora
dovrebbero piuttosto dire di regalare la nostra attenzione, se non proprio di
buttarla via, perché quelli non se ne accorgono proprio, se a noi interessa o
meno, continuano a parlare e a parlare, se ce ne andiamo non se ne accorgono
neppure.
Noi pensionati
presto in Italia saremo la maggioranza, questo è un dato spaventoso, non solo a
livello economico.
Dal sito Facebook Tenente Ubaldo
REGGIO (EMILIA), CITTÀ DEI PENSIONATI
A Reggio, come in Italia, gli over 65 sono il 23% sul
totale, ma entro 2050 potrebbero essere il 35%.
Tra 25 anni dunque un reggiano su tre sarà pensionato con
una aspettativa di vita media di altri 19 anni.
Se escludiamo i minori di 25 anni (impegnati ad acquisire
esperienza per iniziare una vita adulta), che sono il 23% della popolazione, la
popolazione attiva nel 2050 sarà circa il 42%. La minoranza.
Sulle loro spalle non solo graverà la costruzione del
futuro di tutta la comunità, ma soprattutto il presente. La parola chiave è
‘cura’.
Prendersi cura della crescita spirituale, educativa e
materiale dei più giovani e della crescente fragilità degli anziani sarà la
missione prioritaria di chi resta a vivere nel nostro paese. Dico questo
perché, sopratutto tra i giovani, che in massa disertano la poltica ritenendola
irrilevante per il proprio destino, prende sempre più quota la convinzione di
poter aver un futuro migliore in altri parti del pianeta. E i fatti, per ora,
danno ragione a loro.
Per affrontare il futuro demografico, che vede una
crescente presenza di anziani e un numero sempre più ridotto di giovani attivi,
Reggio dovrebbe concentrare gli investimenti su tre principali aree: assistenza
alla popolazione anziana, opportunità per i giovani, e attrazione di nuove
famiglie e talenti.
Ecco come potrebbero declinarsi questi investimenti:
1. Infrastrutture e servizi per l’assistenza
Con un terzo della popolazione costituito da anziani
entro il 2050, sarà essenziale potenziare l'assistenza sanitaria e i servizi di
supporto per la popolazione over 65. Creare e potenziare infrastrutture di
qualità per l’assistenza sanitaria domiciliare, ampliare le residenze per
anziani e sostenere iniziative di assistenza di comunità potrebbe ridurre la
pressione sulle famiglie e migliorare la qualità di vita degli anziani.
2. Sostegno all’istruzione e formazione per giovani
Data la necessità di una forza lavoro attiva e
qualificata, investire in programmi formativi avanzati, collaborazioni con le
università e centri di ricerca può incentivare i giovani a restare.
Inoltre, agevolazioni per l’accesso alla casa e
opportunità di lavoro flessibili potrebbero rendere la città più attrattiva per
le giovani famiglie.
3. Politiche di attrazione e integrazione
Favorire l’insediamento di nuove famiglie e lavoratori
internazionali può contribuire a ringiovanire la popolazione e compensare le
uscite. Investimenti in politiche per la qualità della vita, come una *mobilità
sostenibile, spazi verdi e una vivace offerta culturale,* potrebbero rendere la
città una meta interessante per chi cerca una vita di qualità lontano dalle
metropoli più congestionate.
Per costruire un futuro sostenibile, è cruciale che
Reggio inizi subito a pianificare e investire in una strategia che coinvolga
attivamente tutta la comunità, affinché le prossime generazioni possano
prosperare e la città possa conservare vitalità economica e sociale.
Vedo solo un problema. La politica locale, presa
dall’ansia di conquistare da subito lo straccio di consenso che serve per
soddisfare piccoli progetti di auto realizzazione e inconfessabili ambizioni
personali, saprà nei prossimi cinque anni amministrare e accompagnare i
processi sociali e politici per costruire condizioni migliori di qualità della
vita nella città del 2050?
(Ovviamente abbiamo parlato di Reggio, ma parliamo anche
di Italia)
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I) GIANGIO E
SEVERINO (16)
Figuriamoci che Nara Rana era stata moglie di Giangio, anzi tecnicamente erano ancora sposati, ma non si parlavano da anni, nemmeno per telefono.
In più lei spiava suo marito da lontano, da vicino o anche da intermedie
distanze, approfittando del fatto che lui ci vedeva poco ed era sempre stato
piuttosto distratto.
Di mettere per scritto tutto quello che pensava glielo aveva consigliato
tale Pierami, uno psicoterapeuta di Firenze. Per questo c’erano anche paginate
di discorsi concentrici e a spirale, da diventarci matti, che qui non
includerei, giacché troppo estesi e dispersivi.
Nara insomma non riusciva a star dietro a tutto quello che le passava per
la testa, scriveva e riscriveva, si ripeteva e si confondeva, ma non gliene
fregava niente. C’è da dire che era anche una persona molto attiva e le cose le
metteva in pratica, forse più di quelle che pensava, o forse no: in egual ma
fluttuante misura, un ruscello che scendeva giù inesauribile, non finiva mai e
poi mai.
Capire dunque la realtà e dividerla dalle proiezioni diventa talvolta
difficile, noi non ci proviamo neanche, perché lei confondeva e mischiava le
due materie, come capita ad alcuni. Ecco quello che scriveva, noi abbiamo
separato le pagine che ci interessano, per il nostro argomento fondamentale,
che sarebbero poi i fatti realmente accaduti.
Stamattina ho
fatto il pesce in umido. Una bella cernia. Era anche buona, rigorosamente senza
pomodoro. Vabbè una puntina, solo per dargli un colorito arancione.
Giangio non
sopporta l’odore del pesce in casa, quindi ho tentato prima di cucinarlo in
garage. Ma in garage nemmeno gli piaceva di sentirne in seguito l’aggressivo
aroma. Quindi ora metto una specie di barbecue scalcagnato in giardino e lo
cucino sul carbone, naturalmente solo quando non piove, in un certo senso è
divertente, forse anche un po’ più laborioso. Lo stesso faccio con un vecchio
fornello a gas sull’asfalto di fronte al garage, come oggi.
Ovviamente deve
essere pesce di mare, quello di acqua dolce puzza di più, è meno saporito,
sotto quello del fango è difficile sentire qualsiasi altra cosa.
Abbiamo discusso
spesso, quanto malvolentieri, tale argomento, Giangio purtroppo è anche un
pescatore, ma pesca solo in acqua dolce.
Una volta
arrivava di notte tardi, o di mattina presto, mezzo ubriaco, o anche del tutto,
poi veniva a letto a russare come un rimorchiatore, che per giunta è anche
diesel. Ma prima mi scaricava nell’acquaio cofanate di tinche e anguille. Nel
frattempo quest’ultime fuggivano e me le ritrovavo rinsecchite sotto qualche
mobile, giorni dopo, guidata dal caratteristico olezzo.
Dicono che sono
malata, e non solo di gelosia, per un uomo che ho lasciato io, dopo venti anni
insieme, eppure sono ancora innamorata di lui, forse un po’. Siamo vecchietti
ormai, ma lui continua a essere un grande rompicoglioni.
Alcune sue caratteristiche
peculiari sono innate, altre acquisite nel tempo. Direi che è eternamente
giovane nella maniera di vivere. Non so proprio come faccia. Vorrei tanto
essere come lui, se lo fossi stata anch’io la mia vita sarebbe diversa, assai
diversa da come è attualmente, forse staremmo ancora insieme.
Lo seguo, lo
controllo, ma lui non lo sa. Almeno spero. Segretamente sono ancora amica della
moglie del suo migliore amico. Fino a pochi giorni fa lei mi faceva un rapporto
quasi giornaliero, ma sono anni che i due amici originali non si vedono,
parlano solo per telefono o per email.
Questa storia,
tra le tante, la scrivo solo per me, cerco di mantenerla separata dalle altre,
ma questo plico lo conservo in cassaforte, è una maniera per tenermi impegnata,
ma non voglio che nessuno lo legga. Non che io abbia poco da fare, ma ferma non
ci so stare. Zitta sì, per parlare non parlo molto, però quando comincio è
meglio scapparsela.
Insomma scrivo
per fare anche un po’ di introspezione terapeutica. Me lo ha consigliato uno
dei miei psichiatri preferiti, o quasi. I difetti li trovo sempre in tutto e in
tutti, ce ne sono anche troppi.
Ce ne ho avuti non so più quanti, di psicoterapeuti, (non parliamo di
difetti,) alcuni li ho lasciati io, però questo qua mi ha lasciato lui, figlio
di una zoccola. Mi ha scaricata a un totale incompetente, tra l’altro, ma uno
che aveva molta pazienza con me. A volte sembrava lui il paziente e io il
dottore, forse per questo che ci sono rimasta in cura tanti anni, insomma mi
metteva meno soggezione, che quella lui non se la meritava proprio.
Comunque sia un
bel vaffanculo a lui come a tutti gli altri, questo se lo meritano invece e di
cuore, gente di un altro pianeta che pretendono di insegnare qualcosa a noi
disgraziati terrestri.
Ecco qua la
storia, una tra le tante, lo so che alcune si mischiano senza volerlo, ma
questa è la principale.
Se qualcuno poi
la leggesse magari direbbe che è incompleta, piena di buchi ed errori di
sintassi, con intromissioni di altri aneddoti non invitati, favole contemporanee,
metropolitane o campagnole. Le scrivo solo per me stessa però, e dopo non le
leggo nemmeno. Si parte da Severino, il miglior amico di Giangio.
“L’inverno a dare
retta al calendario era finito, ma la primavera non ne voleva sapere di
prendere il suo posto. Non era caldo, anzi nemmeno tiepido, era piuttosto
freddo e la gente se ne lamentava, anche più del loro solito di routine, che
non era poco, in Italia è sempre stato uno sport diffuso e assai praticato.
Infatti a
Severino di andare in giro con la mascherina non gli garbava nulla e i
programmi alla televisione ancora meno, qualche libro lo leggeva, sì, ma senza
quell’antica soddisfazione, che era già stata molto più consistente. Forse era
anche colpa dei libri, ma era più facile che fosse il suo cervello che - non
solo metaforicamente - era arrugginito, bloccato, poco collaborativo insomma.
Gli amici rimasti
a tiro avevano altre cose da fare, altri abitavano lontano e alcuni erano già
rincoglioniti o morti, certi anche ammazzati, pochi comunque e piuttosto
lontano da lì.
Capitano di
origine romana dei carabinieri di Lucca, Severino De Nittis, prima di andare in
pensione pensava che sarebbe stato bello avere finalmente tutto il giorno
libero per bighellonare come facevano gli altri.
Macché.
Dopo poche
settimane si è sorpreso di sentire la mancanza del suo lavoro, non aveva idea
di come occupare tutto quel tempo cresciuto a dismisura ed era caduto in una
delle sue minacciose depressioni invernali.
Sua moglie Bice,
donna pratica per virtù, è vero, ma anche per necessità, ha pensato che doveva
intervenire, ma senza farsene accorgere e con Severino non era cosa facile. Una
parola era poco e due già troppe, una mezza frase mal calcolata e si otteneva
l’effetto contrario e a volte anche raddoppiato.
Le era venuto in
mente che aveva a disposizione l’appartamento in montagna di sua sorella Dina,
lei ci andava con la famiglia, praticamente solo d’estate.
Prendendola più
larga che poteva, come se fosse un’idea piovuta dal cielo quasi per caso, è
riuscita a convincerlo che forse lassù alla Doganaccia poteva mettersi in tasca
l’odiosa mascherina e respirare aria fresca e pulita, magari andare a pescare,
godere della compagnia del suo vecchio amico Giangio, che non vedeva da tempo e
abitava in quel paesetto ciclicamente fantasma, più che altro sorto per le
seconde case e pressoché deserto nelle epoche lontane dalle umane ferie,
invernali o estive che fossero.
Il suo amico
c’era andato per stare in pace, quando la Doganaccia non aveva ancora la
teleferica per gli esseri umani e la strada era più buche che terra e ghiaia.
Attualmente invece nei mesi di attività sciatoria e durante l’estate doveva
sopportare eserciti di vacanzieri sporcaccioni e rumorosi, che forse cercavano
la pace della montagna per poter urlare e alzare il volume della musica, la
natura selvaggia incontaminata per poterla contaminare con rifiuti di ogni
tipo.
Le buche erano
rimaste tutte al loro posto, ma intorno ora c’era dell’asfalto a toppe, che
quando la neve si scioglieva si mettevano anche quelle in precipitosa discesa
verso la valle e il fiume Lima, che solo qualche chilometro più sotto si univa
al fiume Serchio nella sua passeggiata verso il mare, alcuni dicevano a Marina
di Vecchiano, altri a Migliarino, comunque già in provincia di Pisa.
Perplesso
all’inizio, ma incapace di resistere alle lusinghe di un po’ di attività
finalmente, e magari pure senza mascherina, in un lampo di euforia Severino ha
telefonato a Giangio per sentire cosa ne pensava. Lui gli ha risposto che
naturalmente ne sarebbe stato contento e che il luogo in questione, che
Severino conosceva solo per sentito dire, era bell’assai.
Un’ampia fiancata
delle montagne dell’Appennino, al confine tra le province di Pistoia e Modena.
Figurarsi che i Longobardi avevano aperto le strade del passo dell’Arcadia, o qualcosa del genere, per
attraversare l’Appennino dalla Pianura Padana alla Tuscia o come diavolo si chiamasse a quei tempi, gli ha spiegato
Giangio, che di nome vero sarebbe stato Gian Giovanni Tesi, ma nessuno lo
chiamava mai così, da quando era bambino.
Poi, mentre sua
moglie preparava i bagagli, Severino è andato su internet per vedere le notizie
sul luogo e gli sono anche garbicchiate.
Che una cosa gli
potesse piacere al 100% era da escludersi, diceva sua moglie Bice, non faceva
parte del suo carattere, DNA e forse ancor prima dell’RNA. In questo direi che
mi somiglia abbastanza, per questo non mi digerisce.
Tali assai ramificate
annotazioni lo incuriosivano, sia per via della presenza storica dei Templari
nel passato, che per la vivace cronologia in generale del luogo, ma soprattutto
per il curioso trasporto di bovini e ovini con la funivia in alpeggio, anche se
di alpi qui non si trattava, piuttosto di Appennini. La curiosità era la parte
che dentro e fuori di lui lo aveva fatto diventare poliziotto a vita, senza
giammai andare in pensione.
Le notizie di
Giangio erano un po’ approssimative, qualche nome storpiato, qualche piccola
inesattezza storica e geografica, ma la senilità alla loro età - che poi era
anche la mia - risultava normale e magari anche inevitabile.
In più Giangio di
persona era arzillotto e giovialesco, non conosceva la depressione che
attraverso film e serie TV, qualche libro ogni tanto, ma senza esagerare. Si
manteneva piuttosto attivo con varie passioni, anche assai diverse tra di loro,
come la pesca e il modellismo, varie e goliardiche amicizie, vicine e lontane.
Cioè tutto il
contrario di Severino, anche per questo si trovavano bene insieme e non si
annoiavano mai, perché la reciproca presenza li obbligava a tenere il cervello
in funzione e il conseguente dialogo era scoppiettante. Ogni tanto funzionava
anche con Skype, ma incontrarsi fisicamente era troppo meglio.
Il viaggio in
macchina non è stato lungo, ma Severino al volante era sempre stato nervoso e s’è
arrabbiato in più di un’occasione con gli altri automobilisti, non sempre a
sproposito. Gli ha gridato anche se doveva proprio schiaffare qualcheduno
dentro, che lui non ne avrebbe avuto nessuna voglia, ma se proprio ce lo
obbligavano...
Per cui Bice gli
ha ricordato più volte che era in pensione, che non dimenticasse poi che loro
non avevano nessuna fretta, anzi avevano tutto il tempo che volevano. Ha riso,
minimizzato e tentato di cambiare discorso, si preoccupava un po’, che non gli
pigliasse un mezzo infarto nel transito. In special modo quando diventava rosso
e urlava, agitando la mano e a volte tutto il braccione fuori dal finestrino,
ma fino a quel momento il cuore aveva retto bene.
La parte peggiore
della strada era l’ultima, piena di buche, di macchine e furgoncini, non solo
quelli dei locali abitanti, che andavano a tutta velocità e non suonavano il
clacson sulle curve.
“Sei ingrassato!”
Ha detto Severino a Giangio.
“Magari! Sono
dimagrito, invece. Tu, piuttosto, sei in gran forma!”
“Sì, a forma di
barile, diciamo. Ho sempre fame e più
magno e più me viene fame.”
“Forse sei
ansioso.”
“Sempre.”
“Allora non sei
cambiato.”
“Mai.”
La moglie lo ha
guardato seria per confermare, con il contemporaneo lento e malinconico
tentennare della testa, se ce ne fosse stato bisogno, ma non ce n'era.
In seguito
Severino, che dopo aver guidato diventava più teso e nervoso, ha accusato
Giangio di sbagliarsi con i nomi, di conoscere poco la storia del luogo, magari
lo voleva un po’ provocare per sentire cosa diceva, anche per capire se durante
gli anni, con tutta quella solitudine forzata, era rincoglionito o no.
Invece il vetusto
giovinotto nel frattempo si era documentato, a dire il vero alla sua età
succedeva che era difficile ricordarsi anche se una cosa la si era saputa in
precedenza, o se ci si incappava per la prima volta. Insomma si era imparato
tante notizie sul luogo che non smetteva più di enunciare, con un tono da
Gassmann che legge la lista della spesa.
La casetta di
Giangio era caruccia, aveva pensato e
detto Severino, rustica ma assai curata nei particolari, piccola e in mezzo al
bosco di faggi, quasi nascosta, ma di traverso prendeva anche un po’ di sole,
la mattina.
Mista di pietra e
legno era bastevole per uno che viveva da solo, ma d’inverno se e quando non
c’era neve, quindi mancava la gente in giro, secondo Severino rischiava la
vita, se gli prendeva un cuccialì chi
avrebbe potuto salvarlo? I cani S.Bernardo? Ce n’erano anche sugli Appennini?
Non gli risultava proprio.
Giangio però ha
riso e puntualizzato che alla Doganaccia c’era stato spesso il problema della
neve, anni prima, sistematicamente spazzata via dai famigerati fortissimi venti
della zona. Dunque avevano comprato quei cannoni appositi e ora ce ne avevano
una flotta intera. Almeno sulle piste, al momento giusto, non rimanevano mai
senza neve.
Severino allora
ha sorriso in diagonale e replicato che se non d’inverno, magari in autunno,
quando non c’erano turisti neanche nel fine settimana, la vita la rischiava lo
stesso. Giangio allora ha dichiarato che di morire rischiava anche lui a
starsene a valle, in mezzo allo stress della vita quotidiana attorno.
Si sono
continuati a beccare per un po’, divertendosi con il senso delle parole e un
po’ anche con quello della vita, se mai ne avesse avuto uno. Finché Severino è
tornato da sua moglie, che dopo aver scaricato la macchina insieme, era rimasta
da sola a sistemare le vettovaglie e la casa.
Un po’ più in
alto rispetto alla casa di Giangio, in fondo al posteggio della funivia,
l’appartamento imprestato ai due coniugi è risultato piccolo, gelido e umido.
Da tempo non era stato visitato.
Nella stagione
fredda, il corpulento capitano del tempo che fu, era taciturno e schivo, andava
a letto alle otto e mezza, un quarto alle nove al massimo. Manco a farlo apposta,
in quei giorni la primavera tardava ad arrivare a quota millequattrocento e
qualcosa, era assai più freddo che a valle e c’era ancora la neve negli
avvallamenti, dove batteva meno il sole e c’era riparo dal vento.
Era stato un
inverno rigido e tempestoso, da anni non ne capitava uno così. Il vento che
veniva sempre dall’Emilia Romagna, oltre il passo, aveva buttato giù alberi e
fatto a pezzi rami piccoli, medi e grossi, che ostruivano i sentieri e avevano
danneggiato varie casette nascoste nel bosco, o lungo la via dei Cacciatori,
cioè quella principale, praticamente l’unica.
II) NARA E BICE
(12)
Non sapeva nemmeno più perché lo faceva, ma le piaceva, insomma faceva
parte della sua vita, ormai. Le sembrava di mettere ordine ai suoi pensieri e
questo era l’intento a cui Pierami si era idealmente e didatticamente
appoggiato.
Nara non si limitava a riferire quello che pensava, no, inventava anche i
fatti, secondo noi, i dialoghi, specialmente quando parlava di suo marito, la
mente le si scatenava in turbolente tempeste verbali.
È tutto scritto al computer quindi, stampato e poi ammucchiato in una delle
sue casseforti, delle varie case di proprietà, senza ordine apparente, ma le
pagine hanno dei numeri e delle lettere, lei probabilmente sapeva a cosa si
riferissero, noi no.
Non so se è
grave, ma come compagnia i cani e anche i gatti mi sconfinferano più degli
esseri umani. Gli manca la parola e meno male, la quale può essere un
vantaggio, per spiegarsi meglio, ma anche una rottura di scatole non
indifferente, quando non ce n'è più alcun bisogno e invece continua... e
continua.
A proposito, a
parte gli scherzi e le frasi pungenti, la stima e l’affetto trai due compari
erano cospicui. Non tutti potrebbero rimanere ore insieme a guardare un
galleggiante in riva a un lago, nel nostro caso il laghetto intitolato a San
Giovanni Gualberto, noto protettore dei boschi, che era pieno di pesci,
principalmente carpe e cavedani, poche e guardinghe trote.
Era stato a
pagamento qualche tempo prima, ma non per molto, ha raccontato Giangio, poi
quel progetto era stato abbandonato e i pesci ne avevano approfittato per
riprodursi indisturbati.
Purtroppo per
pescare non era ancora stagione, era ancora freddo, i pesci se ne stavano
rintanati sul fondo, magari negli anfratti, in attesa di tempi migliori e di
acque un po’ più tiepide. Severino però ci aveva contato, lo ha preso come
pretesto, la moglie ha faticato a tenerlo a freno, voleva tornare subito a
casa.
Bice conosceva la
testa dura e il carattere complesso del consorte, innato rompiscatole anche lui
come Giangio, ma in maniera diversa, certo più simile a me.
Quindi la mia
cara amica ha cercato riparo immediato. La fortuna le è venuta di nuovo
incontro: c’era la vivace figlia dei nuovi vicini di Giangio, Lia, che spesso
stazionava ore e ore con lui, perché i suoi avevano da fare. Con l’aiuto
entusiastico di Giangio stesso, Bice, come se non ne avesse alcuna intenzione,
l’ha condotta e introdotta all’omone baffuto dai capelli argentati e dallo sguardo
vigile.
Si sono fatti
reciproca e immediata simpatia. Improvvisamente la voglia di Severino di
tornare a valle era diminuita, per fortuna. La compagnia di Lia lo faceva
sentire come il nonno scorbutico di Heidi e le metaforiche caprette, in un
certo senso, gli facevano ciao anche a lui. In due o tre giorni Bice temeva già
una conseguente depressione, quando sarebbero dovuti tornare giù in pianura, e
precisamente a S.Cassiano a Vico.
Tutti i giorni
verso le undici la mattina facevano insieme una passeggiata dal condominio
Croce Arcana, dove c’era l’appartamento di Dina, sorella di Bice, alla casetta
di Giangio, poi al laghetto per vedere i pesci. Figurarsi che li conosceva già
tutti per nome, non c’erano tante varietà e momentaneamente in giro se ne vedevano
pochi, mentre la moglie di Severino preparava il pranzo con amore e
supplementare capacità gastronomica. A volte mangiavano tutti insieme.
Lia lo chiamava
il nonnone, per distinguerlo dal primo nonno acquisito che invece era Giangio,
o anche detto nonnetto, essendo assai più mingherlino di Severino.
Quella fatidica
mattina il sole splendeva dopo una pioggia fredda della notte, che forse anche
aveva perfino faticato a non diventare neve e camminando non potevano fare a
meno di notare, tra le staccionate di legno a gambe all’aria e i rami spezzati,
intorno alle case e lungo la strada, quanti topi ci fossero in giro.
Giangio aveva già
spiegato che quelli erano topini di montagna che si erano moltiplicati, si
erano avvicinati di più alle case dove nessuno o quasi viveva tutto l’anno,
anche perché la neve c’era ancora e a maggio di solito non c’è. Avevano più
fame perché l’inverno si era prolungato più del solito ed era stato proibito,
per via del Corona Virus, di andare a sciare. La gente aveva lasciato piuttosto
abbandonate le seconde abitazioni, che per i topi rappresentavano molte più
possibilità di mangiare, anche se le vivande lasciate là dentro erano un po’
attempate, loro si adattavano di buon grado, se riuscivano ad entrarci.
Lo stato di
allarme mondiale aveva causato un certo abbandono, la gente era stata costretta
in casa, in alcuni periodi, come per esempio in fascia arancione o rossa, non
si poteva nemmeno uscire dal proprio comune di appartenenza.
I tre hanno anche
notato un materasso mangiucchiato, ricoperto dal suo sacco di nylon
trasparente, attraverso il quale si intravedevano dei topi morti, lasciato
fuori da qualcuno per essere portato via dall’Alia, società locale che faceva
la raccolta dei rifiuti.
La bambina
parlava assai e raccontava al nonnone quello che imparava a scuola a
Cutigliano, ora chiusa per la Pandemia, ma lei ne sentiva troppo la mancanza.
Era una bambina
simpatica, non doveva stare tutto il tempo a parlare come le altre o a giocare,
spesso se ne stava zitta e dalla faccetta, o dagli occhietti vispi, s’intuiva
che pensava, ma senza alcuna fretta, e con un certo ordine, si supponeva poi
dai fatti limitrofi.
“I topi non avevano nipoti.” Ha dichiarato a un certo punto, come se
fosse una cosa di cui stessero parlando poco prima.
“Che hai detto?”
Ha chiesto Severino, senza capire.
“L’altro giorno
ho visto un pezzo di film, in cui il padre della bambina stava tutto il giorno
fuori dalla scuola ad aspettare che la bambina uscisse.”
“E perché?”
“Perché la mamma
era morta e il babbo si era reso improvvisamente e tragicamente conto che loro
due erano rimasti soli, cioè non avevano più nessuno al mondo, allora il papà
aveva lasciato il lavoro della sua impresa, che stava facendo fusione con
un’altra, molto più cazzuta e internazionale…”
“Madonna mia come
sei fottutamente precoce! Ma lo senti Giangio come parla questa? Chi ti ha
spiegato tutte queste cose?”
“La mamma, no? A
dire il vero era lei che guardava il film, prima non voleva che io restassi con
lei, perché c’erano scene di sesso, sai com’è… allora io me ne sono andata in
camera mia, ma poi sono tornata di nascosto e ho guardato il film dalla porta,
capito? Mentre mamma non se ne accorgeva.”
“D’accordo. Ma
allora i topi che c’entravano?”
“La bambina,
piuttosto precoce e simpatica anche lei, aveva imparato a scuola questo
palindromo…”
“Pali che?”
“Come sei
ignorante nonnone, anche il nonnetto lo sa e te no? Un palindromo insomma è una
frase che funziona anche letta alla rovescia, no?”
“Cose da giovani
cazzuti.” Ha commentato ridendo Giangio.
Severino ha
guardato positivamente sorpreso l’amico, che ha confermato annuendo e
sorridendo. Poi mentalmente ha provato a far sfilare le lettere della frase
dalla fine al principio. Gli occhioni celesti scorrevano silenti sui baffi
bianchi. Anche se gli spazi erano
spostati, a livello di lettere, quella funzionava perfettamente e, in maniera
quasi timida, ha sorriso anche lui, cosa rara, ma è ridiventato subito serio di
colpo.
ITOPIN ONAVEVA
NON IPOT I
I TOPI NON
AVEVANO NIPOTI.
Sulla curva della
strada intanto aveva notato che la concentrazione dei roditori era assai
maggiore. Entravano e uscivano da una grata di raccoglimento dell’acqua, se ci
si faceva caso andavano e venivano dal bosco dietro una casa.
Incuriosito e ficcanaso,
figlio d’arte, ma che non la poteva - nemmeno volendo - mettere da parte,
Severino ha lasciato la bambina con il collega nonno Giangio e ha seguito al
contrario la direzione e tendenza dei roditori seminascosti da ciuffi d’erba e
cespugli.
Ha visto che là
dietro c’era una casa diversa dalle altre che c’erano in giro, tutta di pietra
a vista, abbastanza sinistra, più antica e con poche finestre, con un design
piuttosto torvo, in definitiva, anche perché visibilmente abbandonata e
nascosta dagli alberi e dai cespugli.
Una grande
struttura di vetro e ferro era stata abbattuta e distrutta, forse dal peso
della neve e dalla forza del vento, i topi zampettavano sui vetri rotti facendo
un rumore lieve e sinistro da film di terrore. Le finestre della casa avevano i
vetri chiusi ma gli sporti aperti, la porta era appena accostata e senza fretta
non molti topi entravano e uscivano.
È stato lì che
Severino ha scoperto il cadavere, che a dire il vero era ormai già quasi uno
scheletro, gli animali del bosco ne avevano fatto scempio.
Hanno chiamato
subito la polizia con il cellulare di Lia, che insisteva di voler andare a
vedere anche lei, ovviamente non gliel’hanno permesso.
Alla vista del
disgraziato poi uno dei carabinieri ha vomitato, quello più giovane. Giangio
intanto in un orecchio gli aveva già sussurrato che lo conosceva, prima che
diventasse quello che era.
Il cadavere
secondo il suo amico era proprio il padrone di casa, Emilio Paradossi, che anni
prima l’aveva abbandonata, perché era pieno di debiti, si era reso introvabile
a Modena, dove viveva, aveva avuto una ditta fallita e poi si era nascosto lì,
finché il tribunale non avesse risolto il problema era relativamente più al
sicuro, forse anche perché la casa non era intestata a nome suo ed era in
provincia di Pistoia, che apparteneva anche a una regione differente
dall’Emilia Romagna ma confinante, cioè la Toscana.
Giangio gli ha
detto anche che non molto tempo prima era stato trovato un altro corpo, non
molto lontano da lì, ma in provincia di Modena, in una camera di un rifugio, al
Lago Scaffaiolo, che potrebbe essere stato collegato, secondo lui, per via di
alcuni particolari somiglianti.
Nei giorni a
seguire la moglie e Severino hanno discusso un po’ più spesso del solito,
perché lui non riusciva a dissimulare il suo interesse diretto al caso, le sue
inevitabili indagini, nascoste sì,
ma non troppo.
Tornati a valle è
diventato improvvisamente molto attivo, navigava persino in internet. Spesso
diceva che andava a pescare, a fare qualche partita a carte o a scacchi con gli
amici, addirittura passeggiate in città (mai fatte), con la mascherina in tasca
e gli occhiali da sole sul naso a patata.
La moglie era
anche lieta che uscisse spesso e gli pareva quasi allegro e attivo, insomma,
alla faccia della depressione. Non che ridesse molto, non si poteva pretendere
troppo, ma faceva ridere lei con le sue freddure acide, con la sua critica
ambientata in una eterna battaglia giornaliera, contro il mondo in generale e
gli esseri umani in particolare, quasi tutti imbecilli.
Con animali,
piante e oggetti entrava in conflitto solo occasionalmente e con assai meno
convinzione, con la gente aveva molta meno pazienza, e in un certo senso aveva
anche ragione.
I grandi comici
dicono cose da scompisciarsi in piena serietà, a cominciare da Buster Keaton,
che all’epoca del cinema muto non parlava proprio, ma non sorrideva mai e anche
da Totò, il quale nella vita privata risultava piuttosto sul depresso.
La verità era che
invece Severino faceva qualche sopralluogo in montagna a visitare Lia, a farsi
dire da lei le cose che sentiva dire, i commenti dei genitori, della gente che
conosceva, in definitiva piuttosto a indagare. Rimaneva in contatto continuo e
nascosto con Giangio, che gli portava anche lui i fatti e i controfatti, quelli
che secondo lui erano prove e indizi, non sempre lo erano, magari lo sembravano
e basta.
Però intanto
passava il tempo e si mantenevano in movimento, non solo mentale. Insomma si
divertivano, a loro modo, anche se l’argomento era piuttosto serio.
Non gli era certo
sfuggito che i due morti, anche se in diverse province e regioni, ma a distanza
di un pugno di chilometri in salita, o in discesa che fossero, sembravano
piuttosto collegati. Giangio diceva che certe notizie venivano nascoste per via
del turismo. Severino obbiettava piuttosto che: ma quando mai? In tal caso i turisti sarebbero invece aumentati.
In un tardo
pomeriggio, davanti al fuoco acceso della sua casetta, Giangio gli ha
raccontato che tanti abeti caduti erano stati piazzati ad arte come ostacoli
dagli abitanti della regione, di proposito per bloccare i sentieri alle moto,
alle mountain bikes e ai turisti in genere, ma nessuno di loro poteva
pensare a un movente per due morti.
Giangio lo
invidio, perché lui si diverte davvero, nella vita e se sta tutto il giorno a
letto, o in casa davanti al caminetto, non si sente in colpa, non deve
dimostrare niente a nessuno e riesce a star bene, a divertirsi, a passare il
tempo in maniera costruttiva e piacevole.
Come diavolo fa?
Severino no,
nella sua testa e cuore lui combatte, in maniera costante, per questo non mi
sopporta. In un certo senso gli assomiglio, con le debite proporzioni e questa
mia esagerazione gli dà noia, forse anche di più perché sono donna, in un uomo
l'accetterebbe di più, magari, non lo so.
Con Bice ora ci
sentiamo spesso, quasi tutti i giorni. È piuttosto limitata nella
conversazione, ma non è affatto una scema ed è anche una buona osservatrice, il
mio ex marituccio me lo sa raccontare bene, perfino nei più insignificanti
particolari.
Insomma, alla
fine Severino ha ammesso quello che stava facendo, lei lo aveva già intravisto,
ma ha velocemente soppesato e apprezzato il futuro vantaggio, cioè che dopo
avrebbero potuto parlarne apertamente e ha fatto la burbera benefica. Anche per
me è stato un passo avanti notevole.
Se un giorno
qualcuno leggesse questo plico, si chiederebbe come ho fatto a registrare
questi dialoghi. Sorvegliandolo a dovere, con in più i resoconti di Bice, mi
sono immaginata anche quello che dicevano e come. Questa è la parte che mi è
piaciuta di più e non credo di essere andata troppo lontana dalla verità. Il
mio ex consorte è così costantemente perduto tra le nuvole e pure mezzo orbo,
che entravo ed uscivo tranquillamente da casa sua. Secondo me non ci sente
nemmeno tanto bene.
III) MAURO E
MARCHIGNO (8)
Si salta un po’ di palo in frasca, mancano a volte i contatti tra le varie
avventure illustrate, ma Nara non poteva certo sorvegliarli tutto il tempo. I
personaggi in questione, sebbene a lei ne interessasse solo uno, poi non stavano
sempre nello stesso luogo allo stesso tempo. Le vicende intermedie bisogna
cercare di immaginarsele insomma e tirare i fili per cucirle insieme.
Con il tempo poi Nara si è interessata di più a tutta la vicenda, in fondo
quello era un signor giallo, o meglio: forse era un noir, insomma quelli erano
i film che vedeva e i libri che riusciva a leggere, dove c’era una suspence,
una certa ansia di scoprire cosa e come, quando, dove e perché...
Un tale Mauro
Pelosi è stato condotto alla Bicocca a sorpresa, comune amico dei tempi andati,
compagno di scuola. Severino non lo ha riconosciuto subito, ma solo dopo che
glielo hanno detto, anche per via dell’eccentrica mascherina a disegni
montanari stilizzati dai colori vivaci.
Forse si dovevano
abbracciare, ma sono rimasti bloccati e imbarazzati per via del molesto Covid,
con mascherine bianche, grigie e nere minacciose, le convenzionali occhiate
disapprovatrici attorno. Bevendo e mangiando sulla ventosa terrazza del
ristorante bar, Giangio ha introdotto la conversazione.
“Questo è il
nostro asso nella manica, te l’ho portato qui anche perché so che ti avrebbe
fatto piacere ritrovare uno che non vedi da più di cinquant’anni…”
“E a quel tempo
eravamo quasi amici, prima che ti portassero via, a Roma, pensavo che non ci
saremmo più rivisti…” Ha aggiunto Mauro.
“Pure io. Tiè: diciamo che la vita riserva sempre
sorprese piacevoli, vabbè non tutte, però questa sì… ma perché tu hai usato la
trita espressione retorica asso nella
manica?” Ha ammesso, divagato e domandato Severino a Giangio.
“Perché Mauro,
che se magari ti ricordi, aveva un certo pallino per le scienze, è diventato
neuro-psichiatra, ha studiato tutto quello che io invece ho vigliaccamente
interrotto…”
“Mah, diciamo che
mi sono gradevolmente stupito...”
“Si vedeva anche
ai nostri tempi, se è per quello. Studiava meno di noi e aveva voti migliori.”
“Ora che mi ci
fai pensare…”
“Comunque il
medico in questione, oltre alla normale e logica amicizia per noi, ci può far
piuttosto comodo, ci può fare delle perizie segrete ma qualificate e gratis, ma
non solo per questo, certo anche questo ci può essere utile, ma aspetta, il
meglio deve ancora venire…” Ha aggiunto Giangio.
“Ma vuoi parlà o
no? Che ti devo tirare fuori le parole colle pinze?”
“Ma se sei te che
interrompi sempre!”
“E mo’ me ne sto zitto!”
“Bravo. Il Mauro
in questione è neuropsichiatra e fa le famigerate perizie d’uopo e un ometto di
questo determinato tipo per le nostre indagini rimpiattate ci può solo fare
comodo, l’avrai già capito…”
“Diciamo che l’hai
già accennato e riaccennato...”
“ …ecco, ma in più c’ha una talpa
privilegiata abbestia in commissariato, un suo buon amico è vice commissario a
Pistoia. Il quale pare che sia uno come noi, cioè crede nella giustizia, ma non
la identifica necessariamente con la polizia, la democrazia e lo stato, anzi
gli succede piuttosto raramente.”
“Tutti concetti e
istituzioni non a torto oltremodo vituperati, oggetto di più che giustificati
pettegolezzi. E non solo da parte degli italiani.”
“Infatti. Egli...
cioè lui, si chiama Piccinini. Mauro dice che il Piccinini è informato delle
cose esattamente e pure meglio di noi stessi medesimi.”
“Non ci credo,
diciamo che la polizia se ne frega un po’ di questo fatto…”
“È vero, eppure
la stampa e la televisione ne hanno parlato assai, un serial killer qui da noi
dovrebbe fare notizia, non ce ne sono stati mai, invece… insomma, vi dico solo
che Marchigno è incazzato come una bestia…” Ha sottolineato Mauro, che
finalmente nel rispondere è riuscito a precedere Giangio.
“E mo’ chi è ‘sto
Marchigno?” Ha chiesto Severino.
“L’amico mio,
Piccinini. Figurati che il commissario lo ha messo su un’altra indagine, perché
a Pistoia c’è uno strozzino, pare sia di origine brasiliana, uno che fa paura.
Cioè non proprio a Pistoia, ma in provincia, a Chiesina…”
“Uzzanese?”
“Proprio quella.”
“E perché farebbe
paura?”
“Sembra che abbia
dei metodi piuttosto violenti, agganci con la Mafia, la ‘Ndrangheta, insomma la
Camorra, speriamo di no, però…” Ha spiegato rapidamente Giangio. Mauro ha riso,
ma Severino lo ha gelato con lo sguardo tipico di chi non credeva affatto che
fosse bello scherzare su certe cose.
Il ghiaccio tra
di loro si era rotto, eppure il terrazzo della Bicocca era ancora troppo freddo
e la brezza informicoliva le orecchie lasciate dagli eventuali distratti fuori
dai berretti. Si sono messi in movimento, verso la Croce Arcana, salendo gli
mancava un po’ il fiato, ma erano pronti per scambiarsi le informazioni che
avevano.
Il Piccinini
aveva saputo di loro, dell’indagine clandestina e ha approvato, gli avrebbe
detto tutto quello che sapeva, anzi in via non ufficiale e indirettamente
voleva partecipare pure lui, in maniera attiva quanto sotterranea.
“Ma qui è tutta
salita?” Ha chiesto Severino.
“Nooo. Solo
all’andata. Al ritorno è tutta discesa.”
“Sottoscrivo, in
montagna funziona un po’dappertutto così.” Ha confermato Mauro ridendo.
“Meno male. Ma
quanto tempo ci vuole?”
“Beh, dipende
dalle gambe del montanaro in questione.”
“Diciamo che i
montanari qui sono falsi tutti e tre.” Ha detto Mauro con la massima serietà.
“No! Uno è vero e
piuttosto nerboruto a livello di gambe, escludendo ogni possibile e inutile
vanteria, il sottoscritto è già un bel po’ di tempo che ci abita qua e ha avuto
ripetuta occasione di farsi le sue belle camminate, su e giù…”
“Magari dovrai
aspettarci un po’, sei anche più leggero, puoi trasportare te stesso
agevolmente, se fossimo in bicicletta e in discesa vincerei io, sono più di
cento chili, ma ci vorrebbero dei freni buoni…”
“Ma senza
bicicletta e in salita io vi massacro senza pietà, te poi sei sempre stato un
culone sedentario… No, scusa, a parte gli scherzi… e i chili in sovrappiù, il
tratto in questione è breve, magari ce la facciamo anche in mezz’ora.”
“Se mi stanco ti
saluto e torno indietro e magari, se non ci rimani male, mi porto anche una
bella merenda nello zainetto per ritemprarmi, non si sa mai.”
“Magari qualche barretta ai cereali…” Ha aggiunto Mauro, che era uno che
pensava alla salute e mangiava sempre qualche roba bio. Quel medico che c’aveva
dentro di sé glielo aveva prescritto, per fortuna non sempre gli ubbidiva.
“No, no, su
queste cose non si scherza.” Ha ripreso Giangio. “C’ho del salamino stagionato,
secco e duro, scurissimo, che fanno qua in montagna e la sua morte sarebbe
dentro quelle biove che hai portato su te, le ho intraviste dal sacchetto di
carta, che quelle qua non si trovano…”
“Sì, vabbè,
diciamo che a parlarne mi è venuta già una fame...”
IV) PARTE CHE POTREBBE ANCHE
ESSERE MESSA ALTROVE (14)
A volte lei rimaneva a distanza a vederli parlare, le
piaceva come gesticolavano, tali individui che parlano con un certo entusiasmo.
Lei era curiosa e le piaceva anche indovinare l’argomento di cui stavano
trattando, se non ci riusciva se lo inventava.
“L'ospizio
della Val di Lamola restò in vita fino al 1648, prestando assistenza ai
mercanti e ai pellegrini, sempre più numerosi sulla via Romea Nonantolana che
dalla pianura Padana portava a Fanano, ad Ospitale e dopo avere valicato
l'Appennino, entravano nella montagna pistoiese e proseguivano per Roma…” Ha
iniziato Giangio.
“ …quello di Prunetta invece, dopo la tragica fine
dell'ordine dei templari all'inizi del XIV secolo, in un primo momento fu
attribuito agli ospitalieri ed infine fu abbandonato.” Ha continuato
interrompendolo Mauro.
Passeggiando
verso il laghetto, in mezzo al dialogo convenzionale Giangio è più volte
partito, si è dato da fare con nozioni e date, stimolando il cervello di Mauro
e annoiando quello di Severino:
“Hai fatto bene a
farmelo notare. Guarda, il nome vero del luogo in questione, (cisiamo già
stati personalmente a vederlo,) è passo della Croce
Arcana (o dell'Alpe alla Croce) valico dell'Appennino tosco-emiliano, con una altitudine di 1669 m s.l.m., sito fra le
province di Pistoia e Modena, nei comuni di Fanano ed Abetone
Cutigliano. È attraversato dalla strada
carreggiabile che dalla montagna modenese, passando per Ospitale, porta a Cutigliano e alla Doganaccia, nel Parco regionale
dell'Alto Appennino Modenese...”
In più Giangio ci teneva a
mostrare di conoscere la storia e la geografia del luogo in questione e Mauro Pelosi
su ogni argomento difficilmente lo trovavi senza niente da dire. Severino
perlopiù taceva, ma non per questo genericamente acconsentiva, anzi, più
facilmente era contrario.
“...vi stavo giustamente narrando che il passo
in questione, detto della Croce Arcana, è situato lungo l'alto crinale dell'Appennino
nostro e settentrionale che fa da confine tra la Toscana e l'Emilia-Romagna, nonché da
spartiacque tra i bacini idrografici, rispettivamente: del torrente Lima,
affluente del fiume Serchio,
che si getta nel mare Tirreno;
del torrente Leo,
affluente del fiume Panaro,
che si getta nel Po,
tributario del mare
Adriatico.”
“Molto interessante però noi...”
Tentava di arginarlo Severino.
“Il passo della Croce Arcana, come dicevo, si
trova su di una sella esistente tra il Monte Spigolino, a
sud-est, ed il crinale a nord-ovest che, attraverso cima Tauffi, giunge al
monte Libro Aperto e
al monte Cimone.
La zona del passo è caratterizzata da brughiere di alta
quota, da vaccinieti, da conifere striscianti e rocce affioranti; il panorama
che vi si ammira è a 360 gradi: va da tutta la valle della Lima alle cime più
elevate dell'Appennino tosco-emiliano, alle vallate del pistoiese, del modenese
e del bolognese; quando è sereno in lontananza si scorgono le vette delle Alpi Apuane e
le Alpi. È la località
italiana dove le raffiche di vento raggiungono la velocità più alta, in media
più di una volta l’anno si superano i 200 km/h.”
“Fermo lì: secondo Wikipedia
quest’ultima notizia sarebbe da confermare...” Ha questionato severamente
affermando l’ex capitano.
“Ah… lo hai letto anche tu?”
“Ma che c’avevi l’esclusiva? Vedo
comunque che la tua memoria funziona ancora ammodino. Bravissimo, mi fa
piacere, era quello che volevo constatare, diciamo però che mi dovresti
spiegare qualche parola. Per esempio, vaccinieti io non l’ho mai sentito dire…”
“E certo, opportunamente e subito
passo a spiegarti: dicesi vaccinieto la formazione vegetale nella quale
predomina il mirtillo (Vaccinium myrtillus), in Italia legata ad
ambienti montani, su suoli acidi e ricchi di humus…” Un sorso dalla borraccia e
poi è ripartito con rinato vigore.
“Il passo dell'Alpe alla Croce, come veniva
chiamato nei secoli passati il valico della Croce Arcana, era assai frequentato
fino dal basso Medioevo per transitare dalla Toscana alla pianura Padana e
viceversa, anche se in misura minore della parallela via Francigena, che
valicava l'Appennino settentrionale più ad ovest. I più antichi documenti
risalgono all'epoca longobarda, quando Pistoia era divenuta
città regia ed i bizantini si erano progressivamente ritirati verso oriente
anche sulla montagna pistoiese, allora denominata Montagna alta. Il passo
dell'Alpe alla Croce si trovò nell'VIII secolo, proprio presso il limes tra la
Longobardia ed i territori dipendenti dall'esarcato di Bisanzio.”
“Sti cazzacci! Ti sei imparato tutto
a memoria?”
“Sei stato te per telefono che mi hai
chiesto notizie o no? E c’avevi ragione, la storia è la meglio geografia che
puoi dare di appoggio a una determinata filosofia di un territorio in
questione, senza trascurare la religione e la necessaria storia dell’arte…”
“… la ginnastica e le applicazioni
tecniche…”
“… la matematica, la fisica, e perché
no? Pure la chimica e l’informatica… se è lecito rammentarcelo.” Si è
interrotto per via dello sguardo esasperato di Severino, che invano cercava di
riportarlo sulle altre cose.
Tra una congiuntura e una
congiunzione, durante le loro sedute, quando un pur breve silenzio attorno
sembrava pesare, approfittando della presenza di Mauro e di Marchigno, Giangio
illustrava la sua recente cultura con maggior piacere.
Si era accorto, da quando dalla
lontana valle Severino gli aveva chiesto notizie sulla Doganaccia, che non ne
sapeva granché e se ne era spaventato, subito dopo si era preparato a dovere,
forse anche a potere e volere.
Gli altri due sorridevano, magari cambiavano
discorso, ma Severino lo guardava serio, esaminando mentalmente la credibilità
delle notizie, faceva il poliziotto anche sulle fake news, volontarie o
involontarie che fossero. Insomma secondo Giangio, per capire quello che stava
succedendo ora lì, niente era meglio di ripassarsi la storia dei luoghi in
questione.
“Con la rinascita verificatasi dopo
il 1000 d.C. e con l'affermarsi dei liberi comuni, ai consueti spostamenti dei
pellegrini e degli eserciti si aggiunsero quelli dei mercanti e delle loro
mercanzie: lunghissime file di muli si inerpicavano su per i passi per
trasportare pannilani, seterie, arazzi, merletti e stoffe pregiate tra Firenze,
Prato, Lucca, Pistoia e altre città toscane da un lato, e Milano, Venezia,
Parigi, la Fiandra ed altre città del nord Europa dall'altro. Questi intensi
traffici spiegano la presenza di ospizi gestiti da ordini religiosi per dare
asilo e per proteggere i viandanti che valicavano il passo della Croce Arcana.”
“Me cojoni!”
“Giusto, ma non solo, sul versante
emiliano nel 749 d.C., Sant'Anselmo,
prima di trasferirsi a Nonantola per
fondare la celebre abbazia,
aveva ottenuto dal Re dei Longobardi Astolfo delle terre
in val di Lamola, vicino a Fanano, in Emilia, e vi aveva fatto costruire
un ospizio per
pellegrini. Per questa ragione anche il borgo in questione, che
progressivamente si formò intorno all'ospizio assunse la denominazione di
Ospitale, per volere della famiglia dei signori Ballocchi proprietaria di molte
terre nella zona e tra le principali e antiche famiglie di Fanano, la cappella
dedicata a San Giacomo che sorgeva accanto all'ospizio venne ampliata ed eretta
in chiesa parrocchiale tra il 1588 ed il 1589. Ma anche sul versante toscano
i cavalieri
templari costruirono sulla strada che conduceva allo stesso
Passo in questione una magione con finalità di asilo e difesa dei viandanti
presso la Croce Brandegliana, nel luogo dove attualmente si trova la chiesa del
paese di Prunetta…”
“L’argomento è piuttosto pertinente,
a chi piace piace, non dico di no, ma cerchiamo di concentrarci sul qui
presente caso, che mi pare anche complicato.” Brontolava Severino, magari per
arginare invano la cascata di notizie. Mauro Pelosi però s’infilava e ne
metteva in riga ulteriori e piuttosto attinenti.
“Prima però sarebbe necessario specificare che
il passo della Croce Arcana nei secoli successivi fu sempre meno frequentato:
l'altezza eccessiva del valico ed il progressivo raffreddamento delle
temperature che si registrò dall'inizio del XIV secolo fino alla metà del XIX
secolo, cosiddetta piccola
glaciazione, vi mantenevano la neve per oltre sei mesi all'anno;
inoltre, nel 1781, per volontà congiunta del Granducato di
Toscana e del Ducato di
Modena, fu aperta la strada Giardini - Ximenes, oggi
denominata strada
statale 12 dell'Abetone e del Brennero, una vera opera d'arte per
quei tempi, che eclissò rapidamente l'interesse per la vecchia strada,
danneggiando l'economia di paesi come Ospitale e Fanano, nel Frignano, nonché
di Cutigliano, in Toscana: l'antico percorso dell'Alpe alla Croce veniva scelto
ormai solo dai valligiani per gli spostamenti locali.” Giangio lo seguiva e
commentava al volo, appena l’altro prendeva fiato, mentre Severino sospirava di
rassegnazione.
“Vero. Ma nell'ultimo dopoguerra la
pratica dello sci alpino e di fondo si diffuse sempre più, cosicché anche la
zona della Doganaccia e
della Croce Arcana conobbe un rilancio inatteso: all'inizio vi fu costruito un
rifugio che fungeva anche da albergo-ristorante e da stazione di arrivo
della funivia da
Cutigliano inaugurata nel 1959 per trasportare capi ovini e bovini all'alpeggio
d'estate. Dopo poco tempo l'impianto funiviario fu destinato al trasporto delle
persone. Furono quindi aperte diverse piste di sci, alpino e nordico, servite
da impianti di risalita a fune e vari skilift; furono realizzate
altre strutture ricettive e di servizio, tra cui una piccola chiesa.
Successivamente fu inaugurata anche un'altra funivia che dal rifugio della
Doganaccia portava proprio sul crinale del passo della Croce Arcana, a 1720
metri s.l.m. Da
allora La Doganaccia, poco sotto il passo della Croce Arcana, tende ad
estendersi sempre più: ormai, è diventata un vero e proprio paese di alta
quota, grazie anche alla presenza di moltissime seconde-case.”
Mauro intramezzava
delle pause sorridendo divertito sotto la barba ben curata, Severino ogni tanto
sbuffava leggermente dalle narici e il tempo passava inesorabile e sornione.
V) CICCIO LOPPIA (13)
Questo qua è anche troppo lungo, ammettiamolo, ma
assomiglia più a un racconto che a un romanzo. Il romanzo è una risposta, una
pietra finale, chi racconta la storia, Nara, non aveva certo questa intenzione
e noi non abbiamo questa presunzione.
Il racconto no, il racconto di solito è una narrazione
breve, è una narrazione incompleta. Inizia dopo che qualcosa è già avvenuto,
termina quando qualcos’altro deve ancora succedere. Lascia fuori una grassa
porzione di storia, e certe volte quello che resta fuori è addirittura più
ciccioso e determinante di quello che c’è all’interno.
Il racconto è una specie di punto interrogativo, e a
tutti noi, in fila nello spazio e nel tempo, evidentemente interessavano più le
domande delle risposte, e di domande qui ce n’è una schiera, un’apparentemente
superflua abbondanza.
La Bicocca, ristorante-bar vicino
alla chiesetta e all’arrivo della funivia, non poteva dare da mangiare che fuori,
sulla terrazza con belvedere, per via della Pandemia alla terza ondata, ma il
freddo non permetteva ancora di poterci resistere a lungo, a meno che non si
fosse vestiti come d’inverno, con giacche a vento e abbigliamento da sci.
Bice passava il tempo in cui
Severino la lasciava sola, che era tanto, a pulire, a rimettere a posto le idee
e la casa, a fare la spesa e a sistemare il mangiare nello spazio che era poco
ma il baffuto in questione mangiava in modo più che proporzionale. Era una
persona preziosa, in un certo senso invidiavo anche lei, perché la famiglia era
una cosa come l’avrei voluta anch’io, ma non ne ero capace. I loro figli se ne
erano andati, come succede in questi casi, li vedevano di rado. Nonostante
questo anch’io li vorrei avere avuti, qualcosina di una specie d’istinto di
madre ce l’ho anch’io, ma si perde nella marea delle altre pressioni più
urgenti, che io stessa non so arginare, né catalogare, tantomeno quatificare.
Forse è stato meglio così, avrei avuto poco tempo per me stessa e magari loro
sarebbero diventati dei matti.
Ginulfo ha detto anche lui la
stessa cosa.
È un imbecillotto, intendiamoci,
ma è proprio questo che mi piace, stavolta l’ho scelto bene, non uno che mi
faceva sentire fuori di testa come Giangio.
Nel rifugio di Abruzzo, il più
antico dell’Appennino, presso il piccolo lago Scaffaiolo, dove si era rinvenuto
l’altro corpo, clandestinamente entrati in contatto con la rispettiva autorità
della provincia di Modena e del comune di Fanano, i nostri quattro hanno appreso
con curiosità e raccapriccio, che si sono trovati in quantità gli stessi semi
di grano.
Nel giro di un mese, in un
condominio appena fuori dal Melo, un po’ più a monte, tra la Doganaccia e
Cutigliano, è stato segnalato che un appartamento mandava rumore continuo, in
un corridoio del piano terra. Un ronzio forte e continuo, ma dentro non c’era
nessuno, nessuno rispondeva al bussare e alla chiamata.
Interpellato l’amministratore e
avvertita poi la polizia, un supplementare odore strano veniva da sotto la porta,
abbattuta la quale dentro trovavano un cadavere di uomo mezzo mummificato,
c’erano un deumidificatore acceso e un condizionatore attaccato su aria calda,
chissà da quanto tempo.
Chicchi di grano attorno, nelle
tasche del povero cadavere rinsecchito e sparsi per terra. Nessuno ha sentito
la pur poca ma necessaria puzza, perché la gente non è più venuta qui in
vacanza.
Pare che fosse il proprietario
dell’appartamento, attraverso le solite notizie diagonali si arrivava a nome e
cognome, Francesco Loppia detto Ciccio, calabrese, altro commerciante fallito,
ma non di cereali, piuttosto di prodotti per la pulizia della casa e affini.
I tre morti avevano un’altra
caratteristica in comune: le ancora sconosciute e misteriose cause del decesso.
I Carabinieri locali, sebbene
riluttanti, avevano preso in mano le indagini, per arrivare a comprendere quasi
subito che non ci capivano niente, non c’erano abituati, avevano altro da fare,
perlopiù minutaglia di routine. Cutigliano è un comune piccolo e poco abitato,
anche se con la bella stagione si popola di più. La prassi in questo caso li ha
aiutati, lo hanno velocemente passato al capitano Ilio De Santi dell’arma di
Pistoia.
Giangio, Mauro e Severino hanno
invitato anche il competente e necessario Marchigno Piccinini per la prima vera
assemblea generale, che hanno fatto alla trattoria Cavaradossi, di Bartolo e
Ivana, nei pressi dell’ex stazione ferroviaria di San Marcello Pistoiese, Principale centro della
Ferrovia Pracchia-Mammiano, chiusa nel 1965, che si diramava dalla linea
appenninica FS della Porrettana.
“È venuto fuori un caso del genere
anche a Castelfranco Emilia. Un po’ fuori zona ma neanche tanto, tre province e
due regioni: Lucca, Pistoia e Modena, Toscana ed Emilia. In Romagna ancora
niente, ma questo è il primo in pianura.
Per me dovremmo avere qualcuno che
gentilmente ci facesse da talpa anche a Modena.” Ha detto subito Marchigno con
un calice di Chiodino in mano con
implicita scorzetta di limone. Pare che in loco lo chiamassero anche Bicicletta, ma in giro per l’Italia si
trova con nomi ulteriori e diversi, spesso pittoreschi.
“No. Non ce l’abbiamo, magari tu
conosci qualcuno che conosce?” Ha chiesto Giangio agguantando le terza
bruschetta, piuttosto gocciolante.
“Possiamo sentire qualche amico di
amici.” Ha concluso Severino versandosi un po’ di Chardonnay e aveva già in
mente un nome o due.
La serata è proseguita con
discorsi ramificati e tendenziosi, che sono serviti più che altro a cementare
il loro sodalizio. Non hanno fatto un giuramento di sangue, magari perché c’era
gente attorno, ma si poteva intuire che per loro non era solo un gioco per
pensionati annoiati. A cominciare da Severino che tecnicamente pensionato era,
ma più che mai si sentiva come un nostalgico tutore dell’ordine in borghese e a
continuare con il poliziotto in servizio, che non credeva abbastanza nella
polizia, forse perché la conosceva bene. Non che non ci fosse gente valida, lui
stesso ne era la prova ambulante, ma di solito chi ne era a capo andava verso
altre direzioni. Marchigno ha spiegato che in Brasile era peggio, dipendendo
dalla zona, la corruzione non solo era normale, ma il non corrotto era
l’eccezione. Tutti hanno riso, forse esagerava per via del vino e della buona
compagnia.
“Queste cose ormai si sanno. La
polizia, chissà perché, c’ha quasi sempre le mani legate e pure piuttosto
sporche.” Ha detto malinconicamente a un certo punto il Piccinini strizzando un
occhio.
“E noi invece no, quello che ci
manca è altro, non del tutto a dir la verità, ma in teoria siamo proprio noi i
padroni di noi stessi. E poi c’abbiamo la passione per la verità e la
giustizia, non tutti possono dire lo stesso e non tutta la giustizia segue le
idee della polizia e dello stato italiano o straniero che sia.” Ha replicato
Severino. Gli altri hanno approvato.
“Ma che tipo è De Santi?” Ha
chiesto poi Giangio.
“Come essere umano è abbastanza in
gamba, direi, perlomeno mi pare, ma è arrivato da poco, non lo conosco bene. Una
persona di cultura, legge molto, anche in ufficio: libri, giornali e riviste. In
compenso quello che si nota subito è che come poliziotto è un po’ duro di
orecchie, mezzo stronzo, si dà un sacco d’importanza.”
“Per esempio?”
“Qui, anche se tutti glielo dicono
e ridicono, e ora ci sono di mezzo anche la stampa e la televisione, non pare
ancora convinto che si tratti di un serial killer.”
“Quattro morti nel raggio di pochi
chilometri, ammazzati senza motivo, nemmeno le cause dei decessi si sanno.”
“Il motivo ci deve essere, anche
un pazzo un motivo ce lo ha sempre, forse assurdo, ma ce lo ha. Poi ci sono i
semi, il grano. Una cosa simbolica, senza dubbio.”
“Non c’è interesse a rendere
pubblico un gioco al terrore come questo, qui si vive di turismo, il problema è
che questo pazzo non si fermerà, forse ci sono già altri corpi che non sono
stati scoperti.” Ha dichiarato Giangio e un mormorio sommesso ne è seguito.
“Sui corpi sono d’accordo, ma
secondo me invece il turismo aumenterà con questi fatti, la gente non pensa
affatto che possa accadere anche a loro.” Ha commentato Severino e gli altri
hanno scosso la testa pensierosi, forse disapprovando la ragione del collega,
per così dire, che poteva anche essere in pensione, ma era il più alto in grado
tra di loro, sorrideva di rado e solo ironicamente.
La profezia di Severino invece si
è ben presto avverata e lui intanto aveva cominciato a parlarne di più anche
con la moglie, dato che servizi sulle indagini e le novità giornaliere
apparivano anche attraverso numerose televisioni private toscane ed emiliane.
Fatto sta che alla pistoiese Doganaccia
e dalla parte modenese di Fanano veramente il fatturato del turismo in generale
è aumentato. La gente si andava a vedere i luoghi incriminati e si faceva degli
abbondanti selfie, filmati e tik&tok impertinenti e futili.
La stampa e la TV spiegavano che
il tipo di vittima che andava per la maggiore era il commerciante fallito,
l’amante della montagna, preferibilmente del sud Italia, così tutti gli altri
si sentivano al sicuro.
Poi Severino e Giangio hanno
avvertito i compari che la storiaccia sembrava collegata all’altra, quella
dello strozzino Geraldigno o Geraldinho La Porta. Ma come avevano fatto a saperlo?
VI) LA CASA NEL BOSCO (2)
Mi è venuto di
nuovo il sospetto che questa determinata parte andasse messa prima, mi sembrava
che ci stesse bene qui, ma poi ho visto che c’era il primo sopralluogo e mi è
venuto un dubbio, o forse solo quella parte lì era da staccare e mettere in
precedenza. Sorrentino ci viene di nuovo in soccorso a dichiarare che lui pensa
la trama non sia una cosa fondamentale, o che eventualmente non debba
necessariamente rispettare una rigida linea temporale. Dal punto di vista della
scrittura di un copione, giustifica persino un massiccio uso degli avverbi, a
patto che sia esemplicativo dell’originalità e semplicità dell’espressione di
un certo individuo non laureato, tantomeno letterato, cioè di me.
L’amministratore del condominio
del Melo invece diceva che per i topi non c’erano problemi, era già successo, e
che era stata colpa della neve fino a maggio. Purtroppo i topi non c’avevano la
televisione e dovevano ingannare il tempo, ma per fortuna le case avevano pochi
varchi di entrata e quasi mai a piano terra, dove ci si doveva già difendere
dalla neve e dalla pioggia.
A determinata domanda ha risposto
che quei morti umani potevano causare più guai, non aveva l’esperienza
necessaria per stabilirlo, ma avrebbe preferito evitarli, almeno in futuro, che
nel passato, anche se era prossimo, lì non ci si poteva fare più niente.
La famiglia della funivia e del bar
ristorante La Bicocca era una di quelle dei tempi andati, gran lavoratori e
brava gente. Il padre doveva avere un’ottantina d’anni ma lavorava come un
giovane, i giovani che poi erano adulti e sposati, anche di più. Avevano
investito tutto, soldi e vita sulla Doganaccia e avevano paura che gli affari
andassero male, il covid 19 aveva già fatto del suo meglio e quella storia era
ancora lontana da essere risolta.
Moreno, il figlio maggiore, era un
tipo serio, ma assai naturale e simpatico, senza pensarci nemmeno. Una volta
Giangio gli aveva chiesto una sfogliatella alla crema, lui gli aveva detto che
c’erano alla cioccolata, alla ricotta, alla marmellata di mele e alla crema, ma
sembravano tutte uguali. Moreno le aveva tirate su con la pinza apposita, una per
una, guardate con attenzione e azzardato varie ipotesi, tra quelle conosciute.
Alla fine aveva scosso la testa sconsolato e aveva detto: “Direi una bugia.”
Giangio allora gli aveva fatto un gesto con la mano come dire: tiriamo a sorte.
Gliene era toccata una alla
ricotta, ma era buonissima. Ne aveva provata poi un’altra ed era di nuovo alla
ricotta. Alla terza gli era toccata la cioccolata, che era proprio quella che
voleva evitare, ma era buona anche quella e in più ci avevano riso più volte
insieme.
In un'altra occasione sulla
funivia scendevano insieme e c’era anche il padre, Severino gli aveva chiesto
come si faceva per pagare e lui gli aveva spiegato che si pagava in fondo, a
Cutigliano, così se precipitavano avrebbero risparmiato.
Moreno tra l’altro diceva che se
fosse aumentato il fatturato in quella maniera, cioè a ritmo di morti
ammazzati, lui preferiva meno soldi, ma quelli guadagnati senza colpo ferire.
Il fratello minore, che correva
anche in macchina nei rally, approvava e il padre scuoteva la testa con qualche
imprecazione soffocata, diceva che almeno in tempo di guerra si sapeva chi era
il nemico, ora invece no, si combatteva contro i mulini a vento come Don
Chisciotte, si perdeva sempre e comunque, c’era da ammattire. Secondo me, però,
stava parlando del Covid 19.
Una volta, prima della Pandemia,
Mauro e la sua amica Ambrogina, residente a Lecco, erano andati a cena alla
Bicocca. Era maggio e non essendo ancora alta stagione c'era poco movimento. A
pranzo c'era una cuoca, un assistente lavapiatti e una cameriera, ma solo nel
fine settimana, che apriva anche la funivia, se non c’era troppo vento.
Durante i cinque giorni feriali
però erano in due, la sera Moreno si arrangiava da solo, usando le salse e la
preparazione delle varie pietanze fatta dalla cuoca. In più teneva il bar, la
reception dell'albergo e sgranocchiava cioccolata davanti alla TV.
Mauro ordinò ravioli burro e
salvia e invece la sua amica prese le tagliatelle alla boscaiola. La porzione
di Mauro arrivò striminzita e invece quella della sua amica che era anche
piccola, magrolina e mangiava poco, era stranamente gigantesca. Di secondo
Mauro prese le scaloppine al limone e lei invece la tagliata alla rucola. Anche in questo caso le porzioni erano nettamente
sbilanciate dalla parte della signora, che di entrambi i piatti dette quello
che le avanzava a Mauro, il quale specialmente in montagna da una buona
diventava un’ottima forchetta.
Essendo tale comportamento poco professionale, ma anche una cosa buffa a
vedersi, i due si erano divertiti abbastanza e si erano chiesti se non era
stato fatto di proposito. Si erano risposti che probabilmente il ragazzone
aveva fatto del suo meglio, ma non era certo un cuoco. E poi avevano mangiato
bene e avevano riso del povero - ma ricco - Moreno che faceva tutto lui,
conversando rapidamente con loro, sparendo in cucina a preparare le pietanze e
andando su e giù dalla scala per tornare al bar e alla reception dell’albergo.
Il primo sopralluogo lo hanno
fatto tutti insieme alla casa in questione che era grigia, di pietra a vista,
si trattava di roccia locale tagliata a strati, piuttosto bella e originale
come design, le pareti in leggera pendenza verso l’interno, in uno stile finto
antico oppure falso moderno, ma finestre e porte erano sfondate, dentro e tutto
attorno era abbandono e rovina. C’era anche una piscina coperta con una
struttura di metallo e vetro che, opportunamente riscaldata, con numerosi
pannelli solari sul tetto, permetteva di fare il bagno anche d’inverno con la
neve intorno. Ora distrutta, non si sapeva se erano stati dei vandali ma Lia
aveva commentato che era stato il peso della neve. Severino le ha chiesto se
era stata una sua pensata o se lo aveva sentito dire, la seconda cosa che hai detto, ha risposto lei, che si godeva
spesso su Youtube il comico Corrado Guzzanti e il suo personaggio Quelo, anche sua sorella Sabina, pure
Caterina, ma non apprezzava il padre Paolo, giornalista ogni tanto riesumato
dalla televisione, ma solo quando al sistema faceva comodo.
In quel giorno di nebbia fitta
stavano andando a visitare di nuovo la casa abbandonata, Giangio e Severino
erano assai ciarlieri e arzilli, gli altri due più assorti e silenziosi, solo
che c’era un’umidità che entrava nelle rispettive giacche e sotto nelle
relative ossa.
Arrivati al luogo del delitto
numero uno, almeno nella loro cronologia della scoperta, hanno avuto la
sensazione collettiva di un’ombra infilarsi tra gli alberi. Poteva essere
chiunque o qualsiasi animale, lo hanno rincorso, qualsiasi cosa esso fosse, ma
le loro gambe erano troppo molli e la nebbia assorbe e attutisce anche i rumori
e non sono riusciti più a vedere niente, di quello che avevano solo sentito e
nemmeno visto prima.
Giangio ha detto che quelle erano
nuvole basse, non era nebbia, perché si muoveva a banchi, era fitta ma andava e
veniva, il vento e la nebbia di solito non convivono. Severino era uno scettico
naturale ma convinto, non ci ha creduto più di tanto e poi in quel momento non
gliene importava.
Mauro Pelosi si è un po’
spaventato, Marchigno invece è rimasto a pensarci, giustamente poteva essere
l’assassino che tornava sul luogo del delitto, ma anche un cinghiale che
cercava radici tenere da mangiare, un lupo, magari anche un tasso...
Invece ero io.
VII) SU E GIÙ
(6)
Determinate indiscrezioni pare che accennino al fatto che Nara leggesse
tutto ad alta voce mentre ricopiava le annotazioni e poi le arricchisse di
particolari. Se prima andava dietro all’ex, poi si era appassionata alla storia
intera. Cose che probabilmente succedono solo sulla terra.
Lei era contenta che suo marito
fosse impegnato in qualcosa che lo catturasse quasi completamente, il suo
meccanismo mentale ne aveva bisogno, considerava che in fondo per lui era la
miglior maniera per non cadere in depressione.
Severino e Bice sono rimasti alla
base delle operazioni, visto che la sorella era contenta che ci stessero loro e
quell’estate non avrebbero nemmeno usato il loro appartamento, era in programma
una vacanza non proprio all’estero, ma quasi, insomma in Puglia e Calabria,
forse persino in Lucania e Trinacria.
I due pensionati dovevano scendere
a valle ogni tanto, se ne andavano a vedere come stava la loro casa e a fare
una spesa più a buon mercato e fornita di prodotti che in montagna non si
trovavano.
Visto che andavano e venivano,
dalla valle alla montagna, Severino era sempre rimasto in contatto telefonico
con la bambina, lui usava poco il computer, meno ancora le reti sociali, ma si
era fatto un profilo Facebook solo per parlare con lei, all’occorrenza usavano
anche Skype.
Sua moglie non sapeva cosa
pensarne, di questo contatto tra un vecchio orco e una bambina, lui le
suggeriva di non pensare a niente, se proprio ne avesse bisogno, che pensasse
ai fatti suoi e non a quelli degli altri.
Ogni tanto andava a trovare Lia,
allora i genitori hanno chiesto, al nonnetto acquistato Giangio, se era tutto a
posto, lui ha detto di sì, che diamine, conosceva Severino da una vita.
Sono andati a fare delle
passeggiate a Pistoia, perfino allo zoo e in Pizzorna, che è un altopiano
vicino, ma già in provincia di Lucca, a mille più o meno esatti metri di
altezza.
Lia leggeva di nascosto le cose
che i due genitori pubblicavano sui social, insomma, le e-mail di lavoro più
tante altre cose mezze proibite dalla legge, ma certo non gliele poteva dire a
lui, che come il suo nonnetto erano pericolosi da quel punto di vista lì.
Di confessabile e positivo c’era
che i suoi genitori erano fedeli l’uno all’altro e di questo lei era contenta,
visto il panorama desolante che offrivano i genitori delle amiche, mezze hacker
anche loro, alcune pure tre quarti, ma ovviamente all’insaputa dei relativi
genitori.
“Madonna mia! Ma il il tradimento non è solo un esercizio
di sessualità a bassa definizione, no, no, io penso che abbia una sua definita
e lodevole dignità e soprattutto che non debba essere giudicato da quei figli
adulti che, nel condannarlo, ahimè pensano di più alla loro quiete perduta che
piuttosto al percorso anche drammatico in cui chiunque di noi, e dico chiunque,
a un certo punto della sua vita, può venirsi a trovare. No, no, tradire un
amore, tradire un amico, tradire anche un'idea, tradire un partito, tradire
persino la patria significa infatti e pittosto svincolarsi da un'appartenenza e
creare uno spazio di identità finalmente non protetta da alcun rapporto
fiduciario, e quindi in un certo senso più che autentica e vera.
Nasciamo infatti nella vulnerabile ma incrollabile
fiducia che qualcuno ci nutra e ci ami, ma possiamo invece crescere e diventare
noi stessi solo se usciamo da questa fiducia indotta, se non ne restiamo
prigionieri come tutti, se a coloro che per primi ci hanno amato e a tutti
quelli che dopo di loro sono venuti, un giorno sappiamo dire:
"No! Non sono e non voglio nemmeno essere come tu mi
vuoi".
C'è infatti e purtroppo in ogni amore, da quello dei
genitori, dei mariti, delle mogli, degli amici, degli amanti a quello non meno
forte delle idee e delle cause che abbiamo – ignari o consapevoli - sposato,
una determinata forma di possesso che più che sviluppare la nostra crescita la
arresta e costringe la nostra identità in formazione a costituirsi solo
all'interno di quel recinto che è la fedeltà che non dobbiamo tradire. Ma in
ogni umana fedeltà che non conosce ‘sto cazzo di tradimento (e neppure ne ipotizza
la possibilità effettiva) c'è troppa infanzia, troppa ingenuità, troppa paura
di vivere con le sole nostre forze, troppa questa incapacità di amare se appena
si annuncia un potenziale profilo d'ombra. Eppure questo esiguo profilo
d'ombra, quella lì, che puerilmente chiamano "fedeltà" è l'incapacità
di abbandonare lidi protetti, di uscire a briglia sciolta e a proprio rischio
verso le regioni sconosciute dell’esistenza che si offrono solo a quanti sanno
dire per davvero "addio".
E in ogni addio c'è lo stigma del tradimento, vabbene, ma
anche dell'emancipazione. C'è ‘sto lato oscuro della fedeltà che però è anche
proprio quello che le conferisce il suo significato e che la rende possibile.
Fedeltà e tradimento devono infatti l'una all'altro la densità del loro essere
che emancipa non solo il traditore ma anche il tradito, risvegliando l'un
l'altro dal loro sonno e dalla loro pigrizia emancipativa impropriamente
scambiata per "amore".
Gioco di prestigio di parole per confondere le carte e
barare al gioco della vita. La vita è un gioco la cui prima regola è: non è un
gioco.
Il traditore di solito queste cose le sa a memoria, assai
meno il tradito che, quando non si rifugia nella vendetta, nel cinismo, nella
inutile negazione o nella fottuta paranoia della scelta, finisce per
consegnarsi a quel tradimento di sé che è la svalutazione di sé stesso per non
essere più amato dall'altro, senza così accorgersi che allora, nel tempo della
fedeltà, la sua identità era solo un regalo dell'altro. Tradendolo l'altro lo riconsegna
a sé stesso, e niente impedisce di dire a tutti coloro che si sentono traditi
che forse un giorno hanno scelto chi li avrebbe traditi per poter incontrare sé
stessi, come un giorno Gesù scelse Giuda per incontrare il suo destino.
Sembrerebbe infatti che la legge della vita sia scritta
più nel segno del tradimento che in quello della apparente sicurezza della
fedeltà, forse perché la vita preferisce di più chi ha incontrato sé stesso e
sa chi davvero è, rispetto a chi ha evitato di farlo per stare rannicchiato in
un'area, che egli crede protetta, dove la convenzione dei nomi fa chiamare
fedeltà e amore quello che in realtà è insicurezza o addirittura rifiuto di
sapere chi davvero si è, per la paura di incontrare sé stessi, un giorno
almeno, prima di morire, con il rischio di non essere effettivamente mai nati.”
E questo
qui non lo dico io, magari per giustificare a me stessa le mie ramificate
magagne, no, lo dice un inappuntabile e cazzuto socio-filosofo contemporaneo:
Alberto Di Galemba.
Il senso della vita, anche dal
punto di vista commerciale, era vero che Lia non lo comprendeva ancora - la
maggior parte della gente non lo capisce in una vita intera, non facciamo nomi
- ma arrivava senza alcuna fatica a considerare che era intrigante per lei, bambina
già mezza adulta, e per la rimanente dichiarava di essere quasi tre quarti
hacker.
Anche perché di queste cose suo
padre ne aveva dibattuto con i suoi amici e avevano fatto determinati commenti
anche con mamma, a volte quando Lia era in un’altra stanza e loro pensavano che
non udisse.
Commenti che naturalmente non
poteva riferire.
Insomma giocava a fare la persona
adulta, come i bambini anelano sempre essere, una volta cresciuti invece
vorremmo tornare a essere bambini. Uno dei meccanismi più umani che esistono,
si vuole sempre quello che non si ha, e che spesso non si può avere, purtroppo.
Sua moglie Bice ha chiesto di
nuovo a Severino cosa ci trovava di bello a chiacchierare con una bambina, nel
caso in questione con Lia, lui ha risposto che era assai simpatica e
intelligente, che lo faceva sentire nonno, anzi meglio ancora: un nonno giovane
e attualizzato, su tante cose lo obbligava a documentarsi, a confrontarsi con
il mondo attorno in eterno cambiamento: insomma i giovani, l’attualità, la
televisione e l’internet, tutto.
Cosa che i loro figli a suo tempo
non erano riusciti a fare, forse anche perché lavorava troppo, era impegnato e
assorbito altrove. Non che lo avesse notato o chiesto, ma dopo ne aveva sentito
la mancanza, quando era già troppo tardi.
Intanto pareva che i pesci
abboccassero già, arrivata effettivamente una specie di timida primavera e
Giangio aveva proposto di presentare a Severino i genitori di Lia, il quale già
da sé era ansioso di conoscere, per via del fatto che avevano tirato su una
ragazzina sveglia e affabile come quella.
L’ex capitano è andato a pescare
nel laghetto di S.Giovanni Gualberto con Giangio, hanno preso diversi cavedani
e due discrete carpe. Dopo averli fotografati li hanno rimessi in acqua. I
pesci erano contenti, ma stavano meglio prima.
C’erano anche i genitori di Lia,
intervenuti in un secondo momento e suo padre ha anche provato a pescare,
dimostrando innate capacità per il lancio della lenza con forza e precisione
notevoli, per uno che ci provava per la prima volta, tanto da insospettire
Severino, che dubitava per principio, anche quando non ce n’era effettivo
bisogno.
Il canuto con i baffi talvolta
ragionava sulla storia già avvenuta, per capire quella che doveva ancora
arrivare, lo stesso metodo usato dal noto futurologo Toffler, ma non l’aveva
affatto copiato, ci aveva pensato forse prima lui, magari anche senza
rendersene conto.
Di Toffler un giorno gliene
parlerà Mauro. Lui noterà che combina con questo suo, si ricorderà il
ragionamento, ma non il nome.
Pescando e discorrendo veniva
costantemente ragguagliato da Giangio sugli sviluppi delle sue pensate sulle
loro indagini, ma solo se in giro Carlo non c’era e nemmeno Lia… e naturalmente
sulla storia della Doganaccia e della zona di confine regionale in questione.
Per quest’ultimo tipo di dibattito non c’erano limitazioni, era aperto a tutti.
Come anche quel giorno, appena
arrivati, quasi per caso, ecco anche Mauro Pelosi con il relativo cane Pippo a
guinzaglio, bassotto attempato e sovrappeso, da strusciare quasi la pancia per
terra.
Appena è stato possibile se sono
andati a fare un’ispezione sul luogo del vicino delitto emiliano e modenese, il
poliziottesco aiuto mutuo tra compagni di carabinierato aveva dato prova di
valere ancora qualcosa, pure nell’epoca moderna. I semi di grano c’erano anche
lì, hanno potuto vedere le foto, ricevute da amici di amici carabinieri per
internet, mandate segretamente a Marchigno del caso di Castelfranco.
Mauro conosceva un valido
alternativo in zona, Olavo Bertocchini, psicologo barbuto e marxista,
intellettuale comunista a oltranza, ma non privo di autocritica, avevano già
fissato in una data prossima un pranzo-assemblea da Bollo, trattoria della
vicina Panzano, e lì ci si mangiava anche bene assai. Olavo aveva un amico, nonché
uomo di fiducia, in polizia a Carpi, che conosceva altri dissidenti niente
affatto dissimili, in ulteriori zone della provincia modenese.
Seguendo tutto con la mente
infervorata, ma non applicando la sua ingenuità bambina, voleva ma non poteva
portare Lia a vedere la scena del crimine, anche se forse lei gli avrebbe dato
qualche pista utile, ma lei aveva capito che lui era lì per altre cose e lo
teneva d’occhio.
“Nonnone,
perché dal momento che ti ho conosciuto agisci in modo strano e quando arrivo
tu e il nonnetto cambiate argomento alla svelta?” Gli ha chiesto Lia a
bruciapelo.
“No, ma che dici? Un po’ magari
hai ragione, ma sai, devi sapere che noi vecchi abbiamo degli argomenti che non
sono adatti per i bambini, anche se sono intelligenti e ficcanasi…”
“Ma qui non si deve fare il
plurale, si dice ficcanaso e basta.”
“No, infatti, hai proprio ragione,
ma devi capire che i tuoi genitori non approverebbero se noi ti parlassimo di
certe cose…”
“Se è per quello non approvano
nemmeno che voi veniate qui a comportarvi come degli agenti segreti… e poi
credi che non abbia capito che qui hanno ammazzato della gente e voi state
facendo un’indagine di nascosto e parallela se non perpendicolare a quella
della polizia?”
Qui è intervenuto Giangio e ha
detto e fatto con molto più tatto e tattica quello che Severino non era
riuscito a esprimere. Lei ha fatto finta di crederci, ma negli occhietti si
leggeva ancora il dubbio, a guardarci bene. Voleva essere trattata come
un’adulta, ma nessuno lo faceva, a cominciare dai genitori. I due pensionati
sapevano entrambi che Lia aveva ragione, i bambini non dovrebbero essere
trattati proprio come bambini. Fin dall’inizio le avevano inventato
confortevoli bugie, però con un fondo di verità, anche se mischiate a caso con
altre verità e fondi di bugie.
Per Lia e Bice, Severino era come
un ippopotamo che voleva fare il cavalluccio marino, ma non gli riusciva e
risultava, alla fine, una specie di ornitorinco sovrappeso e piuttosto
imbranato.
Ma era solo apparenza?
No, forse non solo.
Anche i suoi genitori si
comportavano così con lei, per questo Lia era così svelta e sempre un passo
avanti agli altri.
“Pulci-pulci-pulci! Non ci sai
fare con i bambini te, e meno ancora con le bambine, non devi fare così con
lei, le hai messo una pulce in più al naso.” Gli ha detto poi Giangio appena
sono rimasti da soli. Severino ha grugnito, sapendo che l’altro aveva ragione,
ma non ci poteva far niente.
Prima di tutto ha pensato di farsi
amico Carlo, che pareva un uomo aperto e incline a vedere le gelosie come un
ostacolo inutile e stupido, una buffa tendenza femminile che anche lui stesso,
personalmente, non prendeva tanto sul serio.
In un secondo momento Carlo non
gli pareva molto convinto però e poi anche poco naturale, sembrava nascondere
qualcosa che in quel momento non poteva certo capire.
Parlando con Bice tutti questi
particolari venivano fuori indirettamente, ma lui le raccontava i fatti per
filo e per segno, difficile che si dimenticasse di qualcosa.
Comunque era raro che Carlo
potesse andare in giro con loro, se ne stava al lavoro tutto il giorno, per via
di collaborazioni con ditte varie cui faceva manutenzione del lato informatico
e altre applicazioni di internet che Severino non comprendeva a fondo e forse
neanche più in superficie. E la moglie pure non stava troppo lontana dal suo
centro delle notizie e delle attività computerizzate. Salvo qualche pranzetto,
merenda e cena, ma prefabbricate e veloci da preparare e consumare in tre. Non
era prevista alcuna presenza supplementare, Giangio era un veicolo per loro, al
quale potevano lasciare Lia, per comodità.
“Pare che il
morto del rifugio fosse anche lui un commerciante caduto in disgrazia, anche
lui del sud, la presenza del grano potrebbe essere simbolica e rappresentare il
denaro che loro dovevano a qualcuno, potrebbe essere un usuraio, magari legato
alla Mafia.” Ha commentato distrattamente Lia, mentre pescavano al laghetto,
insieme a Giangio. Ci sono rimasti di sasso, il silenzio scalfito appena dalla
brezza e stormire relativo e lieve di fronde, c’è voluto qualche secondo prima
che qualcuno parlasse.
“Ma quei topi non avevano proprio
dei nipoti?
Nemmeno lontani?” Ha chiesto
Giangio sorridendo alla bambina, come confermando una cosa di cui stavano
parlando prima.
“Forse sì.” Ha risposto invece
Severino serio e apparentemente distante.
“O magari no. Poi vediamo.” Ha
concluso il nonnetto. Lia ha sorriso contenta. Era riuscita a colpire nel
segno, anche se forse non sapeva bene quale, magari ci avrebbe pensato dopo.
VIII) NUCLEO CONTROEGEMONICO (4)
Diciamo che dove di questo passo sarebbe andato a finire
il mondo se lo chiedevano un po’ tutti, ma in fondo se lo erano sempre chiesto,
dalla notte dei tempi e non erano mai riusciti a rispondere se non con il senno
di poi, alle domande sul futuro che piuttosto velocemente diventava passato,
almeno nel cervello e nel cuore, senza quasi mai passare dal solito presente in
questione, perlopiù ignorato.
Ogni tanto Lia chiedeva a Severino
per telefono delle cose, o anche per e-mail o attraverso Facebook, cercava di
non fargli capire perché chiedeva e dove lo aveva sentito, ma tutti e due
intuivano cosa stava succedendo.
Aveva cominciato anche a usare un
cannocchiale giacché aveva notato più persone aggirarsi intorno a casa di
Giangio. Glielo ha detto anche, ma Giangio non le ha dato troppo credito,
allora lo ha riferito a Severino il quale è andato a visitare i dintorni della
casetta, ha trovato tracce di scarpe che coincidevano con quello che la bambina
gli aveva riferito. Un uomo e una donna, a giudicare dalle calzature ed entravano
anche in casa.
Giangio è caduto dalle nubi, ma
non era sparito niente e non sapeva proprio cosa pensare di una cosa del
genere.
Il luogo del primo delitto Lia lo
andava anche a visitare spesso e i nastri della polizia non la spaventavano, ma
la facevano sentire ogni volta al centro di un mistero e di un meccanismo che
la incuriosiva sempre di più.
Lo svantaggio però c’era anche, ed
era che la bambina, per quanto precoce, non aveva idea della ferocità degli
esseri umani, forse questo l’aiutava e la ostacolava, dipendendo dalle
situazioni. Paura non ne aveva, forse proprio perché era ancora lontana da
immaginarsi tutto ciò che si può conoscere con l’esperienza, su quello che
certe cosiddette persone possono fare per togliere agli altri quello che hanno,
ma anche facendo cose non necessarie, non per questo meno esagerate, o forse
meglio sarebbe dire malate.
Su Facebook poi Lia gli ha mandato
un testo interessante, a Severino, ma lui si è chiesto subito cosa ci potesse
capire una bambina di otto anni.
“La mente
umana è naturalmente portata a dilettarsi dell'uniforme”, intuì Vico; c’è
insomma uno svantaggio intrinseco, strutturale, nel vero cambiamento, in quanto
chi lo propone deve essere in grado di dimostrarne i meriti senza poterne far
fare esperienza: l’avvenire è sempre un’astrazione. Ora, la capacità di pensare
astrattamente e dunque di imparare dal passato e di anticipare il futuro è ciò
che ci distingue dagli animali; quando tale pensiero invece di esaurirsi in un
sentimento irrazionale (negativo come l’angoscia o come il fatalismo o positivo
come la speranza) si costringe all’uso della ragione, della logica e
dell’analisi e si organizza in un progetto di lunga durata, allora nasce
l’ideologia, concetto denigrato dal liberismo comunque travestito proprio per
queste sue caratteristiche di persistenza e di rigore.
Non è un caso che il fondatore della politica moderna,
Machiavelli, la inventò pensando a un principe nuovo, appena arrivato al potere
spodestando chi ce l’aveva da generazioni. Quest’ultimo non aveva (e non ha)
bisogno della politica: a far sì che tutto resti come prima basta l’inerzia,
dunque il disinteresse per la politica; basta che ciascuno si faccia i fatti
suoi, per egoismo, paura o rassegnazione. L’egemonia, una volta raggiunta, non
può venire sconfitta e neppure messa in difficoltà dalla denuncia dei suoi
abusi e delle sue contraddizioni e menzogne: non sarebbe egemonica se non fosse
in grado di persuadere la gente che quegli abusi non sono tali ma anzi
provvedimenti necessari, che quelle contraddizioni sono coerenza e quelle
menzogne verità. L’egemonia si sconfigge solo aggregando un blocco
controegemonico, ossia aggregando e ideologizzando quelle che altrimenti
resterebbero inefficaci insoddisfazioni, inespresse frustrazioni, velleitari
rancori.
Francesco
Erspamer
Severino ha chiesto a Lia cosa
significava quel testo per lei, se lo capiva completamente e dove lo aveva
preso. Gli ha risposto che lo aveva rubato a suo padre, diciamo solo preso in
prestito.
Gli ha spiegato che lei era già
una mezza hacker, forse anche tre
quarti o più. Poi gli ha spiegato pazientemente, con gli occhi al cielo, cosa
era un hacker. Ma Severino lo sapeva
già, ogni tanto le faceva delle domande anche solo per sentire la forbita
spiegazione con le sue parole.
Rileggendo quel testo che gli
aveva mandato Lia, gli è venuto in mente che il loro blocco controegemonico di
un poliziotto in servizio diagonale e tre pensionati non professionisti, anche
se c’era un cospicuo ex, gli pareva abbastanza forte. Quello che dovevano fare
era contro le regole, le abitudini, le consuetudini, le comuni maniere di
pensare, vale a dire l’egemonia, purtroppo.
IX) DA BOLLO A PANZANO (7)
Figurarsi
che Nara, quando non poteva farlo personalmente, mandava anche Catello, uno dei
suoi scagnozzi prezzolati, cugino del suo attuale compagno Ginulfo, per seguire
e registrare tutto quello che faceva l’ex marito Giangio. Di solito non
rimaneva affatto soddisfatta del suo operato, delle relative e prolisse
annotazioni, che le evidenziavano aspetti per lei molto meno interessanti ed
evitando invece i punti che a lei premevano di più.
Se ne sono andati tutti e quattro
a Panzano, nel comune di Castelfranco Emilia, dove nella trattoria da Bollo,
chiamato così per la sua faccia piatta, ovvero senza eccessivi rilievi. Il
Bertocchini aveva riservato una saletta.
Catello ne ha approfittato che non
lo conosceva nessuno e si era messo appena aldilà con un registratorino portatile
e varie cassette, per fortuna la saletta aveva un acustica buona e da fuori non
si sapeva chi parlava, ma le parole si capivano bene assai.
Bice mi ha riferito poi anche
quello che il maritozzo le aveva a sua volta relazionato e i fatti combaciavano.
La riunione è stata oltremodo interessante, ma pur anche piuttosto complicata.
I particolari della cammuffata
morte non violenta di Cosimo Stellato a Castelfranco erano i soliti, manco a
dirlo, il quasi dissidente poliziotto Traspedini ha partecipato anche lui alla
cena. Soprattutto sullo spezzatino si è fatto valere e ha trangugiato più vino
di tutti, ma senza quasi proferir parola.
Hanno cominciato con i tortelloni
al sugo, proseguito con secondi misti di Pianura Padana. Alla fine mangiato
bene assai e bevuto anche meglio. Bollo in persona, dopo la fatica ai fornelli
si è unito al gruppo, per bersi un bicchiere anche lui e commentare, a suo
modo, la vita del ristorante e quella del mangiare sano. La moglie, che serviva
ai tavoli, non era tanto comunicativa, meglio così.
Olavo pure ha studiato quegli
individui e la situazione fino al dessert, partecipando alla facezie,
osservando e tacendo alla parte delle cose serie. Con la barba lunga e gli
occhietti frizzanti ricordava forse lo stesso Marx e comunque stava zitto, ma a
suo modo approvava, sorrideva e sentenziava in silenzio.
“Sei una specie di macellaio,
insomma.” Lo ha provocato Mauro Pelosi, dopo una debita sorsata di grappa
offerta dalla casa. Qui tutti i cervelli erano pressoché anestetizzati dal vino
e ottenebrati dalla digestione relativa alla spanciata di ottimo cibo, meno
quello di Olavo Bertocchini.
“Beh, in sintesi sono discipline
simili, non squarto i morti però viviseziono i vivi, ma di quest’ultimi solo il
cervello e il cuore. Magari è anche più interessante.”
“Quindi pensi che ci sia del
marcio in Danimarca?”(evidente quanto
fuori luogo riferimento allo Shakespeare di Amleto)
“Sì, qui c’è uno psicopatico a
dirigere questo traffico di sangue umano in cambio di soldi. Qualcuno piuttosto
malato ma anche intelligente, un selvaggio ma metodico boia.”
“Che vuoi dire?”
“Tu mi conosci. Io non sono uno
strizzacervelli classico, ma sappiamo entrambi che il pensiero umano ricorre
spesso a delle scorciatoie per arrivare alla soluzione di problemi specifici, senza
però liberarsi dalle proprie idee preconcette.
Succede così che, in alcuni
soggetti, la mente tende a confondere ciò che è tipico con ciò che è possibile,
o probabile, tanto da ritenere statisticamente vero per le piccole serie quello
che è quasi vero per le serie molto lunghe e vero soltanto per le serie
infinitamente lunghe.”
“Non ci ho capito granché.” Ha
detto Giangio e gli altri, tra i ruttini soffocati, hanno approvato.
“Partiamo da più lontano. Non è che noi professionisti del ramo ci sentiamo padroni
della verità, ci sorprendiamo spesso a osservare alcuni soggetti più
interessanti, eppure sistematici anche loro, alla loro maniera.
Nell’attraversare l’ambito della loro routine, nello scorrere turbolento delle
loro vite tanto piene di attività frenetica quanto scarse d’idee costruttive,
di direzioni, di prospettive vere.
Ciò
nonostante potremmo affermare che ci siano delle persone che raggiungono una
tale purezza di risultati, sia in quantità che in qualità, che, per forza,
devono aver avuto una grande determinazione, continuata decenni, per
riuscirci.”
“Qui
stavi scherzando, spero!”
“Ovvio,
ma abbiamo ragione di credere che ci piacerebbe provare a essere come loro,
magari solo per poco tempo, forse per via della loro perseveranza nel far
sistematicamente finta che tutto quanto gli sarebbe utile sapere e - magari -
di conseguenza fare, semplicemente non esiste, se non nella loro mente.
La
loro insistenza nell’errore distratto, sistematico e catastrofico, ha
indubbiamente un qualcosa che noi non riusciamo a capire, ovviamente nemmeno a
praticare.
Non
per questo non l’ammiriamo e aggiungiamo persino che ambiremmo a possederne
almeno una dose, ma ci viene anche il sacrosanto dubbio che ce l’abbiamo già in
noi, magari ha contaminato, da tempo immemorabile, tutto il nostro essere e
proprio per questo non ce ne rendiamo conto.”
“Ora
sì che mi hai confuso definitivamente.” Giangio era diventato il portavoce di
tutti i presenti, eccetto Mauro che era del mestiere.
“Sì,
hai ragione, ora cercherò di essere schematico.
Da un
punto di vista un po’ più scientifico, per spiegare la situazione attuale, i
tasselli mancanti ci sembrano essenzialmente due:
1)il
Bias di Conferma
2)la
Tendenza Psicopatica dell’umanità del cosiddetto mondo occidentale.
Il
Bias di Conferma è un errore che la nostra mente compie ogni volta che ci
giungono dati che confermano, oppure correggano le nostre credenze.
In un
caso le informazioni vengono lasciate entrare e conservate, nell’altro, come si
suol dire, esse entrano da un orecchio ed escono dall’altro.
La
nostra mente prende atto dei dati che riceve in modo selettivo, notando e
sopravvalutando le informazioni che confermano le nostre credenze e ignorando o
sottovalutando le informazioni che le contraddicono.
Siamo
tutti soggetti a tale fenomeno, ma alcuni di noi lo sono in misura maggiore di
altri, e possono giungere, occasionalmente o sistematicamente, a negare
addirittura l’evidenza.
Ci
piaccia o no, il modo in cui è strutturata la nostra mente è quello che è, per
cambiarla bisognerebbe prima capirla e ci si sta provando da sempre.
La
nostra mente burlona è pronta a tutto pur di proteggersi da interpretazioni
della realtà che essa non è pronta ad affrontare, conservando anche contro ogni
logica una visione familiare e rassicurante delle cose.
La
mente umana arriva sistematicamente alle conclusioni alle quali le conviene
giungere, delle altre se ne frega o le rifiuta con tutta la sua forza.
Proprio
per controbilanciare questa tendenza cognitiva umana, il metodo scientifico
richiede che noi cerchiamo di provare la falsità delle nostre ipotesi, ma
questo è ovviamente troppo faticoso e ci vuole del tempo che noi non abbiamo
più, anzi, ne abbiamo sempre meno.
Prova
a guardare due persone che discutono, quante persone hai conosciuto che cercano
veramente di capire la verità?
Questo
biotipo di umano è rarissimo, tutti gli altri cercano solo di dimostrare di
aver ragione e ancor di più che l’antagonista abbia decisamente torto, in
maniera anche aggressiva.
Il
Bias di Conferma cambia la nostra idea d’intelligenza umana, per cui vediamo
con chiarezza che troppa gente è sprovveduta, non possiamo fare a meno di
notare che più sono coglioni e più si credono brillanti.
Certo
che la maggior parte di loro crede di star facendo qualcosa di buono, alcuni
anche meraviglioso o stupendo, almeno per sé stessi, ma in realtà fanno
principalmente del male agli altri e indirettamente, magari più a lungo
termine, pure a sé stessi.
Poi,
alla fine, non ne ricavano nemmeno il vantaggio che desideravano, ma non per
questo ne traggono insegnamento, per un eventuale futuro anche prossimo: no,
insistono e raddoppiano la dose.
Vantaggio,
questo, che se a volte ce lo hanno anche avuto, almeno all’inizio, è evidente
che poi la situazione gli è scappata di mano e dopo si sono dimenticati anche
di quello che stavano facendo, ma continuando a farlo, ancora ed ancora.
I
politici hanno fatto del Bias di Conferma una maniera di vivere, è diventata la
loro routine: negano sistematicamente ogni evidenza a disposizione; si sa già che
faranno proprio quello che, indignati, giurano e spergiurano che mai farebbero
per niente al mondo; sulla testa dei propri figli negano di aver detto quello
che hanno appena finito di dire.
Sono
forse essi dei bugiardi, malintenzionati e basta?
No, non
tutti, non completamente, almeno, molti credono di dire se non la più pura
verità, di agire per il bene della gente, dei loro elettori, dell’Umanità
intera, in alcuni casi.
Ci
risulta che l’Organizzazione Mondiale del Commercio, le multinazionali e le banche
siano fatti anche loro di persone, cioè di terrestri simili in tutto e per
tutto a noi.
Eppure
non sembra, da come si comportano, pare che vivano in un altro pianeta, o forse
in un’altra dimensione.
Dove
vivranno i loro figli?
Che
tipo di futuro si stanno scavando con le loro stesse mani?
Oltre
a questo, quotidianamente, leggiamo sui giornali e riviste, vediamo nei
telegiornali, episodi che non sono più eccezioni, diventano sempre di più la
regola.
Omicidi
crudeli, assassini in serie, terroristi, pedofili, maltrattamenti ai bambini,
torturatori di donne, leader religiosi senza scrupoli, imbroglioni e
professionisti sleali...”
“Non
l’hai presa un po’ troppo larga?” Stavolta ha chiesto Mauro.
“Sì,
ma era necessario per arrivare ai nodi essenziali, ci vuole un po’ di
preparazione, ma aspettate che ci arrivo velocemente.
Dunque:
tutti questi problemi si sono aggravati, in modo straordinario, per causa
dell’azione di psicopatici e di persone che adottano modi psicopatici di
convivere con le altre.
Se
questo succede è perché la nostra società ha fondamento in valori e pratiche
che, come minimo, favoriscono maniere psicopatiche di essere e di vivere.
In
qualche modo stiamo contribuendo a promuovere una cultura nella quale la
psicopatia trova un campo assai fertile per poter crescere.
L’ideologia
sulla quale si basa la cultura dei nostri tempi ha tre principi fondamentali:
1)individualismo
2)relativismo
3)strumentalismo
Senza
entrare troppo nell’ambito della filosofia, i tre principi possono considerati
in questa maniera:
1)L’individualismo
predica la ricerca del miglior tipo di vita di cui poter usufruire. S’intende
il miglior tipo di vita quello che include l’auto-sviluppo, la
auto-realizzazione e l’auto-soddisfazione. In sostanza: gli altri che si
fottano. In questo ordine di idee l’individuo ha l’obbligo morale di procurarsi
la sua felicità a svantaggio di qualsiasi altro obbligo con gli altri.
2)Secondo
il relativismo tutte le scelte sono ugualmente importanti, poiché non esiste un
modello di valore obbiettivo che ci permetta di stabilire una qualsiasi
gerarchia delle maniere di comportarsi. Così qualunque azione che porta
l’individuo a raggiungere auto-soddisfazione è valida e non può essere
questionata.
La
dottrina dei relativisti è molto seducente: non esistono verità, ogni
ideale si equivale, ognuno ha il diritto di seguirlo senza alcun vincolo.
La
tesi per cui unica bussola dell'agire umano dovrebbe essere fa' ciò che desideri, senza nessuna riflessione seria sul bene oggettivo
della persona, né del suo immediato prossimo, è una tesi
che sembra salvaguardare la libertà individuale, ma agisce anche e
soprattutto al contrario, perché invade la sfera personale altrui, balla allegramente
la rumba sui piedi del suo prossimo.”
3)Lo
strumentalismo afferma che il valore di qualsiasi cosa fuori da noi è solo un
valore strumentale, ossia il valore delle persone e delle cose si riassume in
quello che loro possono fare per noi.
L’espansione
della cultura moderna, piena di tratti psicopatici, ha modificato in maniera
drastica le nostre relazioni familiari e sociali.
Stiamo
perdendo il senso di responsabilità comune nel campo sociale e di vincolo
significativo nelle relazioni interpersonali. L’aumento implacabile della
violenza è una risposta logica e prevedibile a tutta questa situazione.”
“D’accordo.
Ma cosa ha a che fare quello che dici con il nostro caso?”
“Beh,
è presto detto: direi che qui dietro c’è uno psicopatico che agisce in maniera
sistematica.”
“Dici?”
“Di sicuro.
Considerate: ci sono 69 milioni di psicopatici nel mondo, l’1% della
popolazione mondiale, 20% della gente che è in prigione, 86,5% dei serial
killer.”
“Sì?”
“Sì. È 4
volte più comune trovare psicopatici nelle imprese che nella popolazione in
generale.
Lo
psicopatico non ha sentimenti, ma sa riconoscere, interpretare e poi usare,
meravigliosamente bene, i sentimenti degli altri. Mostra ammirazione per il
talento e per i punti forti della vittima. Vuole essere visto come l’unico che veramente
nota il suo potenziale nascosto. Identifica perfettamente le caratteristiche
della personalità della vittima e finge di condividere gusti ed interessi. La
vittima, pensando di aver trovato finalmente un amico, gli confida i suoi
segreti più intimi, apre il suo cuore rivelando paure e speranze. Ultimo stadio
della manipolazione, lo psicopatico crea un anello di congiunzione psicologico
che promette una relazione stabile. È superficiale, non gli importa dei
contenuti, ma solo di come potrebbe venderli. È narcisista: si preoccupa solo
di sé stesso. È manipolatore: mente e usa le persone per riuscire ad ottenere
quello che vuole. È freddo, è razionale e calcolatore, perché ha poca attività
nel sistema limbico, centro di emozioni come paura, tristezza, disgusto. Senza
rimorso: non sente colpa. La parte del cervello responsabile ha bassa attività.
Senza empatia: non riesce a mettersi nei panni degli altri. Irresponsabile: si
impegna solo in ciò che gli può portare benefici. Impulsivo: tenta di soddisfare
le sue necessità al momento. Incapace di pianificare: non stabilisce mai una
meta a lungo termine. Imprudente: corre rischi e prende
decisioni audaci.
Ma
psicopatici si nasce o si diventa? Non si sa con precisione, però tutto il
mondo occidentale, spinto dalla voglia di risultati, dall’assurdità di voler
sempre crescere in spazi e tempi limitati, si sta comportando alla stessa
maniera, solo che non se ne accorge. Insomma: magari nessuno nasce cattivo, ma
è la famiglia o la sua mancanza, la società, quindi la vita stessa, così come è
diventata, che ti porta a delle distorsioni del tuo carattere che a volte sono
da te conosciute e persino bene, ma alle quali non puoi sfuggire.”
“Prova a
sintetizzare un po’.”
“Ci provo...
ecco: magari mi dirai che è sempre stato così, invece no, una volta i ruoli erano
ben definiti.”
“In che
senso?”
“L’eterna
lotta del bene contro il male nell’epoca moderna è così confusa che tutti o
quasi si danno la zappa sui piedi. La circonvenzione d’incapace è una routine
fatta spesso alla luce del sole, gli imbecilli sono quelli che governano,
quelli che hanno i posti di estrema responsabilità. La società è un sistema
mafioso a largo raggio che si nasconde dietro il politicamente corretto e si
ciba di apparenza, denaro e potere.”
“E quindi?”
“In un
sistema del genere la delinquenza organizzata, come quella di uno psicopatico
intelligente, prospera facilmente, viene quasi legittimata dalla mancanza di
attenzione delle persone che contano per le cose veramente importanti.”
“Ecco, ora ci
sono, mi pare. Bisognerà spiegarglielo a Severino però.”
“Ci pensi
te?”
“Io?”
“Ho paura che
io gli confonderei le idee.”
“Va bene,
glielo dirò appena posso, ma aiutami a fare un Bignami scritto di tutto quello
che hai detto.”
Qui la
faccia di Severino me la sono persa, ma la risata generale che ne è seguita ce
l’ha descritta assai fedelmente. Pare che a questo punto Traspedini sia stato
svegliato bruscamente, giacché ha smesso di russare e ha fatto un rutto neanche
tanto sommesso. Oltre a questo sembra che successivamente in macchina,
sull’autostrada, dopo alcune scorregge, l’ex carabiniere si sia sfogato così:
“Un lungo viaggio a vuoto abbiamo
fatto! I tordelli erano buoni e il vino andava giù bene assai, ma io non li
sopporto gli intellettuali, l’amico tuo Bertocchini è simpatico e tutto, ma
questi qua hanno la pretesa di risolvere con la teoria le cose che invece nella
pratica sono completamente differenti dai loro cazzi di ragionamenti!” Gli
altri hanno riso e lui si è infuriato anche con loro e non ha parlato più fino
a casa. Hanno provato a rincuorarlo con un vasto repertorio di canzoni oscene,
ma niente da fare. Mauro ha provato a difendere le teorie di Olavo, ma ormai la
serata aveva degenerato ed era diventata notte fonda.
La
registrazione di Catello stavolta era quasi buona, ogni tanto si soffiava il
naso e perdevo delle parole, a volte delle frasi intere, ma pazienza, non si
può estrarre sangue dalle rape e viceversa.
Ma che
cos’era un Bignami? Anche Bice non se lo ricordava.
X) T’AMO PIO BOVE (11)
"La mitezza consiste "nel lasciar essere
l'altro quello che è". È il contrario della protervia e della prepotenza.
Il mite non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di
confliggere, e alla fine di vincere. Ma la mitezza non è remissività: mentre il
remissivo rinuncia alla lotta per debolezza, per paura, per rassegnazione, il
mite invece rifiuta la distruttiva gara della vita per un profondo distacco dai
beni che accendono la cupidigia dei più, per mancanza di quella vanagloria che
spinge gli uomini nella guerra di tutti contro tutti. Il mite non serba
rancore, non è vendicativo, non ha astio verso chicchessia. Attraversa il fuoco
senza bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la
propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilità. Ecco quel
"potere su di sé" di cui abbiamo già sentito.
Il mite può essere configurato come l'anticipatore di un
mondo migliore. Egli non pretende alcuna reciprocità: la mitezza è una
disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrisposta per
rivelarsi in tutta la sua portata. Amo le persone miti, perché sono quelle che
rendono più abitabile questa “aiuola”, tanto da farmi pensare che la città
ideale non sia quella fantastica e descritta sin nei più minuti particolari
dagli utopisti, dove regna una giustizia tanto rigida e severa da diventare
insopportabile, ma quella in cui la gentilezza dei costumi sia diventata una
pratica universale."
Norberto Bobbio, Elogio della mitezza, 1994
Ecco: se
Giangio è un mite, come io credo, ebbene sì: io sono l’esatto contrario.
Con Ginulfo non posso discutere di
queste cose, i suoi interessi sono altri, cioè non ne ha. Per parlare di
Giangio e il suo meraviglioso mondo interattivo, di solito lo faccio con Bice,
la maggior parte delle volte per telefono. Ma lei è già assai impegnata a
cercare capire gli sviluppi della meccanica mentale di suo marito Severino e
lascia subito cadere ogni discussione sull’argomento.
Ne parlo allora con me stessa,
cioè io e il computer, oppure io e l’internet, le risposte spesso sono
immediate e forse sono anche troppe, ma basta sfoltire.
Poi in terapia lo psichiatra di
turno, eventualmente neuro, mi dà neutre risposte zuccherate e anche troppo
articolate. Quando poi si dilungano in spiegazioni più complesse che
semplificano come se fossi una bambina, mi viene voglia di strozzarli, ma
naturalmente non lo faccio.
Riassumendo, per capire ho
capito, ma non mi sembra giusto, lui così e io in una maniera quasi
diametralmente opposta. Mi ribello a tutta questa razionale realtà, lo so che è
inutile, ma almeno mi sfogo con qualche bestemmione.
Dicono che tra le altre cose io
abbia una lieve e atipica sindrome di Tourette, le parolacce più che dirle le
penso però, ma le penso gridate e anche ad alto volume.
Quando mio marito voleva fare il
simpatico mi chiamava più volte Nararana e alternativamente poi anche Rananara,
io lo mandavo affanculo e questa scena si è ripetuta sistematicamente durante
gli anni pressoché identica.
Severino quando era arrabbiato o
voleva essere ironico, chiamava sua moglie con nome e cognome, sapendo che lei
ne rimaneva offesa. Se la frase cominciava con il solito Bice Berenici, lei
sapeva già cosa aspettarsi. Quando era veramente irritato, a volte, metteva
perfino prima il cognome, ma l’impercettibile variazione veniva ignorata di
proposito.
La colpa era anche dei genitori di
lei, con un cognome del genere, quel nome sarebbe stato da evitarsi
accuratamente. Per non parlare dei miei, gente che tranquillamente condanna i figli
a essere presi in giro vita natural durante.
Quando Severino era di malumore,
sua moglie non sempre riusciva a cambiarglielo, talvolta succedeva anche che
glielo peggiorasse. Bice con lui aveva migliorato più volte i suoi metodi,
ultimamente l’accorgimento che lei adottava era d’ignorarlo a oltranza. Secondo
il suo raziocinio, poi lui si incuriosiva ed era tratto fuori dalla sua stessa
trappola, dall’irresistibile voglia di polemizzare con lei. Insomma usciva
dalla sua abulia di piombo, con un trucco che però non sempre funzionava e a
volte s’incazzava di brutto con il
mondaccio infame, in quel momento degnamente rappresentato da sua moglie.
Giangio invece partiva dallo
stesso ragionamento di Bice, ma era molto più sottile e sapeva provocarlo in
maniera più efficace. Lei senza rendersi conto finiva per polemizzare veramente
con suo marito, considerando stancante e assurdo tutto quello spreco di
energie, mentre lui no, Giangio lo faceva a puro scopo terapeutico e il suo
segreto era che ci si divertiva anche. Soprattutto si sentiva incentivato e
stimolato, poi gratificato quando il baffuto bambinone tornava a sorridere,
dopo essere finalmente uscito, per merito suo, da quel banco fitto di nebbia
oscura. Si volevano veramente bene quei due.
Severino in più era curioso anche
a livello antropologico-poliziottesco, sebbene non lo volesse sembrare e il
Pelosi, oltre indubbiamente a esserlo, lo sembrava anche. Ecco perché il caso
in questione, per quanto estraneo al suo mondo precedente, gli era familiare,
perché era ovviamente anche uno studio psicologico oltre che sociologico degli
esseri umani.
Marchigno passava meno tempo con
loro, per via del lavoro, mentre i tre moschettieri restanti erano precipitati
in una pensione senza fondo.
Insomma portavano avanti le
indagini passando ore gradevoli, evitando quello stagnare della routine del
pensionato, che dopo una vita di attività diventa noiosa oltre che qualche
volta anche perniciosa, per le relative menti.
Il dialogo era costante e anche
brillante, tra i quattro, che a volte erano tre, e spesso solo due, se ad
ascoltarlo non ci fossi stata anch’io, una giammai capace di giovarsene.
Perlomeno senza accorgersi in tempo utile dell’originalità anche interessante e
istruttiva di quella situazione. Volentieri quanto spesso però la conversazione
andava fuori dal seminato.
Marchigno si chiamava così perché
aveva vissuto in Brasile e sposato una bellezza di nicchia, secondo le sue
stesse parole, a Campo Bom, nel Rio Grande do Sul. Marquinho si sarebbe dovuto
scrivere così, ma a sua moglie non importava niente e ai brasiliani figurarsi,
anche meno.
Mentre facevano sopralluoghi
clandestini, i normali tempi morti li rendevano vivi sgranocchiando magari una
focaccia con fontina e speck alla Bicocca, un bicchiere di vino bianco o due.
Qualche volta tre, raramente quattro.
“Caro Severino, la vita non manca
mai di stupirci, anche se non sempre in maniera positiva, guarda noi tre
riuniti qua dopo un secolo che non ci si vedeva, non si sapeva nemmeno se
eravamo vivi o morti.” Ha detto Mauro un giorno.
“A proposito: ma come vi siete
ritrovati voi due?” Ha chiesto Severino quasi sorridendo.
“Inutile dire che le mascherine
non aiutano, in questo caso, ma tutti gli anni andati poi trasformano anche le
facce…” Si è intromesso Giangio.
“Prova a immaginartelo. Se una
fisionomia familiare, anche se un po’ incartapecorita, entra in una farmacia e
ordina qualcosa, mentre tu fai la fila fuori al freddo e al gelo, poi si mette
a parlare con tutti gli altri, se non lo riconosci subito, alla fine poi ti
viene almeno un dubbio e chiedi…” Ha spiegato Mauro gesticolando.
“Anche l’alzheimer è così: non
riconosci più i tuoi familiari, ma hanno tutti qualcosa di... familiare
appunto, per cui alla fine è quasi lo stesso.” Ha dichiarato poi Giangio, più o
meno inutilmente.
“Ah, vi siete trovati in farmacia
a Cutigliano?” Ha domandato Severino, puntualmente ignorando la storia
dell’alzheimer, che non era proprio una roba da scherzarci su.
“No, a S.Marcello.” Ha replicato
Giangio.
“Conosci tutti anche a S.Marcello?”
Gli ha chiesto poi Severino.
“No, ma comunico volentieri e
abitualmente con quelli che mi stanno attorno, è interessante e si passa il
tempo in maniera piacevole. Dovresti provare anche te, qualche volta.”
“Giangio si metterebbe a parlare
anche con le pecore al pascolo, se non gli rispondono pazienza, ma non vede
proprio perché ci dovrebbe rinunciare.” Ha commentato Severino e tutti hanno
riso.
“Beh... a vivere da soli si
diventa molto più socievoli, una volta non ero così.” Si è giustificato.
“Non è vero, sei sempre stato
così, magari non te lo ricordi, direi anche che sei peggiorato negli ultimi
anni.” Ha dichiarato Severino.
“Da quando Nara mi ha lasciato.
Magari. Può essere.”
“È normale, inutile chiedere se ti
manca ancora, ma per un tipo solitario e schivo come Severino certo sarebbe
stato molto peggio.” Ha detto Mauro.
“Nara non è che mi manchi, se è
per quello, forse ero anche innamorato, era una donna piena di virtù, e mi ha
lasciato lei, ma era anche una mezza matta, alla lunga l’ho capito che è stato
meglio così.
Forse, approssimativamente.
Quanto a Severino, anche a lui
piace parlare, solo che parla molto di più con sé stesso, un po’ come la mia
ex. E al confronto le pecore al pascolo non gli sembrano interessanti a livello
di dialogo, invece secondo me si sbaglia.”
“Che vorresti dire?”
“Che mia moglie era come un
vulcano spento ma sotto c’era un’attività frenetica, a prima vista non si
notava. L’ho capito solo dopo, viveva la sua vita in un rapporto ansioso che
faceva anche paura, ma non lo diceva a nessuno, anzi cercava di nasconderlo
perfino a sé stessa.”
“Eh sì, la nostra storia
personale, ci cambia inevitabilmente, cari miei.” Ha aggiunto Mauro pensieroso.
“E poi te di alzheimer che diavolo
ne sai?” Ha chiesto subito dopo.
“Ho ha avuto le mie brave e
significative esperienze, capirai, un po’ come tutti al giorno d’oggi.”
“Eh sì, la malattia è sempre più
diffusa…” Ha commentato tristemente Severino.
“Non mi dirai che è stato con tua
moglie!?” Si è preoccupato Mauro.
“Nooo, lei c’ha altre magagne,
questa le manca.
No, no, solo amici e amiche, amici
di amici e amiche, genitori di amici, conoscenti e genitori di conoscenti,
estranei ma conoscenti di amici, genitori di estranei ma conoscenti di
conoscenti...”
“Vabbè, la vogliamo tagliare ‘sta lista?
Il concetto l’abbiamo già recepito e immagazzinato.” Ha interrotto Severino con
un sospiro di rassegnazione.
“Ma te dove abiti?” Ha chiesto poi
l’ex capitano, nel silenzio seguitone, al dottore in pensione.
“Abitare è un verbo troppo
definitivo ed esteso da me a tre appartamentini minuscoli, in luoghi
tatticamente differenti, ma pieni di comodità e piccoli ricordi, legno alle
pareti, panche, accessori romantici e di atmosfere montanare anche in pianura e
alla spiaggia, tutt’al più qualche quadro di velieri, una stella marina e una
conchigliona esotica di simil-gesso come soprammobili…”
“Certamente il legno in questione
può ricordare anche l’interno di un galeone, basta dargli qualche tocco di
ricordi di film, come L’Ammutinamento del Bounty eccetera…”
“Infatti.”
“Ma te sei nato da queste parti, se non mi sbaglio…”
“E certo, Fagiolino del ristorante è mio zio.”
“Madonna mia. È vero, me ne ero dimenticato.”
“Mauro, te non ti sei mai sposato, è vero?”
“No, mi sono anche poco fidanzato, se è per quello.”
“E come mai?”
“Non mi sono mai eccessivamente accompagnato, forse ho
sempre amato troppo la solitudine, la libertà. Che ne so? Comunque quando mi
sono reso conto che ero quasi un vecchietto e ne avrei avuto un sano bisogno,
voglio dire di una compagna come la tua Bice ancora arzilla e piena di
interessi, oltre che di appoggio amorevole…”
“Dicevi che quando ti sei reso conto, Mauro…”
“Beh, sì, quando me ne sono reso conto era troppo tardi,
non molto tempo fa, ho addirittura partecipato a una specie di comunità per
cuori solitari, lì mi sono reso conto che la mia pazienza era meno di un tempo
fa, coll’età quella diminuisce, talvolta, che le donne mi sembravano tutte
irrimediabilmente zitelle isteriche…”
“ …e anche tu
eri un po’ troppo rinsecchito per pensare a certe cose…”
“Sì. Andavo per esclusione ed escludevo, escludevo e
basta, non includevo mai. Io non piacevo a loro, ma ancora di più non trovavo
nessuna che rispondesse positivamente ai miei criteri, ammesso e supposto che
ne avessi di ben precisi…”
“A proposito di supposte, la salute come ti va?” Ha
chiesto Giangio.
“Abbastanza bene, questo vetusto ed esile corpicello di
una quasi quintalata non ha dato segni di gastriti, prostate, ipertensioni e
neppure di Alzheimer, almeno per ora.”
“A volte essere un medico aiuta.”
“Non sempre, l’uomo è portato a ingannare sé stesso, non
è che se uno è medico faccia una debita eccezione alla regola.”
“Il medico è uno che beve e fuma più di te, ma ti dice di
smettere, anche se lui non solo non è capace, magari pensa perfino di essere
superiore a queste bischerate.” Ha detto Giangio.
“Ma prima, da giovane, i tuoi gusti com’erano?” Ha
domandato Severino.
“Beh, sono stato sempre difficilotto, lo ammetto, ma con
l’età, se possibile, sono peggiorato.”
“In che senso?” Gli hanno chiesto in coro.
“Per esempio a quarant’anni le mie coetanee mi sembravano
già delle vecchie, figuramoci ora…”
“Ah! Allora ti piacciono le giovincelle…”
“Sì e no.”
“Come sarebbe?”
“Mi piacciono fisicamente, ma poi quando parlano mi viene
voglia di scappare.”
“Ma anche gli uomini a quell’età sono così.”
“Lo so, ma gli uomini non mi garbano nemmeno
fisicamente.”
“In effetti...”
“E con le donne non hai avuto mai delle storie
importanti?”
“Certo, con due almeno mi sarei potuto e dovuto fermare,
magari, ma quando me ne sono accorto erano già sposate e con i figli grandi.”
“Ti sei pentito?”
“Sì, ma l’uomo quando è forte fisicamente ha il cervello
piuttosto infantile, specialmente qua in Italia, molto tempo dopo avrebbe anche
esperienza e capacità, ma si trova debole a livello di forza fisica, di
conseguenza anche morale e non ce la fa a farcela.”
“Eh sì, quando si capiscono le cose spesso è perché è
troppo tardi.” Ha dichiarato malinconico Severino.
“Il senno di poi non è mai stato retroattivo.” Ci ha
infilato di mezzo Giangio.
“Ma in fondo così come sei non stai mica male…” Ha
aggiunto il canuto corpulento.
“No, visto quanto ho conosciuto e attraversato, sono
contento, mi sento piuttosto fortunato.”
Magari anche Mauro alludeva alle donne come me, quelle che
complicano la vita a tutti, ma non lo fanno per sport. Non riescono proprio a
rilassarsi, a stare bene, a godersi quello che hanno e a non pensare a quello
che non hanno. Vogliamo sempre di più e non sappiamo più nemmeno cosa farci,
per esempio con i soldi. Siamo schiave e non sappiamo neanche di cosa. O anche
se e quando lo sappiamo, non possiamo più farci niente.
Chi ci ha perso di più sono io stessa, non ho solo perso
l’unica sicurezza che avevo, ho anche visto che era falsa, è difficile sentirsi
bene, dopo. D’accordo, nemmeno prima stavo bene, vero è anche che Giangio l’ho
lasciato io. Lo ammetto: è stato tutto per colpa mia. Ma non ho colpa di come
sono fatta io.
Ne sono colpevole o no?
Forse è per questo che lo spio da anni, per capire come
fa, per imparare a fare anch’io come lui, almeno un po’ del suo tipo di vita
spensierata, ma il professor Doroteo Scapecchi purtroppo mi ha detto che non
funziona così.
Che bella scoperta, con tutti i soldi che gli ho
sganciato, mi sarei aspettata qualcosa di meglio...
XI) BIGNAMI (3)
Mi ero dimenticata, ma sapevo di non
ignorarlo. Appena gliel’ho chiesto a Catello è partito a razzo. Cugino di Ginulfo,
si tratta di un acculturato del cacchio, uno che ha studiato, sì, ma non
capisce niente di un’unica cosa, che gli piacerebbe tanto, ma non gli riesce.
La vita del mondo, attorno a lui, gli è sconosciuta, non sa proprio come vivere
fuori dal computer e lontano dai libri.
“Haha! Chi non ha mai preparato un
esame usando, di nascosto, un libriccino grigio, contenente un sintetico riassunto
del professor Bignami?
Ernesto Adamo Bignami nacque a
Milano proprio nel 1903, il 24 febbraio. All’inizio un ragazzo e uno studente,
che a volte abitano scomodamente lo stesso corpo e mente, non sanno proprio
cosa fare della propria vita, si buttano nelle cose difficili, forse pensando
che pochi saranno in grado di capirle e perciò meno ancora di criticarle. Non
sanno ancora che per criticare non solo non c’è bisogno di comprendere, ma
addirittura è auspicabile e assai più pratico.
(Da che fottuto pulpito viene 'sta predica?)
Nel 1925 si laureò in Lettere
all'Università di Milano con la tesi La
catarsi tragica in Aristotele; successivamente, nel 1927 si laureò in
Filosofia presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore con la tesi Il concetto antiestetico e antispirituale
dell'arte presso gli antichi e la posizione mediatrice della Poetica di
Aristotele.
Questo è importante, per quello
che succederà subito dopo, per una specie di contrappasso quasi infernale e dantesco
se me lo concedi.”
“Basta che ti sbrighi.” Ma forse
non ero abbastanza minacciosa, perché ha
continuato come se niente fosse.
Questi studi sfociarono nella
pubblicazione del saggio La Poetica di
Aristotele e il concetto dell'arte presso gli antichi (1932), premiato in
un concorso indetto dal Ministero della Pubblica Istruzione e dall'Accademia
dei Lincei.
Chi lo sa? Magari è stato proprio
nelle lunghe notti passate a studiare, mentre i suoi amici si divertivano, che
il bisogno di dire in poche parole quello che invece era sempre stato espresso
in centinaia di pagine, è diventato un pensiero costantemente presente nella
mente del giovane.
Chi erano quegli emeriti coglioni
che si dilettavano nell’ostacolare la corsa al progresso per proteggere il loro
sapere stantio e rigido?
Certo che la formidabile
complessità di certi testi ha spinto lentamente e progressivamente il nostro
eroe a convincersi, in maniera sempre più granitica, di dover personalmente
porvi un drastico ma assolutamente necessario rimedio.
Ernesto Bignami insegnò al liceo
dei Barnabiti a Milano e poi, come ordinario, nel liceo classico di Voghera e
al Parini di Milano.
Si era evidentemente rotto le
scatole di insegnare quelle cose a quella maniera. Urgeva un metodo alternativo
per distruggerle e riformarle, non troppo lateralmente, di guadagnarsi la vita
in una maniera diversa e magari migliore.
Interessi pedagogici e didattici
lo spinsero a riflettere sul modo di condensare in forma semplice, sistematica
e mnemonica il contenuto delle varie discipline.
Si era già reso conto che agli
allievi, in quello stadio della loro vita, di quelle cose, non gliene fregava
niente.
E non poteva essere diversamente.
Nacquero così nel 1931 i bignamini pubblicati dalla casa editrice
fondata da Bignami stesso: libretti tascabili in brochure, contenenti le
nozioni base di ogni materia delineate secondo i programmi ministeriali,
pensati soprattutto per il ripasso finale in vista degli esami di maturità.”
“Taglia corto che non ho tempo.” Ho
intimato, ma con poca convinzione, ero curiosa di sapere dove voleva arrivare,
forse. Non riuscivo a interromperlo. Lo guardavo affascinata e terrorizzata
allo stesso tempo e lui se ne accorgeva, insomma se ne approfittava, di solito
tutto questo spazio non glielo davo.
“Subito!
Proprio nel 1931 MUSIL pubblica L’uomo senza qualità, anche chiamato
l'enciclopedia della incertezza umana. Un quadro spirituale e intellettuale di
un'epoca che attrae il lettore col fascino della sua complessa problematicità
della vita.
A New York è portato a termine e si inaugura il più alto
edificio del mondo, è l'Empire State Building, che per decenni rimarrà
l'incontrastata più alta costruzione mai realizzata dall'uomo.
CHARLIE CHAPLIN (CHARLOT) ottiene un clamoroso successo
con il suo film Luci della città, il
patetico amore di un vagabondo, che cerca di procurarsi denaro per guarire la
sua giovane fioraia cieca. Una analisi pungente sulle apparenze e i tabù della
vita sociale.
Dopo le perdite di
certezze nella fisica con HEISENBERGER, fa perdere certezza alla matematica
GODEL, dimostra l'impossibilità di costruire un sistema matematico in grado di
offrire una certezza globale. E arriva al paradosso "la matematica è vera
soltanto se è considerata incompleta".
GUGLIELMO MARCONI compie i suoi primi esperimenti con le
onde radio cortissime aprendo la via alle realizzazioni successive; le
microonde, i radar ecc.
JANSKY utilizzando le stesse onde, scopre con un
rudimentale radiotelescopio, che dal centro della nostra galassia provengono
onde radio.
PAULI enuncia l'ipotesi dell'esistenza del neutrino
dotato di carica nulla e di massa nulla. Enrico Fermi nel 1933, proseguendo gli
esperimenti elabora la prima teoria dell'interazione debole, dove compare
questa particella che è lui a chiamare neutrino. Questa invece, segna la
nascita della teoria sulla forza nucleare debole; una delle quattro forze
fondamentali della natura,
Da JAMES CHADWICK altra sensazionale scoperta, il
neutrone, la particella di massa simile al protone ma senza carica elettrica.
Dimostra quindi così l'esistenza della particella neutra
nel nucleo atomico, ipotizzata già da RUTHERFORD e da BOHR per far quadrare la
teoria dell'atomo.
I coniugi CURIE l'avevano già prodotta in un esperimento,
ma non se ne erano accorti anche se riportarono alcuni dati che poi divennero
noti. Tanto che MAJORANA disse: "cretini, ce l'avevano lì sotto il naso e
non se ne sono accorti!".
Ecco che come nel 1903, anche nel 1931 si coglie un gran
movimento e vento di cambiamenti, la solita incertezza.
Questo senso di incompletezza, che stanca e disturba da
sempre l’essere umano, non ci abbandona proprio mai, ma è forse uno dei motori
che spingono a trovare nuove soluzioni ai nuovi problemi, eventualmente anche
ai problemi vecchi, quelli di sempre.
Per questo e per altri motivi contingenti Bignami sente
la necessità di smettere e di far smettere di perdere tempo agli italiani.
Andiamo al
sodo, per favore! Sembra che ci inciti dai suoi volumetti, lasciamo perdere
le maschere e curiamoci finalmente del contenuto.
Gli anni di nascita e di fondazione della casa editrice
Bignami, mostrano caratteristiche comuni a tutti gli anni messi in terra, da
Dio o chi per Lui.
Ernesto Bignami morì il 29 luglio 1958.
La Casa Editrice Prof. Ernesto Bignami, oggi Edizioni
Bignami, nasce a Milano nel 1931, ad opera di Ernesto Bignami che in quell’anno
pubblica il primo volume L'Esame di Italiano, che viene subito accolto molto
bene dagli studenti.
Che sollievo per i poveri ragazzi condannati a studiare
meccanicamente delle robe lunghe, noiose e incomprensibili!
A questo titolo se ne aggiungono ben presto altri,
quali L’Esame di Latino, L’Esame di Storia, ecc.
In pochi anni nell’elenco dei titoli pubblicati compaiono
tutte le discipline letterarie: il librettino di sintesi conosciuto come
"bignamino" è ormai molto noto nell’ambiente studentesco.
La scomparsa del fondatore nel 1958 non arresta il lavoro
della Casa Editrice che continua sotto la guida di Lorenzo Bignami, fratello di
Ernesto, al quale va riconosciuto il merito di avere ampliato il catalogo
aggiungendo ad esso titoli relativi a materie scientifiche: infatti sono
pubblicati in questo periodo i volumi relativi alle Scienze, alla Chimica, alla
Fisica, alla Matematica, alla Geometria, all’Estimo, alla Merceologia e a Scienze
delle Finanze.
Si capisce da questo che, anche se forse non
completamente ispirato, il nostro Ernesto si è dato da fare, all’inizio della
sua carriera di letterato, con dei mattoni indigesti di consistenza non
indifferente.
L’obiettivo che si vuole raggiungere, sia nella
realizzazione dei nuovi testi sia nell’aggiornamento di quelli già esistenti, è
quello di attuare una "sintesi" della materia, senza mai sacrificare
né la profondità dell’indagine né il rigore metodologico, e senza mai mortificare
la cultura.
La Casa Editrice Bignami si pone infatti dalla parte
dello studente il quale necessita di un’esposizione della materia che lo aiuti
a comprendere e a memorizzare facilmente, quindi semplice e chiara ma allo
stesso tempo completa.
Il catalogo oggi comprende più di 250 titoli.
A questi titoli se ne
aggiungeranno presto altri sempre ispirati alla necessità di chiarezza e di
"sintesi" che primo fra tutti sentì il Prof. Ernesto Bignami.
Insomma la nuova materia, che
consiste nella sintesi di quella vecchia, è una materia che rende, ci si può
guadagnare e in più si fa del bene all’Italia.
Che cosa c’è di più intelligente
che un libriccino grigio che snellisce la burocrazia per i cervelli intasati,
rende contenti quasi tutti, e che in più dà da vivere in soldi contanti?
Si è detto quasi tutti giacché si
sono riscontrati spesso quanto malvolentieri casi di gente dotta che,
orgogliosa del proprio sapere, non ha mai voluto trasmettere veramente la
conoscenza, che tanto o magari troppo gli era costata.
Che se l’andassero a scavare da
soli!
Spesso i cosiddetti intellettuali
hanno ostacolato come potevano gli eventuali curiosi ignoranti, che veramente
volessero smettere di esserlo, che cercavano affannosamente di capire.
Lo hanno fatto con paroloni
difficili, giri di frasi a spirale, sensi del discorso che, invece di
avvolgere, loro srotolavano.
Insomma tutte cose che a loro
venivano naturali, visto che il loro scopo era il contrario di quello che
sembrava, di quello che dichiaravano essi stessi.
Non che sempre lo facessero
apposta, sono fatti così, questi intellettuali.
Bignami invece e per fortuna è
stato un grande intellettuale alla rovescia, per noi un predecessore, un
pioniere.
Uno che finalmente e
sorprendentemente, ha tagliato quelle robe complicate e perciò inutili e
dannose al progresso e le ha buttate nel cestino che meritavano.
Ultimamente, per via della
situazione economica e politica italiana, Ernesto Bignami si sta agitando nella
sua grande ma pur stretta tomba.
A volte gli pare addirittura che
la sua massiccia opera di bonifica sia stata del tutto inutile.
Lui stesso, però, ci ha insegnato
che la storia non è mai completa, chi lo sa, magari va a ondate, quello che
oggi ci pare assurdo, ha il suo motivo di esistere, non sta succedendo per
caso.”
“Che palle Catello! Quindi nel
vostro gergo, di gente che ha studiato, voglio dire, cosa significa fammi un Bignami?”
“Più o meno significa: fammi un
riassunto sintetico.”
“Grazie assai Catello, se mi
proponevi un bignami anche a me,
voglio dire di una frase o due, magari sarebbe stato sufficiente, ma so che è
una cosa che a te non posso chiedere.”
“Effettivamente…”
Catello s’impara i libri a memoria
e non è capace di cucinarsi un uovo fritto, di mettersi due calzini di colori simili.
Forse qualche residuo di una curiosità antropologica rimastami mi spinge ogni
tanto a studiarne il comportamento, ma capire no, non lo capisco.
Chi sono io per giudicare gli
altri, mi chiedo? Va bene, sono il capo, i soldi sono io che glieli sborso, però…
Giangio manco a dirlo invece è
differente, ha una specie di equilibrio efficace e semplice, è colto ma sa fare
di tutto, dai lavoretti di casa, a cucinare, tenersi un orto, a navigare in
internet, ma soprattutto nei rapporti umani ci sa fare. Più mi irrita e più mi
affascina, non so spiegarlo nemmeno a me stessa. La vita per lui è un
giochetto, ma prende anche tutto sul serio, però senza ossessionarsi, senza
ansia. E si diverte.
Le cose che non capisce le lascia
lì in aspettativa, ma non gli pesano affatto, se non ce n’è bisogno ci possono
rimanere anche per sempre, non si mette lì nemmeno a cercare di risolvere tutti
i nostri dubbi esistenziali, del genere umano intendo.
Ginulfo è uno scemo, si sente già
dal nome, forse l’unico nel mondo che si chiama così, (i genitori hanno fatto
dei danni anche nella sua famiglia, non solo nella mia,) però… meno male che è
fatto in quel suo modo limitato e raffazzonato, sennò io non lo sopporterei e magari
nemmeno lui starebbe al mio gioco.
Insomma il mio marito attuale,
tecnicamente neanche sposato, è un bleffatore a oltranza, l’unica cosa che gli
interessa sono i soldi, e meno male che è così.
Intanto, a volte senza Severino,
Mauro e Giangio parlavano con maggiore calma, divagavano anche, ma tornavano
sempre al filo principale dell’indagine.
Giangio invitava spesso l’amico la
sera, quando Severino invece amava andare a letto presto, se non con le
galline, subito dopo, ma non prima di un pasto caldo, di solito a base di zuppa
e pane abbrustolito.
Davanti al caminetto acceso, a
casa di Giangio, dopo cena, invece gli altri due approfittavano per parlare e,
strano a dirsi, era Mauro che parlava di più. Giangio era anche un buon
ascoltatore, altra sua caratteristica che mi provocava invidia.
Come minchia ci riusciva non lo
so.
XII) CARLO E RINA (5)
Se una vita
ha avuto un qualsiasi senso difficilmente lo scoprirà il vivente, piuttosto
qualcun altro, ma non lui, il possessore ignaro di quella vita, che in fondo
non è stata proprio sua e non sapeva nemmeno dirigerla. Era lei a indirizzare
lui, se e quando ne aveva voglia, ma il trucco era proprio che lui non lo
avrebbe mai saputo. Non avrebbe nemmeno mai saputo quando sarebbe finita e
quando era iniziata non era stato certo lui a sceglierlo. Se guardiamo gli
altri però capiamo quanto poco siamo padroni del nostro destino, è vero che
possiamo influirvi, ma spesso, o quasi sempre non sappiamo come farlo e a volte
i risultati sono il contrario di quello che volevamo…
Attraverso l’unico poliziotto in auge, Marchigno
Piccinini, le conseguenti pensate sono arrivate al Capitano De Santi, che ha
scosso la testa sconsolato. L’usuraio in questione era Geraldinho La Porta,
figlio di emigranti italiani, ma nato e cresciuto in Brasile, e la logica tutta
convergeva su di lui. Solo che il meccanismo non era chiaro, poi ci volevano le
prove, ce n’era bisogno in questi casi, non solo, ma anche in altri.
In Brasile la
grana, il malloppo, i soldi, tra le tante maniere si potevano chiamare
anche grano e anche questo
coincideva. I relativi chicchi trovati sui quattro luoghi dei relativi delitti
erano simbolici.
Le cosiddette vacanze continuavano quasi come se niente
fosse, ma sotto c’era un gioco di spionaggio non indifferente. La bambina
inoltre non era tipo di dir loro delle bugie, si credeva, era solo curiosa e
voleva aiutarli, quindi l’hanno scelta come intermediaria, oltre che come
insospettabile mente della provvidenza. Si era insomma propensi a credere che
lei non avesse avuto le sue pensate personalmente, ma le avesse sentite dire da
qualcuno.
Invece Severino era così ingenuo nel suo entusiasmo, che
gli capitava raramente e non c’era abituato, gli faceva perdere il mirinvengo.
Figurarsi che considerava che i bambini moderni fossero troppo fottutamente
precoci e gli pareva che lei anche su quell’altro discorso, quello di Francesco
Erspamer, intuisse il significato del testo e le sue necessarie implicazioni
nella vita di tutti i giorni, solo che gli era convenuto, fino a quel momento,
far credere di no.
Si è trovato a discuterne con
Giangio, quel pomeriggio piovoso davanti al caminetto acceso, avendogli
quest’ultimo garantito che non ci fossero microfoni nascosti in giro. Invece io
ero lì fuori e ho sentito tutto, non era per niente caldo, per fortuna ero
vestita come uno scalatore sull’Everest.
Si sono fatti dei bei bicchierotti
di whisky invecchiato, anche se i rispettivi medici glielo avevano, in separata
sede, proibito.
Con tutti questi morti era poco
rispettoso che loro due si stessero divertendo, ha detto Severino. Alla fine la
vita è così, quando c’è da prendere qualcosa, anche se è solo per un attimo,
meglio non lasciarselo scappare, ha concluso Giangio, perché non capita tanto
spesso, specialmente ai pensionati.
“Amico
caro, lasciati dire che non è possibile che la bambina in questione, di otto
anni, per quanto precoce sia, capisca queste cose che hanno a che fare più che
altro con esperienza e specializzazione nel ramo dei rami.” Ha detto Giangio.
“Posso anche essere d’accordo. Ma,
allora, da chi potrebbe averle sentite, secondo la tua modesta opinione?”
“Da suo padre, per esempio, che
lei spia regolarmente, che ascolta quando ne parla anche con sua madre. I quali
due genitori in questione hanno una rispettiva corrispondenza elettronica che
lei riesce ad hackerare e qui è veramente un mostrillo che ci può insegnare a
tutti quanti siamo.”
“Ma suo padre che mestiere fa?”
“Programmatore di computer.”
“Con agganci di spionaggio
industriale e non?”
“Forse, non lo so, ma per
guadagnare guadagna bene.”
“E la moglie?”
“Lavora anche lei con i computer,
internet, fuffigni telematici, ma non ho ancora capito bene cosa faccia, tutto
quel che riguarda imbrogli legalizzati e zone limitrofe.”
“Che non è poco.”
“No, al giorno d’oggi è quasi
tutto e anche lei, secondo me, si porta a casa uno stipendio grassoccio, se
così si può chiamare, visto che è una libera professionista e va a ingrassarsi
proprio con le percentuali di produzione.”
“Temi che ci sia qualcosa oltre la
legalità?”
“Non lo so, non ho mai provato a
chiederglielo, figurati se ha confessato spontaneamente, ma sono sicuro che
anche se me lo spiegasse non capirei.”
“Quello per noi vecchierelli è un
altro mondo.”
“Non sono affatto d’accordo. Io
navigo spesso in internet e sono ancora piuttosto vivace e giovanile.”
“No, hai ragione, tu sei un teenager, io parlavo per me stesso,
figurati, te sei già molto più hacker di me. Io... se mi metti davanti a un
computer comincio a sudare, non c’è nemmeno bisogno di accenderlo, solo a vederlo
mi da’ noia. Però guardati allo specchio ogni tanto anche te, vedrai un
vecchietto rinsecchito. Quelli non sono appassionati dell’internet per
divertimento, magari sono degli hacker, alla loro maniera, forse anche
malintenzionati. Ma te un’idea della tua vicina, del suo carattere, della sua
onestà ce l’avrai…”
“Diavolo, i miei valori sono
uguali ai tuoi, più o meno, ma il mondo attorno tu lo sai com’è.”
“Sì, ma se il frutto non cade mai
lontano dall’albero...”
“Severino porta pazienza, dai
retta a me. I proverbi sono una cosa un po’ meno complessa della vita vera,
nella quale non dico sempre, ma a volte, il frutto fa dei chilometri e si
dimentica completamente dell’albero buonanima.”
Giangio lo chiamava per nome solo
quando si innervosiva, alla sua maniera, nelle sue intenzioni doveva servire
per sdrammatizzare, quel nome pareva ridicolo anche all’ex capitano. Questo gli
faceva capire troppe cose o nessune. Dipendeva ovviamente dal cosa o dal
quando, dal dove e dal come, il perché anche non era da trascurarsi.
Severino si è trovato
improvvisamente, ma anche in maniera logica, interessato a scoprire chi erano e
come pensavano i due coniugi, atipici e brillanti, dagli occhi stanchi e dalle
poche azioni fuori dalla rete, per cui Lia, la figlia, diventava quello che era
già a otto anni. Se tutto questo pareva che avesse poco a che fare con le
indagini, forse gli poteva aprire nuove strade per le informazioni.
Quando è venuto a sapere da
Giangio, che lo aveva appreso da Lia, che tutti e due lavoravano per certe
agenzie di assicurazioni, tra le altre cose che facevano con il computer e le
relative consulenze, erano due polipi che allungavano i loro tentacoli in
internet per pescare percentuali e conseguenti soldi. Gli è sembrato
interessante, in qualche modo che non sapeva ancora come.
Aveva notato anche che la bambina
in presenza dei genitori faceva più la stupidina, proprio a loro non rivelava
appieno le sue capacità e loro, impegnatissimi nella loro vita piena di lavoro
ma abbastanza proficua a giudicare dalla casa e dal tenore di vita, magari non
se ne accorgevano che lei li spiava e che era molto più sveglia di quello che
voleva far credere.
Certe assicurazioni sulla vita venivano fatte a persone che poi guarda caso
morivano e non si sapeva nemmeno di cosa, non si capiva neppure chi ci
guadagnava, secondo le parole di Lia, che le riportava senza intenderci tanto,
ma le doveva aver sentite indubbiamente dai genitori, che lavoravano anche per
tali agenzie, visto che in internet loro ci sguazzavano e del fango che c'era
senza dubbio, o solo forse, non se ne sporcavano, ma ne chiacchieravano magari
affascinati da tali meccanismi misteriosi, ma che una certa logica dovevano
avercela e (chi lo sa?) loro la capivano. Quando Giangio e Severino sono andati
a chiedere chiarimenti, Carlo e Rina sono caduti dalle relative nubi, forse Lia
aveva frainteso, loro non ne sapevano niente, figuriamoci.
XIII) ACULEI (1)
Quando il riccio sente freddo in inverno, si avvicina ai
suoi compagni di specie in cerca di calore, ma così facendo le sue spine
feriscono gli altri, e le spine degli altri feriscono lui.
Il problema è che le spine sul corpo del riccio rendono
il processo di avvicinamento agli altri difficile e doloroso, poiché ogni volta
che si avvicinano, le spine nei loro corpi li feriscono, quindi decidono di
allontanarsi. Poi, sentendo di nuovo freddo, si avvicinano di nuovo, e così
via.
In teoria, il riccio ha trovato una soluzione a questo
problema e ha ideato un metodo semplice e di successo, un processo che
Schopenhauer ha chiamato la distanza di sicurezza. Il riccio è riuscito a
scegliere una distanza specifica che gli garantisse abbastanza calore e, al
contempo, il minor grado di dolore possibile.
Nel 1851, il filosofo tedesco Schopenhauer rifletté sulla
situazione del riccio e la considerò uno dei dilemmi sociopsicologici
dell'uomo, chiamandola: il dilemma del riccio.
Schopenhauer ha proiettato questa teoria nelle relazioni
umane, sottolineando che una persona solitaria sente un’intensa necessità di
avvicinarsi alle persone e interagire con loro, poiché la solitudine rimane
molto dura e dolorosa per una persona normale (come il freddo per un riccio),
quindi decide di comportarsi come il riccio e cercare altri esseri umani per
ottenere calore psicologico.
Il problema è che l’attaccamento e la vicinanza non
saranno sempre fonte di felicità e conforto, ma, al contrario, possono essere
fonte di dolore e stanchezza (per lui e per gli altri), generando così molti
sentimenti negativi come pressione psicologica, imbarazzo, separazione e altro.
Anche noi siamo fatti così. Dovremmo cercare di mantenere
una distanza specifica tra noi e gli altri per sicurezza, in modo da mantenere
la relazione nel suo stato migliore. Non troppo lontano, al punto
dell’isolamento, né troppo vicino, al punto dell’interferenza nella sfera
privata. Le esperienze confermano che le relazioni migliori, più efficaci e
durature si basano sul rispetto reciproco all’interno di limiti che nessuna
delle due parti supera.
Il mondo moderno
gli stava assai stretto, era ingrassato lui, lo sapeva, ma l’esistenza attorno
faceva del suo peggio per strizzarlo di più.
Arte di strada e artigianato di fabbrica per lui erano la stessa cosa, ma il secondo era più onesto. Quelle statue enormi e bianche, messe su una discarica nascosta o a spingere il muro di una cattedrale, gli davano una noia insopportabile. Rothko, Cattelan e Fontana, erano cacate di artisti, almeno le scatolette di Manzoni puzzavano ma erano tappate, e alla loro maniera facevano anche ridere.
Severino odiava termini come spoiler, location e foliage, forse
perché disprezzava le mode, parole non italiane che erano uscite fuori da poco
e venivano usate al posto delle altre e se ne sentivano affascinati, le usavano
e ne abusavano principalmente i giovani. Non capiva perché attualmente non si
poteva più dire tipo, ma sempre e solo tipologia. Se qualcuno disgraziatamente
iniziasse la frase con il consueto ...e
niente... come le mode attuali consideravano simpatico, perdeva automaticamente tutta la sua potenziale stima.
Quando vedeva passare comitive che
se ne andavano in giro con gli obbligatori bastoncini per camminare, in
montagna o collina che fosse, gli veniva voglia di dirgli che erano tutti dei
solenni imbecilli, non senza difficoltà se ne stava zitto, ma dalle narici gli
usciva del fumo azzurrino.
Il Black Friday lo odiava, il
venerdì per lui era un giorno che assomigliava al Ramadan dei musulmani, o allo
Shabbat ebraico: non si poteva comprare niente, per nessun motivo.
A Natale diventava cattivo, piuttosto
aggressivo con chiunque volesse fargli un regalo, era uno sgarbo che accettava
solo da sua moglie, ma non senza difficoltà.
Giangio aveva più o meno le stesse
opinioni, la differenza stava nella sua pazienza del saperle vivere in maniera
diversa, senza doverle per forza odiare. Per lui facevano parte della natura
stessa dell’uomo, tutte queste banalità e debolezze, pur ammettendo che una
volta era meno peggio. Ci rideva su, e tentava scherzare con l’amico su queste
bizzarrie che invece Severino prendeva molto sul serio e ci riusciva per niente
a divertircisi.
Già dal nome,
l’eccessiva severità dell’ex capitano, talvolta implicava buonumore per gli
altri, un po’ come il carattere stesso dell’uomo
moderno, secondo gli storici, i sociologi e gli scienziati tutti. Era stressato
e preoccupato per pericoli che ormai non esistevano più, abituato fin da quando
era un uomo delle caverne, a mangiare gli animali che cacciava... e a volte a
esserne a sua volta cacciato e purtroppo anche mangiato, poteva capitare.
Severino era un
cavernicolo un po’ più colto, talvolta nei modi e negli sguardi, forse anche a
suo tempo incantevole per sua moglie, ma risultava un po’ troppo esagerato per
gli altri, e ugualmente gli altri per lui.
Dentro di sé però
aveva un esercito ben addestrato a perseguire i malviventi, aveva studiato poco
ma da autodidatta si era fatto largo in un mondo di tanti che per abitudine
fingono di essere intelligenti. Lui era veramente arguto, anche se spesso non
gli pareva una cosa positiva, capire al volo le situazioni lo faceva anche
soffrire.
Era rozzo e
raffinato allo stesso tempo, non era capace di fingere, se la maggior parte
della gente si nascondeva dietro comportamenti e stereotipi preparati senza
nemmeno saperlo, lui invece no, e a cambiare non ci aveva nemmeno mai pensato.
Mauro era stato a
suo tempo e modo piuttosto forte di carattere e prepotente, quando era bambino,
un po’ come Severino, quindi non avevano legato molto, ma inconsciamente si
stimavano. Giangio invece era stato vicino a tutti e due, avendo un carattere
più flessibile e meno estremo.
Da adulto Mauro
era cambiato, forse anche per via del suo lavoro e certamente per merito della
sua storia personale. Severino no, e il suo lavoro non lo aveva aiutato a
farlo, forse gli aveva provocato alcuni peggioramenti successivi, calcificati e
stratificati.
Da adolescenti
erano andati insieme in motorino al campeggio, poco prima che Severino si
trasferisse con la famiglia a Roma. All’isola d’Elba non era stata affatto una
bella vacanza, Mauro e Severino si erano coalizzati contro Giangio, che
consideravano forse più debole.
La loro amicizia
era stata interrotta per un bel po’ di tempo. Diversi anni dopo, quando dalla
capitale erano ritornati in Toscana e in provincia di Lucca, Mauro non c’era
più e Giangio invece sembrava che lo avesse aspettato.
Severino insomma era
un ingenuo per tante cose e molto più astuto della media per altre. Quello che
complicava tutto per gli evemtuali interlocutori era che quando scherzava
pareva che facesse sul serio e quando invece faceva sul serio, allora sembrava
che scherzasse.
Bice era una
donna combattiva e quieta, Severino non era capace di ingannarla a lungo, dal
suo lato lei aveva già capito in gioventù che era meglio lasciarlo fare, sennò
la vita diveniva una guerra.
Eppure lui con
lei si trasformava, era meno polemico e puntiglioso, perché lei lo lasciava
libero di andare a sbattere nei muri con la testa, a piacimento suo, e lui e
gliene era anche grato, ma non era certo stato programmato per le mezze misure.
Chi teneva
l’amministrazione della casa e le redini della famiglia era lei, lui si perdeva
dietro altre cose, se ne fregava dei soldi, ma se fosse stato solo non avrebbe
certo raggiunto l’età della pensione. Se lo diceva da solo e lei taceva, che
non c’era nessun bisogno di acconsentire. Era inutile arrabbiarsi, era fatto
così e non poteva cambiare. Tutte le volte che lui riusciva a ingannarla,
statisticamente andavano a finire male, alla fine chi ci rimetteva erano tutti
e due, ma non succedeva tanto spesso.
Inoltre chi pesca forse non lo fa solo per causa dei
pesci, almeno i pescatori sportivi ma non troppo, come Giangio e Severino,
quelli che non adoperano la mosca o il cucchiaino perché dovrebbero fare troppo
movimento e quello che vogliono loro invece è la quiete, chiacchierare senza
fretta, scordarsi del mondo frenetico non troppo lontano da lì.
I pescatori attempati hanno spesso questa caratteristica,
ma nel mondo moderno ogni tipo di pescatore sta sparendo, sia quelli sportivi,
che quelli di mestiere, per motivi diversi, ma diventano sempre più rari.
I professionisti, cioè gli ex, non hanno molto più pesce
da pescare, per via dell’inquinamento e della pesca predatoria e senza rispetto
né per i pesci né del povero futuro dell’umanità che sta straziando ogni specie
e si avvia verso un domani di cibo chimico. I pescatori intensivi non sono
molti, perché le macchine fanno quasi tutto loro.
Gli altri, quelli come Severino e Giangio, cominciavano a
pensare che era piuttosto scomodo, troppo umido, c’erano tanti altri passatempi
più facili da praticare, i pesci poi non gli piacevano, se c’era da sbuzzarli e
pulirli, insomma se non già cotti e senza lische.
Di argomenti per parlare ne avevano anche troppi, ma le
storie del passato erano quelle che piacevano di più a tutti e due. Giangio
quando andava a pescare doveva usare degli occhiali particolari, per riuscire a
vedere i movimenti del galleggiante, quelli che usava per guidare la macchina,
ma la prendeva raramente quella, stava sempre in garage a riposare.
La neve si era sciolta tutta e il caldo era più degno di
questo nome. Era quasi giugno sono andati a pescare al laghetto e si sono
trovati, come ai vecchi tempi, a parlare di fantomatiche prede ittiche
raccontate al Circolino del Pescatore Sportivo di Monte S.Quirico.
Al fornitissimo bar con annessa l’associazione venatoria
lucchese, più un terrazzo sfizioso assai per le cene, con vista fiume Serchio
addirittura. Purtroppo aveva chiuso da qualche anno.
“Ti ricordi quei bugiardi quante
ne inventavano?” Ha domandato Severino lanciando la lenza più lontano che
poteva da quella di Giangio, che invece gliela lanciava sempre vicino, magari
senza rendersene conto, ma forse invece sì.
“Come potrei dimenticarmi di quei personaggi da operetta
venatoria?” Ha risposto Giangio.
“Beh, bisognava farci la tara, ma non tutte le storie di
pesca miracolosa erano inventate di sana pianta, qualcuna poi era anche quasi
vera.”
“Quasi. Un quasi gigante però. Ci sarebbe da scrivere un
libro!!”
“Ma meglio un film.”
“Mi viene in mente la storia della trota di Tre uomini in barca.”
“Ecco. Tutti dicevano che l’avevano pescata e tutti in
modo differente. Alla fine cade giù e va in mille pezzi, era di gesso!”
“Appunto. Dicono che il pescatore esagera o mente per
inerzia dei fatti, o anche della loro eventuale eventuale mancanza. Là il
peggio bugiardone però era il Martellacci!”
“Secondo me invece era il Malerbi.”
“Beh, certo che anche il Lipparelli…”
“Ma chi?”
“Come chi?”
“Il Lipparelli non te lo ricordi?”
“Se mi ricordo il Lipparelli? Che domande fai? Quello sì
che era capace di mentire con la massima indifferenza, era bravissimo!” Ha
ricordato con la stessa e ben proporzionata massima ammirazione Giangio.
“Sì, però quell’altro più grosse le sparava e più faceva
quella faccia indifferente…”
“Ma chi, il Lipparelli?”
“No, ora sto parlando del Martellacci. Ti ricordi quando
andarono a Massaciuccoli con l’esca nuova, supermega, di polenta speciale
inventata da lui? Che ci aveva messo anice e formaggio?”
“Chi se lo ricorda? Bisogna vedere poi se era vero…”
“Infatti, magari l’aveva comprata al Caccia e Pesca di
Quiesa, ma quello che conta è la faccia che fece quando gli chiesero quante ne
avevano prese…”
“Come se fosse stata una cosa del tutto trascurabile
disse che avevano preso poco o niente, a parte una carpetta di quindici chili…”
“A specchio o reina? Gli chiese il Lipparelli che non ci
credeva, come noi.”
“Cuoio, cuoio,
rispose quello quasi infastidito, voleva essere sensazionalistico a ogni costo,
(anche se a quel tempo questa parola non era ancora in uso,) lui di Cuoio non
ne aveva mai viste, non credo che ce ne siano nemmeno in Toscana e poi quelle a
quindici chili non ci arrivano nemmeno…”
“Ci arrivano, diamine, ci arrivano, guarda che io di
manuali di pesca ne ho letti non so quanti.”
“Anch’io, figurati, che qua in montagna d’inverno non c’è
niente da fare. Dopo Tolstoj, Dostoevskij e Gogol i manuali me li sono divorati
tutti: pesca, caccia, allevamento nonché agricoltura fai-da-te e naturalmente come
diventare un hacker cazzuto abbestia. Allora: la Carpa Cuoio si presenta
totalmente liscia e priva di squame. Il corpo più tozzo, arcuato e massiccio
rispetto alla Carpa a Specchio. Quella ha origine da incroci ed accurate
selezioni effettuate dai carpicultori della regione della Boemia…”
“Sì, lo so, lo so, e si diffuse poi soprattutto nelle
varie regioni della Germania, in Inghilterra e nell'Italia del nord, e, grazie
ai suoi eccezionali incrementi ponderali annui (fino ad 1,2 - 1,3 kg dopo il 5°
anno di eta'), la sua fama si diffuse presto tra i carpicultori europei ed
asiatici.” Facevano a gara a chi ne sapeva di più e io là dietro nascosta a
guardare verso il cielo, che delle carpe non me ne fregava niente.
“La livrea di questo pesce differisce dalle precedenti
varietà per un colore più scuro con tonalità bruno-giallo-olivastre e riflessi
bronzei anche sulle pinne branchiali, pettorali ed anale.”
“Sì, va bene, ma allora a quanti chili arriva?”
“Secondo le mie fonti ittiche a non più di venti chili.”
“E le altre?”
“Anche quaranta.”
“Ma te le hai mai viste delle carpe di quaranta chili?”
“No, personalmente no, ma i libri di pesca dicono così,
poi il Martellacci potrà confermartelo.”
“Ah, allora… a lui ci credo ciecamente, basta attenersi
al contrario di quello che dice.”
“E poi è morto.”
“Ma quando?”
“Sarà una ventina d’anni fa.”
“Come passa il tempo, eh?”
“Già...”
“E di che è morto?”
“Boh? Forse avvelenato dalle bugie.”
Era una bella giornata di sole, una brezzettina impertinente increspava appena le acque del laghetto.
XIV) PESCATORI DI ILLUSIONI (10)
«Essere disposti a cambiare è da persone intelligenti.
L'inconscio governa la nostra vita, e l'inconscio è formato dalle nostre
credenze, molte delle quali sono false anche se le diamo per certe. Avere un
atteggiamento di apertura verso tutto e tutti ci mette in migliori condizioni
per continuare a crescere. Come già diceva Keynes, «la cosa più difficile al
mondo non è che la gente accetti nuove idee, ma che dimentichi quelle vecchie»;
qualcosa di simile a quello che pensava Goethe: «Stai attento a ciò che impari
perché non potrai dimenticarlo». Essere aperti al «disimparare» è assolutamente
imprescindibile affinché il vero apprendimento abbia luogo. Molte volte, ciò
che pensiamo di conoscere è ciò che realmente ci impedisce di imparare».
Bertrand Arthur William Russell 1872-1970
Matematico, filosofo, scrittore e altre robette
Andati a cena da Fagiolino a
Cutigliano, Severino e Giangio hanno rivelato agli altri due i sospetti e le
novità. Tra cui quello che Lia non gli aveva detto, ma dalle sue parole si era
lasciato intravedere. Piccinini e Pelosi non sono rimasti propriamente di
stucco, ma quasi. Giangio ha parlato di quello che pensava dei vicini, non
coinvolti personalmente ma sapevano di cose turche e Severino ha tirato le
debite conclusioni, causando proteste e mani nodose addosso, il che lo ha
convinto che era sulla giusta strada, ma forse c’era da potare qualche frasca e
riempire di ghiaia le buche che si erano create con il maltempo.
Giangio lo ha appoggiato, visto
che le conclusioni erano anche le sue e poi erano una coppia che agiva appunto
in numero di due e se per caso stessero sbagliando, che gli dovessero prima
dimostrare i dovuti e necessari elementi contrari e contro la loro volontà e
determinazione.
Fatto sta che di conseguenza, ispirato
dai fatti appresi lateralmente dalla coppia di ex lavoratori in questione, poco
dopo Marchigno ha rivelato un fatto che poteva e non poteva essere collegato,
ma è stato considerato interessante almeno dal punto di vista amatoriale sì, ma
piuttosto sull’investigativo.
Il dottor Sandro Ferraro di
Cutigliano, medicina generale di professione libera, conosciuto da loro tutti,
persona onesta e intelligente, aveva detto a Piccinini, in occasione di un
altro interrogatorio, per altri possibili reati, (quelli là ancora da
dimostrare, ma non commessi da lui,) che alcune perizie - a riguardo il loro
specifico caso - gli avevano offerto soldi per falsificarle, non sapeva bene
chi, ma era possibile dedurlo per loro carabinieri. Naturalmente non lo avrebbe
testimoniato in tribunale, era pericoloso per la sua stessa incolumità, o della
cui famiglia, ma era così, se poteva servirgli a qualcosa e dicendo queste cose
accusava già indirettamente la mala, o chi per loro, la mafia, La Porta o chi ci
fosse di mezzo, non erano fiori da odorare con speranzosa soddisfazione
olfattiva.
“Eh sì. I topi non avevano proprio
nipoti!” Ha detto Severino, Giangio ha riso, Mauro e Marchigno non hanno
capito, per i primi due era diventato un modo di dire sul genere di CVD, Come
Volevasi Dimostrare. Glielo hanno spiegato anche a loro.
Quelli però hanno continuato a non
capire.
E poi la situazione funzionava pure al
contrario, ha commentato Severino. Partendo dalla bambina, che lasciandosi
scappare cose che lei in prima giovane persona magari non capiva, ma che erano
rivelatrici dell’attività di colleghi, collaboratori, datori di lavoro e
conoscenti limitrofi dei genitori, si era arrivati dove si era arrivati…
certamente, anche se non si sapeva ancora dove.
Insomma i discorsi che faceva la bambina,
visto che non poteva averli uditi da loro due, che queste cose non le sapevano
e poi ci stavano attentissimi, le aveva apprese dai genitori, visto che poi lei
non frequentava nessun altro.
Lia poteva essere usata anche per farsi dire
quello che dicevano i nonni acquisiti, ma loro per fortuna in sua presenza non
si erano mai fatti sfuggire nulla. E secondo Severino, appoggiato da Giangio,
poi lei voleva ribellarsi ai genitori che non avevano tempo per lei, sempre
attaccati ai vari computer, telefoni fissi e cellulari, si era appoggiata ai
nonni ad honorem, per fargli
dispetto, ma loro invece, personalmente erano contenti che ci fosse qualcuno
che le facesse compagnia.
Insomma pare che la bambina avesse detto che
tali morti in serie, erano collegate con i premi delle assicurazioni, chi
glielo avesse detto non si sa, ma si supponeva che lo avessero detto sua madre
o suo padre, chiacchierando del più e del meno specifico, quando Lia nascosta
dietro la porta, o nell’altra stanza, si supponeva che non potesse sentire.
Carlo a pesca non veniva più, c’era venuto
poche volte anche prima, ma aveva subodorato qualcosa o aveva troppo da fare,
magari non gli piaceva stare con loro, o la pesca non entrava nel suo concetto
di gradevole tempo libero. La bambina si vedeva poco in giro, la mamma non
appariva più per niente.
Marchigno ha provato a parlarne con il capo,
Ilio De Santi, anche se già senza convinzione e lui, il capo, gliela ha tolta
subito tutta, non ci credeva e non poteva capacitarsene e lui, Marchigno,
stavolta, di conseguenza si stava lentamente facendo di lui, il capo,
un’opinione che non avrebbe potuto confessargli facilmente.
Le indagini intanto proseguivano senza
apparente sforzo, ma soprattutto senza risultati concreti, eppure in teoria si
erano macinati già dei chilometri non indifferenti.
Marchigno allora ha avuto l’idea di trovare
un hacker ammodo e pensandoci bene ce ne aveva uno già sotto mano, si fa per
dire, perché essendo lui cacciatore aveva un amico pescatore, che qualche volta
erano andati insieme a pescare o a caccia, tanto per farsi compagnia. Il quale
amico avendo un figlio che condivideva la sua stessa passione di pescare, ma
con la rete, erano andati insieme anche con il figlio a pesca e a caccia.
Che c’entrava con tutto questo?
Il padre non era poliziotto, era piuttosto un
idraulico, anche se defunto, ma di morte naturale. Il figlio chiamato Tore,
indirettamente come diminutivo di Pescatore, che come abbreviazione di
Torregiani, era uno che pescava più volentieri con la rete, o anche detta
bilancia, in fiume, lago o fosso che fosse, ma soprattutto in internet,
lavorando a Milano per la Microsoft.
Dato il caso che la pandemia costringeva
attualmente chi poteva a lavorare a casa e il suo lavoro essendo in internet,
Michele detto Tore, si trovava a casa sua in pianta stabile, cioè a Tempagnano.
Severino impaziente ha chiesto allora che
cosa stavano aspettando, il Piccinini ha risposto che Tore bisognava
incentivarlo, però, che di voglia di lavorare non ne aveva tanta, passava la
maggior parte del giorno al computer e quando ne usciva non voleva tornarci, ma
vivere un po’ di vita aldifuori del virtuale.
Soldi?
No, magari qualcos’altro. Credeva che fosse
un tipo a posto, con degli ideali e basi solide. Ci voleva qualcos’altro.
Severino gli ha proposto di portarcelo a casa
sua, a Tempagnano o dove diavolo fosse, ma subito. Ci avrebbe parlato lui. Per
quanto perplesso Marchigno lo ha portato da Tore, insieme a Giangio, sempre in
seconda battuta, ma pronto al peggio eppure auspicando il meglio.
XV) HACKERS (9)
"Qualcuno si chiede per quale motivo si studi la filosofia, cioè una
disciplina che in apparenza non ha alcuna utilità pratica. Ebbene la filosofia
serve a non dare per scontato. Nulla. La filosofia è uno strumento per capire
quello che ci sta attorno – per capire quello che ci sta dentro probabilmente è
più efficace la letteratura –, ma capiamo davvero quello che ci sta attorno se
non diamo per scontate le verità che qualcun altro ha pensato di allestire per
noi. Fare filosofia – cioè pensare – significa imparare a fare e a farsi
domande. Significa non avere paura delle idee nuove. Significa non fermarsi
alle apparenze. Significa essere capaci di dire di no a chi vorrebbe imporci il
suo modo di pensare e di vedere il mondo. Cioè a chi vorrebbe pensare per
noi."
Gianrico Carofiglio -
"Il bordo vertiginoso delle cose"
Il ragazzone
non si è stupito né preoccupato, naturalmente era piazzato a oltranza davanti
al computer, si capiva dagli occhi rossi. Li ha fatti entrare, gli ha offerto
un caffè, ma poi si è seduto al pezzo e non smetteva di guardare il monitor e
cliccare, mentre annuiva parlava con loro a monosillabi. Per tutta la loro
conversazione ha lavorato senza guardarli in faccia che ogni tanto, a mo’ di
conferma alle mezze parole dichiarate.
Dopo i
convenevoli, Severino ha cominciato a dire:
“Ci sarebbe
da fare un lavoretto.”
“Quale?”
“Beccare dei
mafiosi fetenti e metterli in gattabuia.”
“Mi pare un
po’ faticoso.”
“Alle manette
e alla parte del lavoro fisico ci si pensa noi, all’occorrenza li meniamo
anche.”
“Ma voi non
siete in pensione?”
“Sì, ma non
per questo ci dovrebbe garbare di vedere la gente ammazzata da certi stronzi, magari
per lucrarci sopra. La polizia dorme, ha le mani legate, prende le tangenti per
non fare niente, insomma le solite cose, non necessariamente in questo ordine.”
“Di chi
stiamo parlando? Dei quattro morti con i semi di grano?”
“Proprio
quelli.”
“Bene... No...
anzi: male, malissimo. Ma io che dovrei fare?”
“Li peschi
nella rete, dove sei fine maestro e li smascheri con prove solide anche se
piuttosto telematiche.”
“Gratis?”
“No, ci
sarebbe la soddisfazione impagabile di aver migliorato il mondo, ti pare poco?”
“...e
tecnicamente si tratta di mafia vera?”
“Forse, ma ci
sono dei punti oscuri, probabilmente attraverso compagnie di assicurazioni.”
“Beh, se mi
date un computer con i controcazzi e un’internet valida, in qualche ufficio, a
casa vostra o di chi vi pare a voi, io ve lo posso anche fare, così se succede
qualcosa la colpa me la scarico. Da qui non posso, rischio troppo.”
“Mi pare
onesto. Questo fine settimana puoi venire alla Doganaccia?”
“Certo, ma
oltre al computer, poi vi dico io come deve essere, preparatemi almeno da
mangiare qualcosa di buono. Merenda e pranzo, direi, ma consistenti. Non mi
piace il fegato, per il resto va bene tutto.”
“Affare fatto. Ti telefoniamo
appena abbiamo i dettagli.” Era giovedì pomeriggio e il computer non sapevano
ancora dove andarlo a pescare, in più la descrizione delle caratteristiche,
scritte su un foglio a quadretti era peggio dell’arabo, almeno per loro.
Marchigno Piccinini però aveva un figlio patito per i
giochi da fare al computer, in più faceva disegni tecnici e animazioni per studio
in vista anche di un lavoro, per i quali ci vuole un apparecchio di tutto
rispetto. La sua famiglia viveva a Pistoia e giungerci per Tore era più comodo
e rapido che alla Doganaccia.
Raggiunto
insomma il sabato seguente, il giovinotto è arrivato puntuale e ha voluto
subito un acconto di merenda, panini al prosciutto e gorgonzola, caffellatte e
yogurt in quantità e qualità, roba che ha fatto sparire in un batter d’occhio.
Poi si è messo al computer che il figlio di Piccinini non aveva voluto lasciare
incustodito, per via forse di qualche pornaccio nascosto in qualche angoletto
della memoria e ha voluto assistere all’operazione, magari per impararci anche
qualcosa, non si sapeva mai, il futuro era proprio in quelle macchine infernali.
Abbandonando il mouse,
Tore ha cominciato a mitragliare sulla tastiera ovviamente aprendo una finestra
di prompt, una di quelle schermate
nere con le scritte bianche diventate famose col film War Games.
Davanti a sé solo codici. Niente icone: più i
cervelloni elettronici sono potenti più l’interfaccia grafica tende a
semplificarsi, a rimpicciolirsi, fino a sparire.
Gli hacker utilizzano linee di comando, niente
disegnini né paesaggi di sfondo. Un cursore bianco lampeggiante su schermo
nero: il campo di battaglia di questo tipo moderno di pirata è simile a una
scacchiera lampeggiante.
Chi guardava non ci capiva niente, chi avesse una
qualche pur modesta e intermedia dimestichezza con il computer non era per
niente avvantaggiato.
Si è collegato via Telnet all’host del primo gestore,
cioè si è travestito da Alborella per non farsi riconoscere, mentre era un
cospicuo Luccio ed è arrivato, attraverso una distesa di verticali alghe verdi
chiaro e fulmini giallo scuro, nei pressi del metaforico buco in cui si voleva
introdurre.
Come volevasi dimostrare Tore era un pescatore rapido
ed efficace, avuto il nome dell’agenzia in questione è riuscito nel giro di
minuti a trovare dei nomi di pesci pregiudicati e non solo pistoiesi facilmente
riconducibili al La Porta, non tanto come collaboratori ma come fornitori a
terzi di cibarie e bevande, cancelleria e cose varie, che forse facevano parte
degli accordi, certo non erano prove, ma si potevano sorvegliare e vedere dove
portavano, hanno pensato e detto i compari.
Poi dei pagamenti sospetti a Petrocchi Gian Antonio, un
medico montanaro già conosciuto per essere un probabile corrotto. Alcune non
eccessivamente grasse ricevute scritte a penna su un foglio poi scannerizzato,
a Delio Signorini, che collaborava anche attraverso consulenze di vario tipo
con Carlo Dalle Piagge, il padre di Lia e anche con Rina, la madre. Entrato
sulle tracce dei quali sono stati trovati solo contatti indiretti con La Porta.
Diverse volte sicuramente è comparso anche l’e-mail di Nerobase, cioè il mio, e
quello di CiccioPasticcio, che è di Ginulfo, ma loro non li conoscevano e
quindi non ci hanno fatto caso.
I contatti con le assicurazioni c’erano e le imprese
erano tante. Forse troppe. Ma in quel mondo ci voleva pazienza e se ogni tanto
una rete incrostata di conchigliette si presentava davanti al luccio
travestito, allora Tore faceva un giretto ed entrava di dietro dalle lunghe e
apparentemente minacciose alghe.
Nel giro di quaranta minuti scarsi il ragazzone aveva
fatto tutto quello che poteva e stava già sgranocchiando il pranzo che la
moglie di Piccinini gli aveva preparato e discorrendo, dei più e dei meni a
disposizione, si sono messi a mangiare tutti insieme, con Severino e Giangio,
tra un boccone e l’altro commentando quello che pensavano e quello che dovevano
fare di conseguenza. Niente di quello che aveva trovato poteva essere usato
come prova, purtroppo, ma almeno ora avevano una sensazione più solida di
essere sulla strada giusta.
“Eh sì. I topi non avevano nipoti.” Ha detto
distrattamente Giangio bevendosi il caffè corretto a grappa.
“No. Ma potrebbero avere degli zii.” Ha replicato
Severino.
“In che senso?” Ha chiesto Marchigno.
“Non è che volete personalmente prendere un prestito?”
Ha domandato Mauro Pelosi già terrorizzato dall’ipotesi.
“Bravo. Ci vorrebbe una coppia di anzianotti
insospettabile, che faccia da esca.” Ha continuato Severino, pensando a sé
stesso e sua moglie, nel suo raziocinio davanti a un caffè nero fumante e a sei
occhi spalancati.
“Ma se non li ammazzano dopo non serve a niente.
L’usura è un reato da niente.” Giangio ha volutamente rovinato il progetto,
almeno così ha creduto al momento.
“Se sono costretti a fare un’assicurazione sulla vita
però…”
“Nooo. Ci vuole troppo tempo.”
“E poi non mi quadra ancora una cosa, il morto
mummificato perché hanno acceso aria condizionata e deumidificatore? L’hanno
ridotto a una mummia, ma per quale motivo?” Ha chiesto Severino.
“Forse per impressionare i debitori, ma non ce n’era
alcun bisogno, per me è qualcosa di sinistro oltre la necessità, dico io.” Ha
risposto, anche a sé stesso e ai dubbi di Mauro, pelosi come il suo cognome.
“Il morto deve essere ammazzato, ma non si sa come, e deve
essere trovato alla svelta, ma se l’assicurazione non sa dimostrare che è stato
ucciso, allora deve pagare.” Ha detto Mauro.
“Cioè a chi deve pagare i debiti deve sembrare morto
ammazzato, agli altri invece no.” Ha concluso Severino.
XVI) E LA LEGGE IN VIGORE? (15)
Secondo Bice, per quello che gli
raccontava Severino, Marchigno la prendeva piuttosto alla sportiva, sennò la
sua esistenza sarebbe stata molto più infernale, era come quei bravi psicologi
che oltre a curare non si guastano le cose della routine e vivono dando
importanza a quello che fanno ma non troppa, mantenendo la necessaria distanza
per poter aiutare gli altri.
Marchigno aveva un forte rapporto
con il cibo, abituato e viziato dall’Italia centrale, gli piacevano abbestia la
gastronomia e la culinaria, forse era per questo che non aveva resistito tanto in
Brasile, ci si mangiava troppo male, in più non c’era scelta, avevano un menù
limitato. La moglie anche era stata d’accordo e, dopo quattro anni, erano
venuti in Italia.
La loro l’indagine era importante
per tutti, ma per Severino lo era molto di più. La vita non era mai stata un
gioco, per lui, forse lo diventava quando stava con gente che non lo faceva
pensare alla realtà. Per lui trovare quell’assassino e condannarlo era
questione di vita e di morte. E a morte lo avrebbe volentieri condannato e
giustiziato personalmente.
Per Giangio tutto era importante e
niente veramente lo era, non si rovinava mai il sonno e riusciva a godere delle
più piccole cose, amava la natura e la solitudine non gli pesava, perché aveva
numerosi e goderecci contatti con la gente e il mondo. Non aveva paura di
morire, eppure la vita gli piaceva.
Tutto il contrario di me.
Era un maestro nel suo gioco di
flessibilità quotidiana, quello che in Brasile chiamano jogo di cintura. A proposito: Bice era entrata in contatto con
Telma, la moglie brasiliana di Marchigno, era curiosa di conoscerla e magari
anch’io, indirettamente.
Giangio aveva
preso tutte le cose stampate da Tore, documenti che a loro, pur sembrando
sospetti, non dicevano abbastanza. Il loro piano era consultare il milanese
Pietrogiovanna, un amico detective privato di Ambrogina, apparentemente solo un
bauscia pelato, che si vestiva anche in maniera piuttosto pacchiana, che però
al posto dei capelli era dotato di metaforiche antenne paraboliche.
Giangio, dopo
questo colloquio a distanza, il giorno seguente è tornato fuori dal rispettivo
computer, più indispensabile e relativa internet, con mezze notizie e tre
quarti di ipotesi, per gli altri membri della congrega.
Nella riunione adiacente ha letto
e recitato con voce da poliziottesco un po’ sull’avvocatizio:
“L’art. 1815
c.c. in materia di mutuo prevede che Salva diversa volontà delle parti, il
mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante. Per la determinazione
degli interessi si osservano le disposizioni dell’art. 1284. Se sono convenuti
interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi. Gli interessi rappresentano la prestazione
corrispettiva gravante sul mutuatario. Il secondo comma dell’articolo in
questione (che originariamente prevedeva: Se sono convenuti interessi usurari,
la clausola è nulla e gli interessi sono dovuti solo nella misura legale) è stato sostituito dalla legge 7.3.1996, n.
108, recante disposizioni in tema di lotta all’usura. Il reato di usura
disciplinato dall’art.644 c.p., appartenente alla categoria dei delitti contro
il patrimonio, punisce con la reclusione da due a dieci anni e con la multa da
5.000 a 30.000 euro: chiunque, fuori dei casi previsti dall’art. 643, si fa dare
o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di
una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o vantaggi usurari.”
“Madonna mia, questo è un
azzeccagarbugli.” Ha detto Marchigno.
“Bel lavoro Giangio, non ti sei
baloccato come al solito ed hai fatto diligentemente e con dovizia di
particolari inutili il compito per casa.” Ha concluso Severino e Giangio ha sorriso
e scosso lento la cervice, disapprovando le sue parole.
Alle spicce però ha spiegato cosa
significava quello che aveva appena letto, la presenza in loco di tale
documento confermava e smentiva certe ipotesi, ma soprattutto confermava.
Pietrogiovanna anche pensava che
altri documenti non ufficiali (che Giangio ha letto puntualmente ai restanti tre
moschettieri) su promemoria ricchi di particolari incomprensibili per loro, ma
non per il milanese che il suo lavoro lo conosceva a menadito, riguardo i
quattro morti di morte accidentale ma non troppo, (più altri dodici sui quali
si sarebbe indagato in seguito, non necessariamente già defunti,) non
smentivano ma piuttosto confermavano, se non come prova, piuttosto affatto non
casuali coincidenze di tali macchinazioni illecite e in un certo senso abominevoli.
Marchigno ha detto subito dopo che suo fratello Marcello, che lavorava in banca a Empoli, guarda caso sapeva a memoria che le banche avevano questa abitudine di far firmare una assicurazione sulla vita a chi prendeva prestiti ingenti, grosse cifre. Figurarsi se gli strozzini non prendevano le loro precauzioni, con le banche avevano tante cose in comune, tra cui i metodi senza pietà per i malcapitati.
Stavano arrivando le vacanze di Natale, periodo meno agognato per l’ex capitano convinto anti-consumista, e se ne sono dovuti tornare a casa, ovviamente Dina la sorella della moglie aveva bisogno dell’appartamento per le due sacre settimane bianche a cavallo delle feste comandate e comunque era diventato troppo freddo per i suoi gusti, Bice invece c’era abituata, lei e sua sorella erano notoriamente originarie delle montagne pistoiesi.
Era passato un bel po’ di tempo,
sei mesi o giù di lì, e la polizia stavolta non brancolava più nel buio solo
perché i giornalisti avevano smesso di occuparsene. Un serial killer che non si
trova e per di più smette subito di uccidere, automaticamente diventa ancora
più misterioso, ma passa nel dimenticatoio.
Severino è andato a parlare con
Carlo e Rina, ha cercato di apparire meno minaccioso possibile, ma forse non
gli è riuscito tanto bene. Lia era di là con Giangio. Gli ha fatto capire di
aver capito cosa facevano, i loro amici, conoscenti o colleghi, ma hanno
ignorato il suo tentativo, secondo loro magari poteva farsi i fatti suoi, anzi,
forse era anche meglio.
Nei dintorni dell’ufficio del mafioso usuraio gli interrogati hanno confermato i traffici loschi e il movimento continuo di gente che entrava e usciva, con facce deluse o preoccupate, si è notato che alcuni scherzavano nervosamente per sdrammatizzare. Comunque nel palazzo c’erano anche altri uffici e chi usciva poteva essere di tanti tipi e i commenti di più ancora, meglio non fare di tutta l’erba un fascio.
A fare da esca alla fine c’è andato Giangio con la sua amica Ambrogina, La Porta non c’era, ma all’uscio di un ufficio moderno standard, un suo uomo con la cravatta piena di tazzine e piattini li ha ricevuti, a Chiesina forse anche Uzzanese, in piazzetta Tal dei Tali, numero mezzo scancellato.
Gli sono parsi tanti quarantamila euro, ma ha detto di tornare il giorno dopo, mentre loro si informavano. La pratica era però che si dovesse firmare un’assicurazione sulla vita. Giangio ha riempito i formulari, la conversazione è durata una mezz’ora ed è stata da lui registrata con un piccolo tascabile.
XVII) THRILLER, GIALLO O NOIR? (17)
Ilio De Santi
diceva che secondo i suoi informatori, la facciata non era solo una facciata,
che compravano e rivendevano articoli di ogni tipo, ma soprattutto di generi
alimentari scaduti o vicini alla scadenza. Una cosa perseguibile per legge
anche quella, ma meno grave. Spesso i compratori erano supermercati e
ipermercati. Geraldinho non c’era quasi mai in sede, che poi erano tre solo in
provincia di Pistoia, ma pare che la principale fosse quella di Chiesina Uzzanese.
Pure lui è camuffato, con la
carica che ha non potrebbe essere differente, ma da alcuni particolari lo ho
riconosciuto, perché eravamo alle medie insieme e ora è amico di amici, o gente
che si crede tale. Da mesi sono in corrispondenza saltuaria e discontinua con
Ilio De Santi su Facebook, il capitano dei Carabinieri di Pistoia. Lui è un
altro che si immagina chissà cosa di me, ma io sono bravissima a fargli credere
quello che voglio.
Attraverso le reti sociali è fin
troppo facile, per chi è abituata a fingere di presenza, con la gente che ti
guarda negli occhi. Le foto del mio profilo sono di un’attrice boliviana di
mezza età, una bella donna, ma non bellissima e con qualche malcelata ruga. Ce
ne ho anche pubblicate di quando era bambina.
Lui vuole incontrarmi, ma io non
cedo, faccio la sdegnosa, alternata alla sciantosa, cerco di scucirgli notizie,
è piuttosto abbottonato, ma indirettamente qualcosina ogni tanto mi arriva.
Voleva fare sempre il colto e
l’interessante, naturalmente io non abboccavo.
“Tu sai che io sono un lettore
acerrimo, soprattutto gialli, noir e libri dalla trama imprevedibile, che non
sono tanti e spesso non sono nemmeno famosi. Bisogna scavare.” Ha detto un
giorno Ilio.
“Ma che tipo di storia è quella
del tuo caso dello strozzino?” Ho chiesto io.
“Non lo so ancora. Ecco, oggi si
distingue, la differenza tra giallo, noir e thriller, tre generi letterari che
poi diventano anche film, generi che hanno molto in comune, ma che non possono
e non devono più essere mischiati a piacimento, ci sono cose mischiate, che non
appartengono né all’uno o all’altro genere, o a tutti e tre, o a due soli,
insomma.”
“E allora quali sono ‘ste
differenze?”
“Prima di tutto: la vita è diversa
dai gialli, dai noir e compagnia cantante. Il noir rappresenta in
qualche modo l’altra faccia della storia di un crimine, quella vista dalla parte
del criminale. Manca del finale consolatorio che tranquillizza il lettore e
assicura il colpevole alla giustizia. A differenza del classico giallo. Invece
nel noir, quello che veramente conta è uno spaccato di una certa
società – periferie emarginate, città un po’ decadenti, sobborghi piuttosto
malfamati – ma il protagonista in chiaro-scuro e ai margini della legge.
L’importante è raccontare, attraverso l’indagine poliziesca, altre cose, gli
aspetti oscuri di una città o della collettività, spesso nel noir la figura
dell’investigatore passa in secondo piano.”
“Qui si parla di tante altre cose,
quindi mi pare un noir, l’investigatore non è in primo piano, che quello
saresti te, ma non mi sembra che tu investighi tanto…”
“No, siamo un po’ bloccati,
abbiamo due casi grossi, figurati, da una parte ci sono questi morti
misteriosi, senza sapere nemmeno di cosa sono morti, ma hanno in comune questo
mistero e i chicchi di grano in tasca…”
“Secondo te quindi sono simbolici
i chicchi?”
“Ma simbolici di cosa? Non si
capisce.”
“Forse rappresentano i soldi?”
“Boh? Lo dice anche Piccinini, ma
quello è fesso, ci sono troppi punti oscuri… Comunque, veniamo a noi. Il noir
rappresenta guasi-guasi la faccia in un certo senso opposta del giallo. Ora
andrò a spiegarti invece la differenza tra giallo e thriller analizzando le
differenze per categoria.”
“E chi è ‘sto Piccinini?”
“Quante cose vuoi sapere. Il mio
vice. Che non capisce una mazza.”
“Perché?”
“Figurati che dice che i due casi
sono collegati e complementari.”
“Cioè i morti ammazzati e gli usurai?”
“Sì, secondo me ha visto troppi
film alla tv!”
“Scusa, ma non potrebbe essere?”
“Nooo, non dimentichiamoci che
siamo nel nord della Toscana. No-no, troppo drammatico, troppo simbolico,
allora che interesse potrebbero avere questi che vogliono ad ogni costo
attirare l’attenzione su di sé?”
“Infatti, non ha molto senso.”
“No, no. Gli ho dato le ferie a
Piccinini, così si leva dai coglioni. Con rispetto parlando, è chiaro.
E al di là di personaggi e
ambientazioni più o meno sviluppate, il classico giallo si snoda
attorno alla soluzione di un unico caso. C’è un investigatore, un colpevole, un
cadavere e una serie di indizi disseminati lungo le pagine al scopo di
invogliare il lettore a formulare una sua idea in linea con quanto letto.
L’obbiettivo è risolvere l’enigma e dunque smascherare il colpevole. Nel thriller,
invece, è tutto diverso: la trama può riguardare molteplici aspetti (anche a
causa del miscuglio dei sottogeneri), dall’omicidio di una persona al rapimento
di un bambino, da un traffico illegale di droga alla storia di un serial killer
che commette efferati delitti, dalla volontà di fermare una potente arma
batteriologica e così via. Si parla dunque, generalizzando, di crime
story. L’enigma non è più al centro dell’attenzione, ma ci si concentra
anche e spesso sulla psicologia dei personaggi, e l’autore cerca a volte di
instillare una morale.
Il personaggio che viene curato
maggiormente nel giallo è il detective: intelligente, sveglio, pieno di
intuizioni. Gli altri personaggi sono descritti in modo più sbrigativo. A
farne dei tipi veramente simpatici di provano tutti, ma pochi ci riescono.”
“E come mai?”
“Perché i simpatici nella vita
sono pochi, magari e non tutti poi pensano che la simpatia sia una roba che
segue un canone prestabilito, no?”
“Forse, tu per esempio non sei
simpatico per niente…”
“Ti sbagli. Se a volte sono
antipatico è per via del mio mestiere, si perde spesso la pazienza e bisogna
fingere di no, capirai. Comunque nel thriller, dato che il copione è spesso più
complesso, si tende a raccontare piano piano la storia di ogni personaggio
coinvolto. A volte ci sono flashback che impreziosiscono la storia, e gli
attori coinvolti tendono a essere comunque persone molto simili a noi.”
“Guarda che noi siamo tutti
diversi, non ce ne sono due uguali.”
“Sì. Vabbè, tu mi hai capito, cosa
volevo dire, no?”
“Forse.”
“Insomma vedi che nel
giallo l’indagine è al centro, quindi meticolosa, curata nei minimi
dettagli. Il lettore sarà sempre un passo indietro al detective (basti pensare
al classico Sherlock Holmes); anzi, se mai il lettore smaschererà in anticipo
il colpevole, allora sarà proprio un giallo da quattro soldi. Nel
thriller invece l’attenzione non è rivolta al caso, che fa da contorno: il
lettore viene proiettato in una spirale di azione che genera stress e in un
certo senso spavento (infatti thriller deriva dal verbo to thrill, rabbrividire).”
“Come persona saresti anche
abbastanza colto, ma fai cascare tutto dal cielo, dovresti essere più umile,
secondo me,”
“Te invece non ho ancora capito
come sei, ti nascondi, fai la preziosa, ma non ho ancora visto che poche foto.”
“Se è per quello sono una bella
donna, ma non sono per niente stupida, se era quello che cercavi…”
“No, che c’entra, anzi. Si sente
che su di te rimbalzano le saette, non ti fai mettere i piedi in testa di
sicuro, però… da investigatore mi pare che ci siano tanti punti oscuri.”
“Per forza, se ti raccontassi tutto che gusto ci sarebbe? Non volete anche un po’ di mistero, voi uomini complicati e innamorati della mamma?”
“Ma te come fai a saperlo di me e mia madre?”
“Mammoni! Siete quasi tutti
così. E poi ho anch’io le mie fonti di informazioni riservate, non t’illudere.”
“Questa è bella! Sto vivendo un giallo con te, un noir
e un thriller, messi insieme e mischiati, il giorno che ti incontrerò forse
capirò, ma ora mi lasci sempre con un po’ di amaro e un po’ di dolce.”
“Nooo, quello è solo il bastone e la carota, non sei un
seguace di Mussolini te?”
“Ecco, da dove lo hai tirato fuori?”
“Allora: non mi sottovalutare e con me ti troverai
bene.”
“Guarda che anch’io ho i miei hackers.”
“Ah, bravo, e che sarebbero?”
“Figurati se non lo sai. Non è che niente-niente lavori
per il contro-spionaggio del KGB?”
“Non esageriamo. Do’ solo un colpo al cerchio e uno
alla botte, in maniera del tutto campagnola…”
“Vabbè, torniamo a noi: per quanto riguarda il
finale, nel giallo molto spesso è lieto: il detective scopre il colpevole, si
danno una serie di spiegazioni sul movente e sul modus operandi, e tutto
finisce bene. Nel thriller la cosa è più complessa: spesso c’è un
capovolgimento dei punti di vista, dove il buono diventa cattivo o il cattivo
diventa buono.
Per concludere, è veramente ampia la differenza tra
giallo, noir e thriller. Credo che molti scrittori così come i lettori
dovrebbero approfondire il tema e smetterla di parlare di thriller solo
perché fa tendenza, quando magari si riferiscono a un canonico giallo
poliziesco.”
“Vabbè, se lo dici te...”
“Non sono io che lo dico.”
“Vabbè, la letteratura del ramo, ma il tuo caso sarebbe
un giallo classico, secondo te?”
“Te lo dirò quando lo avremo risolto. Ma attualmente io
credo di sì.”
“E invece Piccinini dice che è un thriller?”
“Infatti, forse perché ha vissuto in Brasile, là c’è
una realtà diversa…”
“Diversa come?”
“Ma che ne so? Diversa e basta.”
“Ma come sei scontroso…”
“No, è che mi sembri troppo curiosa.”
“Voglio semplicemente sincerarmi di che tipo di uomo
sei, per eventualmente incontrarci, un giorno.”
“Non vorrei dare troppa importanza all’età, ma mi pare
che non abbiamo troppo tempo da perdere, e poi io parlo e parlo e te non mi dici
niente di te.”
“Parli e parli ma di cose che con te hanno a che fare direttamente
poco o niente. Lo sai che noi vedove siamo diffidenti, già le donne in generale
lo sono, e quando si tratta di uomini, beh… ancora di più.”
“Sì, lo so, è un classico, cattive esperienze
eccetera-eccetera...”
“Appunto, se ti comporti da persona per bene io mi fido,
vedi che io mi accorgo se fingi, che cosa credi?”
XVIII) IL
BENEFICIARIO (18)
«È
ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un
intelligente che non sia un cretino. [...] e dunque una certa malinconia, un
certo rimpianto, tutte le volte ci assalgono che ci imbattiamo in cretini
adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genuini, integrali.
Come il pane di casa. Come l'olio e il vino dei contadini».
Leonardo
Sciascia, “Nero su nero”
“Sapere che un pazzo ha architettato tutto questo non
mi aiuta, cioè non ci aiuta.” Ha detto Severino.
“Secondo Mauro questo è un tipo di pazzo poco comune,
nel senso che pare anche uno assai intelligente, piuttosto capace, forse anche
simpatico.” Ha spiegato Giangio.
“E allora? Diciamo che io cerco di trovare un nesso più
strumentale e immediato, non tanto le ragioni lontane dell’omicidio in serie,
in fondo chi se ne frega se è un tipo intelligente e simpatico?”
“Secondo Mauro trovando le ragioni si trova anche il
movente e il colpevole viene subito dopo.”
“Nooo. Ci si mette un secolo. Per esempio considerare
che le banche fanno fare una assicurazione sulla vita a chi prende un prestito
ingente.”
“Sì, ne abbiamo parlato, ma allora che ne deduci?”
“Se questi hanno un filo diretto con le assicurazioni,
fanno fare una polizza sulla vita a chi chiede loro un prestito ingente, poi se
non gli restituiscono il montante più interessi gonfiati, si prendono i soldi
ammazzandolo.”
“E allora?”
“Leggi qua, tante banche fanno così, è diventata una
routine.”
Il sito della banca Tal dei Tali è complicato, ma alla
fine c’è questa parte dell’assicurazione Caio e Sempronio, ancora peggio.
…scegliere
il beneficiario di un’assicurazione sulla vita
Al momento della stipula di una
polizza vita, il contraente è tenuto a designare il beneficiario, ovvero
la persona che riceverà dalla compagnia assicurativa la somma pattuita,
nell’eventualità che si verifichi la circostanza indicata nel contratto.
Secondo l’articolo 1920 del Codice
Civile, è possibile sottoscrivere un’assicurazione sulla vita a favore di un
terzo, ovvero un soggetto beneficiario della polizza che non corrisponde alla
persona assicurata.
Indicando una terza
persona come beneficiaria dell’assicurazione, per legge la polizza
vita non rientrerà nell’asse ereditario. Di conseguenza, solo il beneficiario
acquisisce il diritto di ricevere da parte della compagnia il capitale, che non
può essere riformulato in quote e destinato agli eredi dell’assicurato.
Inoltre, non facendo parte
dell’asse ereditario, la somma assicurata non è assoggettata alle imposte
di successione.
Chi
può essere nominato come beneficiario
Il contraente può specificare
la figura del beneficiario di una polizza al momento della stipula del
contratto, oppure in una fase successiva, inviando comunicazione della sua
scelta in forma scritta alla compagnia assicuratrice, oppure indicando la
nomina all’interno del testamento.
“Questi usano un linguaggio che io non esito a
definire… anzi a dire la verità non so nemmeno definirlo.” Ha detto Severino.
“Allora non lo definiamo che facciamo prima.” Ha
sorriso e dichiarato Giangio.
Per ottenere un’identificazione precisa, è importante specificare in maniera inequivocabile il nome, il cognome, il codice fiscale e l’indirizzo della persona designata. In caso contrario, la compagnia assicurativa potrebbe incontrare difficoltà nel liquidare la prestazione alla persona corretta.
Esistono anche delle formule
generiche per indicare il beneficiario:
coniuge dell'assicurato;
eredi legittimi dell'assicurato
(suddivisione in parti uguali);
figli nati e nascituri
dell'assicurato (suddivisione in parti uguali);
eredi indicati dall’assicurato nel
proprio testamento o eredi legittimi in mancanza di testamento (suddivisione in
parti uguali).
La legge permette di designare
più soggetti beneficiari di una singola polizza, caso in cui è importante
che il contraente specifichi la percentuale di capitale da attribuire ad
ognuno di loro. Nel caso di multibeneficiari senza un’indicazione precisa delle
quote personali, la suddivisione avverrà in parti uguali.
Se dovesse verificarsi, come caso
limite, la dipartita contemporanea dell’assicurato e del beneficiario, la
compagnia sarà tenuta a versare il capitale agli eredi del beneficiario e non a
quelli dell’assicurato, nell’eventualità che questi siano diversi.
È compito del contraente informare
il beneficiario della designazione a suo favore, perché sarà un compito di
quest’ultimo, in caso di evento improvviso, avvisare la compagnia per avviare
la pratica di versamento del capitale assicurato.
Cambiare
il beneficiario
Il contraente può modificare
il soggetto beneficiario della polizza? La risposta è sì, ed è possibile
cambiarlo ogni volta che lo si ritiene opportuno.
Per effettuare la modifica si
deve scrivere direttamente alla propria assicurazione, che si occuperà di
cambiare il contratto riformulando la nuova nomina.
È possibile cambiare il
beneficiario nel proprio testamento, inviando comunque la comunicazione di
avvenuta variazione alla propria compagnia.
Designare
il terzo referente
Il Regolatore italiano IVASS, nel
Regolamento 41 del 2018 (art. 11, comma 4), ha disposto che nella proposta
emessa dalla compagnia venga previsto uno spazio apposito per
l’indicazione di un referente terzo, ossia una persona che abbia la possibilità
di comunicare con il beneficiario nel caso in cui il contraente abbia esigenze
di riservatezza.
“Hai ragione te. Ci credi che leggo queste cose e mi
entrano da un orecchio e mi escono dall’altro, senza rigorosamente capire una
beneamata?” Dice Giangio.
“Non me lo dire a me! Io gli assicuratori li ammazzerei
tutti.”
“Non c’è bisogno di esagerare, anche loro devono
guadagnare il loro pezzo di pane.”
“Ma non c’è nemmeno bisogno di fregarcelo a noi, con
discorsi complicati e incomprensibili, no?”
“Forse no.”
Il terzo referente
rappresenta una figura di supporto, diversa dal beneficiario, a cui
l’impresa assicuratrice potrà far riferimento in caso di decesso
dell’assicurato per poter procedere con la liquidazione della prestazione.
La designazione del terzo
referente è facoltativa e generalmente può essere effettuata nelle stesse
modalità di quelle del beneficiario, ossia in fase di emissione o in ogni altro
successivo momento.”
XIX) AMICIZIE(19)
“Se dovessi sintetizzare direi che riesco quasi sempre a
cavalcare sia la realtà che l'immaginazione. La mia realtà ha bisogno
dell'immaginazione come una lampadina ha bisogno della presa. La mia
immaginazione ha bisogno della realtà come un cieco ha bisogno del suo bastone.
Mi piace perdere tempo, da sempre, forse questa è la mia debolezza ma è
anche la mia forza.”
Viviamo in un mondo che misura tutto in produttività,
dove il tempo deve sempre essere impiegato, ottimizzato, sfruttato. Ma cosa
succede quando ci permettiamo di perderlo? Quando lasciamo che il tempo scorra
senza doverlo riempire di obiettivi, risultati o scadenze?
Perdere tempo è un atto di ribellione. È dire no alla
frenesia, ai calendari pieni, al mito della produttività a ogni costo. È un
gesto radicale: lasciarsi andare, fare spazio al vuoto.
Perdere tempo non significa sprecarlo, ma ritrovarlo.
Significa concedersi il lusso di stare, di osservare, di respirare.
La società ci ha convinto che ogni minuto deve servire a
qualcosa, ma è una bugia. Perdere tempo è il modo più puro di ritrovarsi, la
sola parte di noi che abbiamo davvero vissuto.
[Domenico Iannacone]
Mi posso permettere di giudicare
gli altrui difetti, perché ce li ho anch'io e li conosco bene, anzi ce ne ho
pure di più.
Mauro Pelosi, per esempio, era la
persona più equilibrata: simpatico ma senza voler strafare, intelligente senza
volerlo per forza sempre dimostrare, capace un po' in tutto. Solo due difetti gli
avrei trovato: prima di tutto era innamorato di Ambrogina, e lei di lui, ma lui
in quella maniera che gli faceva più comodo, averla per eterna amica, magari
temendo che lei volesse fare sesso o che limitasse la sua sacra e inviolabile
libertà.
Doveva sentire la solitudine, chi
è che non la teme?
Per questo aveva il cane Filippo,
per gli amici Pippo, e qui il suo secondo difetto: lasciava troppo tempo al chiuso
il povero ma fedele amico, con la scusa di proteggerlo dal mondo.
Pippo era un bassotto, grasso come
un barilotto, con le corte zampette che venivano fuori quasi per scherzo da
quel cilindro con la pancia. Pelosi tutti e due, uno di nome e l'altro di fatto,
avevano una certa complicità forzata, come il marito che a suo modo ama la
moglie, ma la lascia sempre a casa e la tratta come un animale scomodo ma
necessario.
Pippo guardava le persone negli
occhi e sembrava capire le loro frasi che indirettamente racchiudevano il loro
drammi, perciò pareva sempre triste, ma bastava tirar fuori una salsiccia per farlo
diventare improvvisamente euforico.
Relegato a valle, la sera, davanti al caminetto acceso,
o alla TV a volume basso, un disco di musica classica, Severino ogni tanto si
rileggeva una lettera che Giangio gli aveva scritto anni prima, quando era
andato in pensione e si era stabilito alla Doganaccia.
Non era esattamente un intellettuale, ma aveva una
buona memoria, nonostante tutto e aveva redatto questa pratica, fatta di
teorie, per i posteri, se mai a quelli gli fosse interessato di leggerla. Con
la solitudine e la ginnastica giornaliera sulla montagna era diventato un po’
filosofo e soleva scrivere cose che forse nessuno avrebbe mai considerato, ma
gli garbava farlo lo stesso, forse per scoprirle lui per primo. Severino gli
aveva discusso alcuni punti, corretto alcune cose, ma alla fine ci aveva
riflettuto e imparato certo di più lui.
“Ci chiediamo a volte che cosa sia giusto o sbagliato,
nella nostra maniera di agire e reagire, dove stia il bene e dove il male,
nella nostra quotidianità, nei nostri atti e nelle nostre omissioni, se abbiamo
una qualche segreta missione sulla terra. Oltre il normale e logico boh (?) ci
conviene spesso pensare di trovare una linea, una serie di punti fermi, di
risposte valide a tacite ma insistenti domande.
Quello che c’interessa è solo ciò che ci porta dei vantaggi
o bisognerebbe riflettere più compiutamente sulle conseguenze?
È forse vero che il primo prossimo che dobbiamo
soddisfare siamo proprio noi stessi o è solo un detto ebraico?
Dobbiamo avere un codice di comportamento corretto,
almeno ai nostri occhi, perché in fondo è la maniera più giusta ed efficace,
infine più agile, per vivere insieme agli altri, visto che da soli non si può
stare?
La
lotta giornaliera per la sopravvivenza distrae talvolta il vivente in modo che,
concentrandosi su quella, tutto il resto, quello che gli dovrebbe dare il
motivo principale per cui vivere, gli riesce male, non ha quasi tempo per
poterlo mettere in pratica in maniera efficace. D’altro canto chi non ha
problemi di soldi spesso si infila dei bastoni nelle ruote da solo, cercando il
proprio piacere senza avere pazienza o cognizione di causa, oppure sforzandosi
troppo nella ricerca di un senso della vita, senza riuscire a farlo in modo
pratico, ma solo teorico e cercando peli nelle uova, che per esserci ci
sarebbero anche, ma non bisogna concentrarsi troppo sul metaforico dito,
piuttosto meglio sulla luna, cioè l’obbiettivo pratico e individuale del nostro
vivere di tutti i giorni, non necessariamente quello della collettività o
dell’umanità. Senza contare che chi c’ha i soldi c’ha anche troppa paura di
perderli e quasi un obbligo ad aumentarli, è quello poi che diventa l’unico
scopo della sua vita, tutto il resto passa in secondo piano. Chi non ce li ha
vorrebbe averceli e questo causa frustrazione, oltre alle altre conseguenze di
un mondo che diventa sempre più strumentale e legato all’apparenza, ai falsi
miti, che poi anche quando sono veri, se mai ne esistessero, non servono a
granché, anzi sono causa di ulteriore perdita di visione di una realtà efficace
e pratica.
Insomma come diceva Bartali: gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare. Purtroppo non si può,
allora una diagonale da tracciare su tutto questo quadro, potrebbe essere la
filosofia, per capire e agire di conseguenza. La gente non ne ha piena
coscienza, anzi nemmeno una vuota.
La filosofia non è una roba facile, perché anche
avendone trovata una valida, bisognerebbe accompagnarla con dei fatti e qui
viene veramente il difficile. Però non ogni tanto, magari nei fine-settimana, o
durante le vacanze. No, deve essere tutti i giorni, per poterlo fare ci vuole
disciplina e non è una cosa semplice essere prammatici e coerenti, in special
modo se facciamo un lavoro massacrante, per esempio, se le zanzare ci pungono
le caviglie e se i vicini mettono la musica a tutto volume.
Insomma la filosofia è uno sport che richiede cervello
e muscoli, esperienza ed estrema sincerità con noi stessi. Chi ci riesce è
bravo, vive meglio, ma non ci si può distrarre troppo, anzi nemmeno un secondo.
A volte verrebbe voglia di mandare tutto e tutti
affanculo, ma anche quello non si può, almeno sulla terra, purtroppo siamo
condannati: quello che non è proibito è obbligatorio, con gli anni le regole
aumentano, invece di diminuire, ora a rompere le scatole e forte ci si è messo
anche un virus, una pandemia, come se non bastasse il caos fisico e mentale che
c’era prima.
Per questo che la diagonale, l’alternativa calcolata, è
l’unica maniera per non venire macinati dagli ingranaggi della vita. Quelli non
hanno pietà per nessuno.
Che ognuno scopra la sua efficace ricetta, non lo so se
ho trovato la mia.”
Figuriamoci che a casa sua, a lato del caminetto ha
messo in cornice una cosa che aveva trovato in un libro che rileggeva ogni
tanto.
1) In montagna camminare lo
sguardo fisso a terra, a dove poggiare il passo. Se si vuole guardare intorno
il panorama, fermarsi. Non si sta nella zona pedonale di una città d’arte. Si
sta da passanti su sentieri che rasentano precipizi.
2) In discesa fare passi corti:
permettono di recuperare l’equilibrio in caso di scivolata. Il passo lungo
comporta la caduta. Poggiare tutta la pianta del piede anticipando l’appoggio
di tallone. La tenuta del passo sfrutta l’intera suola e aumenta l’aderenza.
Un adagio ingannevole dice che in
discesa vanno pure i sassi. Certo, ma bisogna evitare di andare come loro, i
sassi.
3) Fa bene imparare i nomi degli
alberi del bosco che si sta attraversando. Distinguerli fa percepire il luogo
con maggiore definizione. Lo stesso vale per i fiori, gli animali e i nomi
delle montagne intorno. La geografia è parola greca che significa scrittura
della terra. È bene percorrerla da lettori.
4) Non guardare quanto manca alla
cima, al rifugio o al termine della tappa. Conta il passo seguente non il
traguardo.
5) Ridurre al minimo il carico
infilato nello zaino. Protezione dalla pioggia, dal freddo, il resto è zavorra.
Una gita non è un trasloco. Informarsi sulle previsioni meteo, sapendo che si
tratta di probabilità e non di oracoli.
Alcuni di questi accorgimenti si
possono estendere al di là dell’escursione in montagna.
Erri De Luca - Accorgimenti
alpestri
Gli piacciono queste cose a Giangio, le trova
romantiche eppure tecnicamente efficaci, è facile con il suo entusiasmo, in
pratica tutto quello che io non so apprezzare, per lui è prezioso.
Forse l’uomo
è troppo intelligente, magari è stata proprio la sua eccessiva intelligenza che
lo ha fregato, qui si tratta di una donna, ma non ha importanza.
L’intelligenza umana spesso viene usata a sproposito, quella pura, quella che non
ha bisogno di risultati per affermarsi come tale. Coloro che si definiscono
assai intelligenti fanno degli sbagli catastrofici, e non nonostante la loro
intelligenza, no, contrariamente a quanto pare logico, proprio a causa della
loro stessa intelligenza.
Non avevo capito niente, pensavo
che mio cugino e sua moglie facessero dei fuffigni (espressione toscana), ma di
queste cose mostruose non mi sfiorava nemmeno il pensiero. Lei ha ragione, sono
un ingenuo, ma appena mi sono accorto dei misfatti li ho denunciati.
Questi ultimi capitoli insomma li ho
dovuti scrivere io, Maurizio Catelli, da Nara chiamato Catello, forse per
motivi di scarsa considerazione.
Nara
e Ginulfo improvvisamente non c’erano più e la storia aveva avuto un
cambiamento significativo, ma rimaneva un mistero, almeno dalla parte di chi
voleva sapere la verità.
Anch’io sono un pensionato, vivo a Reggio Emilia, per Nara lavoravo ogni tanto, mi faceva fare, ( pagate non in denaro, ma con un pratico scambio di favori, piuttosto sul mafioso) piccole e - forse - innocenti commissioni. Specialmente se erano cose da fare lontano da casa sua. Qualche spionaggio con registrazioni e foto di Giangio, eventuali personaggi limitrofi.
Ero un ingranaggio tra i tanti, che però non aveva idea della macchina di cui faceva parte. Sapevo che quella sua impresa avrebbe
dovuto sembrare un’import-export, e per essere tale faceva anche dei movimenti
di cellulosa dal Brasile principalmente, merce che andava poi alle cartiere lucchesi,
tra cui la Principessa, sempre di Nara Rana e di altri tre soci, tra cui suo
marito Ginulfo, mio cugino.
Qualche sospetto in più mi era venuto dopo la registrazione della cena da Bollo. Ginulfo mi ha detto di non preoccuparmi, ma da come me lo ha detto mi sono preoccupato di più.
La nostra storia è precipitata due
settimane fa, di martedì. Le versioni del fatto in sé sono molteplici, ma
l’assenza di testimoni fa credere che sia avvenuto così: l’ex capitano Severino
De Nittis è entrato da solo alla Cartaebasta e senza avere precise intenzioni,
forse ha minacciato il La Porta, magari gli ha detto che sapeva tutto e che lo
avrebbe incastrato.
Gli ha dato qualche assaggio di
verità per fargli capire che era ormai questione di tempo, l’arma è comparsa
nella mano del bandito forse solo per intimargli di andarsene, un fatto è che
Severino era disarmato e che lo era sempre stato anche quando era in servizio.
C’è stata una colluttazione e il
colpo è partito, proprio in faccia a Geraldinho. La testa è esplosa come un
melone maturo.
Trattavasi di una Colt calibro 45
a canna lunga. Peace-maker, come viene assurdamente chiamata. Il piombo inciso a croce, che puoi ammazzarci un
rinoceronte, se spari a una persona da cinque passi gli fai una ferita di 25 cm
di diametro e lo butti a una decina di metri più in là.
Severino è morto d’infarto, nel
giro di venti minuti circa. Era già arrivato qualcuno degli uffici vicini, lui
era pieno di sangue in faccia e sul torace, non hanno capito cosa gli stava
succedendo, cercavano di tamponargli ferite che non aveva, se non internamente.
È un fatto paradossale che la
professione del poliziotto richiederebbe grande intelligenza e qualità
psichiche, fisiche e morali eccezionali, purtroppo non ha nulla che possa
attirare persone con queste stesse caratteristiche.
I topi non avevano ancora nipoti,
ma Severino ne aveva alcuni, figli dei figli emigrati in Belgio, bambini che da
lontano sono stati informati del suo coraggio, forse anche della sua insensata
quanto determinata testardaggine, della sua sempre più anacronistica idea
dell’onestà. Però erano confusi, non sapevano se vergognarsi o esserne
orgogliosi.
Giangio ha pianto, forse si è
anche arrabbiato con sé stesso, avrebbe magari potuto impedire a Severino di
andare là a fare quella morte che invece ha fatto. Insomma quando succede
qualcosa del genere i più innocenti si sentono colpevoli e i veri colpevoli si
sentono innocenti.
Si era
cominciato a parlare di serial killer perché almeno quattro imprenditori
falliti, uccisi nel raggio di pochi chilometri, erano provenienti da due regioni
differenti, a cavallo degli Appennini, Toscana ed Emilia Romagna e due province
confinanti, Modena e Pistoia, la
comunicazione tra i capi territorio non teneva conto di un fattore del genere.
I vari esecutori erano andati dietro alle vittime, ma erano di gruppi
differenti.
Un serial killer colpisce una
determinata categoria, qualcuno che fa parte di un folle disegno, spesso dalla
logica complessa e distorta, ma alla fine, col senno di poi, comprensibile. Tecnicamente
però qui non si tratta di un serial killer, non si capisce se è una cosa ancora
più assurda o no.
La morte dei quattro, che ancora
dovrà essere catalogata insieme a tante altre di diverse regioni italiane,
rimasta misteriosa per un po’ di tempo, aveva a che fare con le polizze
assicurative che non pagano morti assassinati.
Quando ho saputo che per tutti loro la causa dei decessi era
infarto, che con i semi di grano cozzava un po’, anche a livello di una
logica elementare, allora mi sono documentato e penso di aver capito. Anche Marchigno dice che potrebbe essere.
Si tratta di un’arma di alluminio
con silenziatore azionata da una pila da 1,5 volt. Spara proiettili formati da
piccole fiale contenenti un veleno a base di cianuro che, dopo 5 minuti, non
lascia alcuna traccia nell’organismo umano. È formata da tre cilindri, l’uno
dentro l’altro. Il primo cilindro contiene una molla e un pistone. La molla
mossa da una leva spinge il pistone nel secondo cilindro. A quel momento la
fialetta contenente il liquido si spezza e il veleno viene spruzzato verso il
volto del nemico. La morte sopravviene in pochi istanti. Sostanza letale a
effetto rapido e sicuro usato da agenti dei servizi segreti militari per
assassinare i nemici. Quando il medico effettua l’autopsia constata l’arresto
cardiaco e diagnostica una crisi cardiaca.
XXI) ULTIMO
Troppo spesso le persone hanno una sicurezza patetica, con cui quindi non
fanno altro che sciocchezze. È meglio essere insicuri, perché così si diventa
più modesti e più umili.
Indubbiamente il complesso di inferiorità comporta sempre il rischio di
diventare eccessivo e di compensare il presunto difetto con una fuga nel suo
contrario.
Un complesso di inferiorità ha sempre la sua ragione; c’è sempre realmente
qualcosa di “inferiore”, ma non là dove ci si mette in testa che sia.
Modestia e umiltà non implicano alcun complesso di inferiorità. Sono virtù
preziose, anzi ammirevoli, e non dei complessi. Esse dimostrano che il loro
possessore non è un pazzo presuntuoso, ma conosce i propri limiti e non si
avventurerà mai alla cieca oltre i confini della sua natura abbagliato ed ebbro
della sua presunta grandezza.
Le persone che si credono sicure sono quelle veramente insicure.
La nostra vita è insicura, e perciò un certo senso di insicurezza
corrisponde al vero molto più dell’illusione e del bluff della sicurezza.
Nel lungo periodo vince chi ha raggiunto il migliore adattamento, e non
colui che presume di essere sicuro di sé e si espone a ogni sorta di pericolo,
interno ed esterno.
Non ci si misura solo col denaro o col potere!
La pace dell’anima conta di più»
Da «Un colloquio con C. G. Jung sulla psicologia del profondo e la
conoscenza di sé»
«È ormai difficile incontrare un cretino che non sia
intelligente e un intelligente che non sia un cretino. [...] e dunque una certa
malinconia, un certo rimpianto, tutte le volte ci assalgono che ci imbattiamo
in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genuini,
integrali. Come il pane di casa. Come l'olio e il vino dei contadini».
Leonardo Sciascia, “Nero su nero”
Bice è andata a vivere con la
sorella. Suo malgrado Lia aveva capito tutto. Pur non intendendo esattamente
cosa, in pratica ha fatto il collegamento principale tra fatti e contro-fatti.
Lia magari da grande sarebbe
diventata una poliziotta, ma non lo sapeva ancora, prima ancora una hacker
intera, forse anche una e mezzo, la polizia aveva estremo bisogno di questa
gente.
Tanto
per cominciare i computer dei genitori di Lia venivano regolarmente monitorati
e quando erano da soli li spiava anche per sentire se parlavano di cose losche.
I genitori non c’entravano e
questa era la cosa più importante, ma erano a conoscenza di particolari che
forse avrebbero potuto denunciare, ma non avevano prove, solo cose sentite
dire.
Quella bambina era un fulmine a ciel sereno, un’indagine parallela alle due già esistenti la aveva portata avanti Lia, che avendo in casa i suoi genitori trafficoni internettivi (o internettuali) aveva un potenziale vantaggio su tutti. Un esempio per me, che invece credevo di credere, invece no.
Se non fosse stato per Lia, forse Nara
se la sarebbe scampata, ma la bambina che aveva sorpreso più volte i genitori a
parlare, direttamente o indirettamente, di lei e dopo averla vista nelle foto
del nonnetto Giangio, l’aveva notata aggirarsi intorno alla casa di lui e ai
due luoghi dei delitti alla Doganaccia.
I genitori le hanno detto che si
era sbagliata, che non poteva essere lei, ma Lia invece era convinta e
determinata, è andata a dirlo a Giangio. Il quale poi ne ha parlato a Severino.
Il Piccinini ha contattato il De Santi, il quale aveva trovato piuttosto strano
che una tale Vedova Bianca su Facebook si fosse dimostrata oltremodo curiosa
delle sue indagini sullo strozzino brasiliano, dei morti ammazzati in maniera
misteriosa e non avesse mai accettato di incontrarlo.
Insomma alla fine hanno avuto il
sospirato mandato di perquisizione, sembra impossibile ma succede spesso che
proprio i dirigenti a volte tardano a capire le cose, quando tutti gli altri le
sospettano da tempo. In casa comunque non hanno trovato niente, la cassaforte
era stata svuotata dei gioielli e di altre cose preziose, documenti eccetera.
De Santi era contento, la sua Vedova Bianca non c’entrava niente!
Qui sono entrato io: i documenti
decisivi erano nel computer di Nara? Ci
voleva un robusto hacker, diciamo pure cazzuto.
Ricollegando le due parti, recuperate da Tore
attraverso l’e-mail di Nara, ma soprattutto attraverso quello di Ginulfo, che io
conoscevo, oltre al memoriale da lei scritto, che separatamente parlava dello
spionaggio di Giangio ben diviso dalla sua ramificata storia di malvivente, che
però risultavano legate con doppio filo invisibile da quella nostra indagine
parallela e quella di Lia, che poi si è rivelata determinante.
C’erano i numeri degli incassi e i
particolari di tutto il complicato marchingegno, schemi e grafici inclusi.
Nara Rana però era scomparsa, non
è stata più ritrovata e neanche il marito Ginulfo.
Una
psicopatica in genere vede il suo lavoro solo come mezzo per arrivare a
risultati in denaro e/o potere. Invece Nara amava in qualche modo distorto e
abnorme il suo lavoro, tanto che lo proteggeva anche da sé stessa, eliminando
ogni notizia che venisse da fuori e che potesse danneggiarlo o solo
influenzarlo. Non erano solo i soldi che le interessavano.
Apparentemente
era una normale - se solo la normalità esistesse - intelligente e tutto, arguta
e affabile, forse un po’ troppo solitaria, ma quello non è un crimine.
Recitava a
memoria, meravigliosamente bene e senza ridere, le battute dette dagli altri,
ma non era tanto per divertirsi, le usava piuttosto per far credere che lei
fosse quello che voleva che gli altri pensassero.
Magari il
fatto che avesse un codice di comportamento assai logico e pieno di buonsenso, nei
limiti del possibile, le aveva permesso di agire indisturbata per anni. Le
direttive non erano mai scritte, né i documenti più scabrosi, tutto per
cellulare o personalmente. Il cellulare non è stato mai ritrovato, ma doveva
essere intestato a qualcun altro, insomma di inghippi lì se ne possono fare
diversi.
Nara diceva
sempre che la realtà non aveva temperatura, quando qualcuno la accusava di
interpretarla con una certa freddezza.
Alla fine si è scoperto che quella
di Chiesina era solo una succursale, che ce ne erano dodici in tutta Italia e
forse anche all’estero, ma è ancora da dimostrarsi. Nel sud non c’era niente
perché la mafia non glielo avrebbe permesso e lei lo sapeva. Non si sa ancora
quale fosse la centrale, ma probabilmente era a casa di Nara stessa.
La facciata della Cartaebasta non
era solo una facciata, si è constatato, importavano veramente e cose di vario
tipo. Erano principalmente import ed export di cellulosa, che poi vendevano
alle cartiere lucchesi, compravano e distribuivano prodotti alimentari scaduti
o vicini alla scadenza, poi contraffatte le date e venduti ai supermercati. In
seguito alcune ditte sospette e legate a loro all’estero sono risultate
fantasma, solo per distribuire clandestinamente funzioni, direttive e materiale
senza essere direttamente scoperti.
I capi filiale erano stati tutti
scelti personalmente da lei, diversi erano brasiliani, più altri sudamericani,
qualche polacco e russo, un albanese. Tutti uomini.
A capo di tutto c’erano Nara Rana
e il suo non marito Ginulfo Biancucci, che da solo era un uomo innocuo, ma di scarsa
morale, facilmente manipolabile. La mente era solo lei, lui era un parziale
braccio e nemmeno tanto buono, a quanto pare. Un burattino specializzato,
scelto per fare quello che voleva lei, uno che teneva l’ordinaria
amministrazione, la contabilità e i collegamenti con i vari capi agenzia, ma
non si prendeva mai un’iniziativa. Ogni filiale aveva un capo che guadagnava
anche assai, ma in base alla produzione. La storia dei morti Ginulfo la sapeva,
non poteva ignorarla, eppure la negava anche a sé stesso.
Fisicamente Nara non aveva paura di niente, solo l’irragionevole paura di aver paura l’angosciava e la faceva soffrire tutti i giorni, il non riuscire a controllare tutto quello che le succedeva attorno.
Nella vita il sapersi adattare
alle situazioni è una delle virtù più importanti, ma c’è gente che non ne è
capace. Giangio sapeva fare buon viso a cattivo gioco e quel gioco, piano-piano
diventava buono veramente.
Nara ad alcune cose si adattava
anche troppo bene, ma non le possedeva, perché saltava delle fasi essenziali, a
cominciare dai sentimenti. Forse il suo difetto maggiore era che affezionarsi non
le sembrava importante, le interessava solo perché piaceva agli altri, e sapeva
fingere bene, ma non tanto da crederci.
Aveva trovato un nuovo compagno
che la assecondava in tutto e lei non amava essere contraddetta, faticava
troppo a seguire e a sfruttare i desideri altrui.
Perché di propri non ne aveva.
La colpa era della sua educazione,
probabilmente, Nara era assai intelligente, ma incapace di usare positivamente
la sua capacità. La sua aggressività era sfociata in una ricerca di denaro e
potere, a tutti i costi, pur avendone già abbastanza per vivere negli agi,
insomma, indirettamente anche ammazzando la gente, perché no? Alla fine la
gente era importante in senso generale, ma consistere in quattro individui in
meno, o anche cento, per lei non faceva alcuna differenza.
Che cosa era
successo a Nara Rana, per diventare quella che era? Non poteva essere troppo
differente da quello che era accaduto a tanti altri, che però avevano sfogato
le loro magagne in modo diverso.
Alla luce di
quello che è venuto fuori, certo si poteva dire che Nara fosse una psicopatica,
ma di un tipo abbastanza complesso, perché non era una che inseguiva solo il
traguardo, ma si godeva, in una certa qual maniera, un po’ anche il percorso,
quasi senza accorgersene, il suo cammino verso il successo, la sua vittoria
senza pietà per i vinti.
Nara scriveva quello che pensava e
diceva cose che nella vita non avrebbe avuto mai occasione di dire, specie al
suo ex marito o a proposito di lui.
Di lei hanno fatto una diagnosi
mista, a distanza, con l’aiuto dei suoi tanti o troppi terapeuti, nel senso che
le sue malattie mentali erano varie e incrociate. Io lo so che alla fine nessuno
è normale, ma ci sono vari livelli e classificazioni. Spesso anche tirando un
po’ a indovinare, a cercare di spiegare con la logica cose che a livello di
scienza sono poco dimostrabili, o per niente.
Bice ha finalmente ricollegato il
suo crescente interesse per le notizie su Giangio. Quando ha saputo dei fatti
si è sentita in colpa per aver rivelato tante cose a Nara, indirettamente le è
sembrato di aver contribuito alla morte di suo marito.
Un’ingenuità, certo, ma forse non
determinante. Certo appare che attraverso Bice lei abbia capito per tempo che
era meglio scappare, ma anche con quello che Ilio De Santi, non volendo, le
aveva confidato.
Ho discusso con Giangio e gli
altri del perché lei avesse occultato, anche attraverso un codice, quelle cose
che poteva facilmente portare con sé, oppure distruggerle. Ne ha avuto certo
l’occasione e il tempo necessari.
“Dentro di sé una logica ce
l’aveva di sicuro… io non ce l’ho mai fatta a capirla, Nara, a volte sembrava
che volesse complicare le cose di proposito, forse solo per nascondere la
verità.” Ha detto Giangio triste e pensieroso.
“Forse voleva che tutti la
considerassero intelligente, ha sempre avuto questa fissazione, di credere
allocchi tutti gli altri e di dover dimostrare che lei invece no… lei era
diversa, lei era l’unica veramente intelligente. Farci tutti fessi e poi
andarsene tranquillamente via.” Ha detto Mauro.
Mi sono immaginato una spiaggia
brasiliana e lei lì a rimuginare, forse pensando a una feroce vendetta, a bocce
ferme, magari bevendosi un cocktail insieme a Ginulfo, addormentatosi nel
frattempo sulla sdraio sotto l’ombrellone, con il cappello sugli occhi e una
camicia hawaiana sgargiante.
Per lei la vita era come giocare a
flipper, alla fine ha spinto troppo e ha fatto tilt, ma non si sentiva per
niente sconfitta.
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