Monday, December 9, 2024

I TOPI NON AVEVANO NIPOTI

 




INTRODUZIONE O CAPPELLO (0)

 

Un famoso regista italiano, che tra l'altro ha vinto anche un oscar, una volta tanto veramente meritato, dichiara in tutta serietà che la trama in un film, come in un romanzo, non abbia invero alcuna importanza.

Siamo d'accordo e ci fa comodo, tale raziocinio, anche perché questo manoscritto un po' enigmatico, che abbiamo qui alla meglio intepretato e ordinato, si basa su una sequenza temporale volutamente invertita, non si sa bene perché. Probabilmente i capitoli sono stati mischiati e confusi di proposito dall'autore, che poi sarebbe un’autrice, quella originale, diciamo che sono almeno due sovrapposti, insomma.

Si comincerebbe con l'ultimo capitolo, il primo probabilmente lo ha messo in mezzo, perché se lo avesse piazzato per ultimo sarebbe già stata una specie di facile indizio per svelare il suo misterioso metodo, se poi veramente ce ne fosse uno.

Stiamo tentando di mettere in fila una - secondo noi - meno improbabile serie di porzioni temporali, dichiareremo il numero originale tra parentesi, sperando che risulti più pratico. Naturalmente non siamo sicuri della giusta sequenza degli avvenimenti, ci si perdoni l’eventuale errore, che crediamo non sia determinante alla chiarezza e comprensione dell’accaduto.

Se si confrontano gli essenziali fatti, resi noti dai giornali di quegli anni, dall’attualità non troppo lontani nel tempo, si può constatare che sono cose veramente accadute.

 Una storia vera interpretata soprattutto da pensionati, ma anche da una bambina sveglia, che ha cercato di svegliare anche gli altri, cioè noi, i vecchietti che aveva attorno.

 

 

PENSIONATI

 

 

Ci insegnano a prestare attenzione, ma non ci dicono che poi non ce la restituiranno mai, perché non c'è nessun risarcimento di nessun tipo, diciamocelo allora dovrebbero piuttosto dire di regalare la nostra attenzione, se non proprio di buttarla via, perché quelli non se ne accorgono proprio, se a noi interessa o meno, continuano a parlare e a parlare, se ce ne andiamo non se ne accorgono neppure.

Noi pensionati presto in Italia saremo la maggioranza, questo è un dato spaventoso, non solo a livello economico.


 Dal sito Facebook Tenente Ubaldo

 

REGGIO (EMILIA), CITTÀ DEI PENSIONATI

 

A Reggio, come in Italia, gli over 65 sono il 23% sul totale, ma entro 2050 potrebbero essere il 35%.

Tra 25 anni dunque un reggiano su tre sarà pensionato con una aspettativa di vita media di altri 19 anni.

Se escludiamo i minori di 25 anni (impegnati ad acquisire esperienza per iniziare una vita adulta), che sono il 23% della popolazione, la popolazione attiva nel 2050 sarà circa il 42%. La minoranza.

Sulle loro spalle non solo graverà la costruzione del futuro di tutta la comunità, ma soprattutto il presente. La parola chiave è ‘cura’.

Prendersi cura della crescita spirituale, educativa e materiale dei più giovani e della crescente fragilità degli anziani sarà la missione prioritaria di chi resta a vivere nel nostro paese. Dico questo perché, sopratutto tra i giovani, che in massa disertano la poltica ritenendola irrilevante per il proprio destino, prende sempre più quota la convinzione di poter aver un futuro migliore in altri parti del pianeta. E i fatti, per ora, danno ragione a loro.

Per affrontare il futuro demografico, che vede una crescente presenza di anziani e un numero sempre più ridotto di giovani attivi, Reggio dovrebbe concentrare gli investimenti su tre principali aree: assistenza alla popolazione anziana, opportunità per i giovani, e attrazione di nuove famiglie e talenti.

Ecco come potrebbero declinarsi questi investimenti:

1. Infrastrutture e servizi per l’assistenza

Con un terzo della popolazione costituito da anziani entro il 2050, sarà essenziale potenziare l'assistenza sanitaria e i servizi di supporto per la popolazione over 65. Creare e potenziare infrastrutture di qualità per l’assistenza sanitaria domiciliare, ampliare le residenze per anziani e sostenere iniziative di assistenza di comunità potrebbe ridurre la pressione sulle famiglie e migliorare la qualità di vita degli anziani.

2. Sostegno all’istruzione e formazione per giovani

Data la necessità di una forza lavoro attiva e qualificata, investire in programmi formativi avanzati, collaborazioni con le università e centri di ricerca può incentivare i giovani a restare.

Inoltre, agevolazioni per l’accesso alla casa e opportunità di lavoro flessibili potrebbero rendere la città più attrattiva per le giovani famiglie.

3. Politiche di attrazione e integrazione

Favorire l’insediamento di nuove famiglie e lavoratori internazionali può contribuire a ringiovanire la popolazione e compensare le uscite. Investimenti in politiche per la qualità della vita, come una *mobilità sostenibile, spazi verdi e una vivace offerta culturale,* potrebbero rendere la città una meta interessante per chi cerca una vita di qualità lontano dalle metropoli più congestionate.

Per costruire un futuro sostenibile, è cruciale che Reggio inizi subito a pianificare e investire in una strategia che coinvolga attivamente tutta la comunità, affinché le prossime generazioni possano prosperare e la città possa conservare vitalità economica e sociale.

Vedo solo un problema. La politica locale, presa dall’ansia di conquistare da subito lo straccio di consenso che serve per soddisfare piccoli progetti di auto realizzazione e inconfessabili ambizioni personali, saprà nei prossimi cinque anni amministrare e accompagnare i processi sociali e politici per costruire condizioni migliori di qualità della vita nella città del 2050?

(Ovviamente abbiamo parlato di Reggio, ma parliamo anche di Italia)

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I) GIANGIO E SEVERINO (16)

 

 Figuriamoci che Nara Rana era stata moglie di Giangio, anzi tecnicamente erano ancora sposati, ma non si parlavano da anni, nemmeno per telefono.

In più lei spiava suo marito da lontano, da vicino o anche da intermedie distanze, approfittando del fatto che lui ci vedeva poco ed era sempre stato piuttosto distratto.

Di mettere per scritto tutto quello che pensava glielo aveva consigliato tale Pierami, uno psicoterapeuta di Firenze. Per questo c’erano anche paginate di discorsi concentrici e a spirale, da diventarci matti, che qui non includerei, giacché troppo estesi e dispersivi.

Nara insomma non riusciva a star dietro a tutto quello che le passava per la testa, scriveva e riscriveva, si ripeteva e si confondeva, ma non gliene fregava niente. C’è da dire che era anche una persona molto attiva e le cose le metteva in pratica, forse più di quelle che pensava, o forse no: in egual ma fluttuante misura, un ruscello che scendeva giù inesauribile, non finiva mai e poi mai.

Capire dunque la realtà e dividerla dalle proiezioni diventa talvolta difficile, noi non ci proviamo neanche, perché lei confondeva e mischiava le due materie, come capita ad alcuni. Ecco quello che scriveva, noi abbiamo separato le pagine che ci interessano, per il nostro argomento fondamentale, che sarebbero poi i fatti realmente accaduti.

 

Stamattina ho fatto il pesce in umido. Una bella cernia. Era anche buona, rigorosamente senza pomodoro. Vabbè una puntina, solo per dargli un colorito arancione.

Giangio non sopporta l’odore del pesce in casa, quindi ho tentato prima di cucinarlo in garage. Ma in garage nemmeno gli piaceva di sentirne in seguito l’aggressivo aroma. Quindi ora metto una specie di barbecue scalcagnato in giardino e lo cucino sul carbone, naturalmente solo quando non piove, in un certo senso è divertente, forse anche un po’ più laborioso. Lo stesso faccio con un vecchio fornello a gas sull’asfalto di fronte al garage, come oggi.

Ovviamente deve essere pesce di mare, quello di acqua dolce puzza di più, è meno saporito, sotto quello del fango è difficile sentire qualsiasi altra cosa.

Abbiamo discusso spesso, quanto malvolentieri, tale argomento, Giangio purtroppo è anche un pescatore, ma pesca solo in acqua dolce.

Una volta arrivava di notte tardi, o di mattina presto, mezzo ubriaco, o anche del tutto, poi veniva a letto a russare come un rimorchiatore, che per giunta è anche diesel. Ma prima mi scaricava nell’acquaio cofanate di tinche e anguille. Nel frattempo quest’ultime fuggivano e me le ritrovavo rinsecchite sotto qualche mobile, giorni dopo, guidata dal caratteristico olezzo.

Dicono che sono malata, e non solo di gelosia, per un uomo che ho lasciato io, dopo venti anni insieme, eppure sono ancora innamorata di lui, forse un po’. Siamo vecchietti ormai, ma lui continua a essere un grande rompicoglioni.

Alcune sue caratteristiche peculiari sono innate, altre acquisite nel tempo. Direi che è eternamente giovane nella maniera di vivere. Non so proprio come faccia. Vorrei tanto essere come lui, se lo fossi stata anch’io la mia vita sarebbe diversa, assai diversa da come è attualmente, forse staremmo ancora insieme.

Lo seguo, lo controllo, ma lui non lo sa. Almeno spero. Segretamente sono ancora amica della moglie del suo migliore amico. Fino a pochi giorni fa lei mi faceva un rapporto quasi giornaliero, ma sono anni che i due amici originali non si vedono, parlano solo per telefono o per email.

Questa storia, tra le tante, la scrivo solo per me, cerco di mantenerla separata dalle altre, ma questo plico lo conservo in cassaforte, è una maniera per tenermi impegnata, ma non voglio che nessuno lo legga. Non che io abbia poco da fare, ma ferma non ci so stare. Zitta sì, per parlare non parlo molto, però quando comincio è meglio scapparsela.

Insomma scrivo per fare anche un po’ di introspezione terapeutica. Me lo ha consigliato uno dei miei psichiatri preferiti, o quasi. I difetti li trovo sempre in tutto e in tutti, ce ne sono anche troppi.

 Ce ne ho avuti non so più quanti, di psicoterapeuti, (non parliamo di difetti,) alcuni li ho lasciati io, però questo qua mi ha lasciato lui, figlio di una zoccola. Mi ha scaricata a un totale incompetente, tra l’altro, ma uno che aveva molta pazienza con me. A volte sembrava lui il paziente e io il dottore, forse per questo che ci sono rimasta in cura tanti anni, insomma mi metteva meno soggezione, che quella lui non se la meritava proprio.

Comunque sia un bel vaffanculo a lui come a tutti gli altri, questo se lo meritano invece e di cuore, gente di un altro pianeta che pretendono di insegnare qualcosa a noi disgraziati terrestri.

Ecco qua la storia, una tra le tante, lo so che alcune si mischiano senza volerlo, ma questa è la principale.

Se qualcuno poi la leggesse magari direbbe che è incompleta, piena di buchi ed errori di sintassi, con intromissioni di altri aneddoti non invitati, favole contemporanee, metropolitane o campagnole. Le scrivo solo per me stessa però, e dopo non le leggo nemmeno. Si parte da Severino, il miglior amico di Giangio.

“L’inverno a dare retta al calendario era finito, ma la primavera non ne voleva sapere di prendere il suo posto. Non era caldo, anzi nemmeno tiepido, era piuttosto freddo e la gente se ne lamentava, anche più del loro solito di routine, che non era poco, in Italia è sempre stato uno sport diffuso e assai praticato.

Infatti a Severino di andare in giro con la mascherina non gli garbava nulla e i programmi alla televisione ancora meno, qualche libro lo leggeva, sì, ma senza quell’antica soddisfazione, che era già stata molto più consistente. Forse era anche colpa dei libri, ma era più facile che fosse il suo cervello che - non solo metaforicamente - era arrugginito, bloccato, poco collaborativo insomma.

Gli amici rimasti a tiro avevano altre cose da fare, altri abitavano lontano e alcuni erano già rincoglioniti o morti, certi anche ammazzati, pochi comunque e piuttosto lontano da lì.

Capitano di origine romana dei carabinieri di Lucca, Severino De Nittis, prima di andare in pensione pensava che sarebbe stato bello avere finalmente tutto il giorno libero per bighellonare come facevano gli altri.

Macché.

Dopo poche settimane si è sorpreso di sentire la mancanza del suo lavoro, non aveva idea di come occupare tutto quel tempo cresciuto a dismisura ed era caduto in una delle sue minacciose depressioni invernali.

Sua moglie Bice, donna pratica per virtù, è vero, ma anche per necessità, ha pensato che doveva intervenire, ma senza farsene accorgere e con Severino non era cosa facile. Una parola era poco e due già troppe, una mezza frase mal calcolata e si otteneva l’effetto contrario e a volte anche raddoppiato.

Le era venuto in mente che aveva a disposizione l’appartamento in montagna di sua sorella Dina, lei ci andava con la famiglia, praticamente solo d’estate.

Prendendola più larga che poteva, come se fosse un’idea piovuta dal cielo quasi per caso, è riuscita a convincerlo che forse lassù alla Doganaccia poteva mettersi in tasca l’odiosa mascherina e respirare aria fresca e pulita, magari andare a pescare, godere della compagnia del suo vecchio amico Giangio, che non vedeva da tempo e abitava in quel paesetto ciclicamente fantasma, più che altro sorto per le seconde case e pressoché deserto nelle epoche lontane dalle umane ferie, invernali o estive che fossero.

Il suo amico c’era andato per stare in pace, quando la Doganaccia non aveva ancora la teleferica per gli esseri umani e la strada era più buche che terra e ghiaia. Attualmente invece nei mesi di attività sciatoria e durante l’estate doveva sopportare eserciti di vacanzieri sporcaccioni e rumorosi, che forse cercavano la pace della montagna per poter urlare e alzare il volume della musica, la natura selvaggia incontaminata per poterla contaminare con rifiuti di ogni tipo.

Le buche erano rimaste tutte al loro posto, ma intorno ora c’era dell’asfalto a toppe, che quando la neve si scioglieva si mettevano anche quelle in precipitosa discesa verso la valle e il fiume Lima, che solo qualche chilometro più sotto si univa al fiume Serchio nella sua passeggiata verso il mare, alcuni dicevano a Marina di Vecchiano, altri a Migliarino, comunque già in provincia di Pisa.

Perplesso all’inizio, ma incapace di resistere alle lusinghe di un po’ di attività finalmente, e magari pure senza mascherina, in un lampo di euforia Severino ha telefonato a Giangio per sentire cosa ne pensava. Lui gli ha risposto che naturalmente ne sarebbe stato contento e che il luogo in questione, che Severino conosceva solo per sentito dire, era bell’assai.

Un’ampia fiancata delle montagne dell’Appennino, al confine tra le province di Pistoia e Modena. Figurarsi che i Longobardi avevano aperto le strade del passo dell’Arcadia, o qualcosa del genere, per attraversare l’Appennino dalla Pianura Padana alla Tuscia o come diavolo si chiamasse a quei tempi, gli ha spiegato Giangio, che di nome vero sarebbe stato Gian Giovanni Tesi, ma nessuno lo chiamava mai così, da quando era bambino.

Poi, mentre sua moglie preparava i bagagli, Severino è andato su internet per vedere le notizie sul luogo e gli sono anche garbicchiate.

Che una cosa gli potesse piacere al 100% era da escludersi, diceva sua moglie Bice, non faceva parte del suo carattere, DNA e forse ancor prima dell’RNA. In questo direi che mi somiglia abbastanza, per questo non mi digerisce.

Tali assai ramificate annotazioni lo incuriosivano, sia per via della presenza storica dei Templari nel passato, che per la vivace cronologia in generale del luogo, ma soprattutto per il curioso trasporto di bovini e ovini con la funivia in alpeggio, anche se di alpi qui non si trattava, piuttosto di Appennini. La curiosità era la parte che dentro e fuori di lui lo aveva fatto diventare poliziotto a vita, senza giammai andare in pensione.

Le notizie di Giangio erano un po’ approssimative, qualche nome storpiato, qualche piccola inesattezza storica e geografica, ma la senilità alla loro età - che poi era anche la mia - risultava normale e magari anche inevitabile.

In più Giangio di persona era arzillotto e giovialesco, non conosceva la depressione che attraverso film e serie TV, qualche libro ogni tanto, ma senza esagerare. Si manteneva piuttosto attivo con varie passioni, anche assai diverse tra di loro, come la pesca e il modellismo, varie e goliardiche amicizie, vicine e lontane.

Cioè tutto il contrario di Severino, anche per questo si trovavano bene insieme e non si annoiavano mai, perché la reciproca presenza li obbligava a tenere il cervello in funzione e il conseguente dialogo era scoppiettante. Ogni tanto funzionava anche con Skype, ma incontrarsi fisicamente era troppo meglio.

Il viaggio in macchina non è stato lungo, ma Severino al volante era sempre stato nervoso e s’è arrabbiato in più di un’occasione con gli altri automobilisti, non sempre a sproposito. Gli ha gridato anche se doveva proprio schiaffare qualcheduno dentro, che lui non ne avrebbe avuto nessuna voglia, ma se proprio ce lo obbligavano...

Per cui Bice gli ha ricordato più volte che era in pensione, che non dimenticasse poi che loro non avevano nessuna fretta, anzi avevano tutto il tempo che volevano. Ha riso, minimizzato e tentato di cambiare discorso, si preoccupava un po’, che non gli pigliasse un mezzo infarto nel transito. In special modo quando diventava rosso e urlava, agitando la mano e a volte tutto il braccione fuori dal finestrino, ma fino a quel momento il cuore aveva retto bene.

La parte peggiore della strada era l’ultima, piena di buche, di macchine e furgoncini, non solo quelli dei locali abitanti, che andavano a tutta velocità e non suonavano il clacson sulle curve.

“Sei ingrassato!” Ha detto Severino a Giangio.

“Magari! Sono dimagrito, invece. Tu, piuttosto, sei in gran forma!”

“Sì, a forma di barile, diciamo. Ho sempre fame e più magno e più me viene fame.

“Forse sei ansioso.”

“Sempre.”

“Allora non sei cambiato.”

“Mai.”

La moglie lo ha guardato seria per confermare, con il contemporaneo lento e malinconico tentennare della testa, se ce ne fosse stato bisogno, ma non ce n'era.

In seguito Severino, che dopo aver guidato diventava più teso e nervoso, ha accusato Giangio di sbagliarsi con i nomi, di conoscere poco la storia del luogo, magari lo voleva un po’ provocare per sentire cosa diceva, anche per capire se durante gli anni, con tutta quella solitudine forzata, era rincoglionito o no.

Invece il vetusto giovinotto nel frattempo si era documentato, a dire il vero alla sua età succedeva che era difficile ricordarsi anche se una cosa la si era saputa in precedenza, o se ci si incappava per la prima volta. Insomma si era imparato tante notizie sul luogo che non smetteva più di enunciare, con un tono da Gassmann che legge la lista della spesa.

La casetta di Giangio era caruccia, aveva pensato e detto Severino, rustica ma assai curata nei particolari, piccola e in mezzo al bosco di faggi, quasi nascosta, ma di traverso prendeva anche un po’ di sole, la mattina.

Mista di pietra e legno era bastevole per uno che viveva da solo, ma d’inverno se e quando non c’era neve, quindi mancava la gente in giro, secondo Severino rischiava la vita, se gli prendeva un cuccialì chi avrebbe potuto salvarlo? I cani S.Bernardo? Ce n’erano anche sugli Appennini? Non gli risultava proprio.

Giangio però ha riso e puntualizzato che alla Doganaccia c’era stato spesso il problema della neve, anni prima, sistematicamente spazzata via dai famigerati fortissimi venti della zona. Dunque avevano comprato quei cannoni appositi e ora ce ne avevano una flotta intera. Almeno sulle piste, al momento giusto, non rimanevano mai senza neve.

Severino allora ha sorriso in diagonale e replicato che se non d’inverno, magari in autunno, quando non c’erano turisti neanche nel fine settimana, la vita la rischiava lo stesso. Giangio allora ha dichiarato che di morire rischiava anche lui a starsene a valle, in mezzo allo stress della vita quotidiana attorno.

Si sono continuati a beccare per un po’, divertendosi con il senso delle parole e un po’ anche con quello della vita, se mai ne avesse avuto uno. Finché Severino è tornato da sua moglie, che dopo aver scaricato la macchina insieme, era rimasta da sola a sistemare le vettovaglie e la casa.

Un po’ più in alto rispetto alla casa di Giangio, in fondo al posteggio della funivia, l’appartamento imprestato ai due coniugi è risultato piccolo, gelido e umido. Da tempo non era stato visitato.

Nella stagione fredda, il corpulento capitano del tempo che fu, era taciturno e schivo, andava a letto alle otto e mezza, un quarto alle nove al massimo. Manco a farlo apposta, in quei giorni la primavera tardava ad arrivare a quota millequattrocento e qualcosa, era assai più freddo che a valle e c’era ancora la neve negli avvallamenti, dove batteva meno il sole e c’era riparo dal vento.

Era stato un inverno rigido e tempestoso, da anni non ne capitava uno così. Il vento che veniva sempre dall’Emilia Romagna, oltre il passo, aveva buttato giù alberi e fatto a pezzi rami piccoli, medi e grossi, che ostruivano i sentieri e avevano danneggiato varie casette nascoste nel bosco, o lungo la via dei Cacciatori, cioè quella principale, praticamente l’unica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

II) NARA E BICE (12)

 

 

Non sapeva nemmeno più perché lo faceva, ma le piaceva, insomma faceva parte della sua vita, ormai. Le sembrava di mettere ordine ai suoi pensieri e questo era l’intento a cui Pierami si era idealmente e didatticamente appoggiato.

Nara non si limitava a riferire quello che pensava, no, inventava anche i fatti, secondo noi, i dialoghi, specialmente quando parlava di suo marito, la mente le si scatenava in turbolente tempeste verbali.

È tutto scritto al computer quindi, stampato e poi ammucchiato in una delle sue casseforti, delle varie case di proprietà, senza ordine apparente, ma le pagine hanno dei numeri e delle lettere, lei probabilmente sapeva a cosa si riferissero, noi no.

 

Non so se è grave, ma come compagnia i cani e anche i gatti mi sconfinferano più degli esseri umani. Gli manca la parola e meno male, la quale può essere un vantaggio, per spiegarsi meglio, ma anche una rottura di scatole non indifferente, quando non ce n'è più alcun bisogno e invece continua... e continua.

A proposito, a parte gli scherzi e le frasi pungenti, la stima e l’affetto trai due compari erano cospicui. Non tutti potrebbero rimanere ore insieme a guardare un galleggiante in riva a un lago, nel nostro caso il laghetto intitolato a San Giovanni Gualberto, noto protettore dei boschi, che era pieno di pesci, principalmente carpe e cavedani, poche e guardinghe trote.

Era stato a pagamento qualche tempo prima, ma non per molto, ha raccontato Giangio, poi quel progetto era stato abbandonato e i pesci ne avevano approfittato per riprodursi indisturbati.

Purtroppo per pescare non era ancora stagione, era ancora freddo, i pesci se ne stavano rintanati sul fondo, magari negli anfratti, in attesa di tempi migliori e di acque un po’ più tiepide. Severino però ci aveva contato, lo ha preso come pretesto, la moglie ha faticato a tenerlo a freno, voleva tornare subito a casa.

Bice conosceva la testa dura e il carattere complesso del consorte, innato rompiscatole anche lui come Giangio, ma in maniera diversa, certo più simile a me.

Quindi la mia cara amica ha cercato riparo immediato. La fortuna le è venuta di nuovo incontro: c’era la vivace figlia dei nuovi vicini di Giangio, Lia, che spesso stazionava ore e ore con lui, perché i suoi avevano da fare. Con l’aiuto entusiastico di Giangio stesso, Bice, come se non ne avesse alcuna intenzione, l’ha condotta e introdotta all’omone baffuto dai capelli argentati e dallo sguardo vigile.

Si sono fatti reciproca e immediata simpatia. Improvvisamente la voglia di Severino di tornare a valle era diminuita, per fortuna. La compagnia di Lia lo faceva sentire come il nonno scorbutico di Heidi e le metaforiche caprette, in un certo senso, gli facevano ciao anche a lui. In due o tre giorni Bice temeva già una conseguente depressione, quando sarebbero dovuti tornare giù in pianura, e precisamente a S.Cassiano a Vico.

Tutti i giorni verso le undici la mattina facevano insieme una passeggiata dal condominio Croce Arcana, dove c’era l’appartamento di Dina, sorella di Bice, alla casetta di Giangio, poi al laghetto per vedere i pesci. Figurarsi che li conosceva già tutti per nome, non c’erano tante varietà e momentaneamente in giro se ne vedevano pochi, mentre la moglie di Severino preparava il pranzo con amore e supplementare capacità gastronomica. A volte mangiavano tutti insieme.

Lia lo chiamava il nonnone, per distinguerlo dal primo nonno acquisito che invece era Giangio, o anche detto nonnetto, essendo assai più mingherlino di Severino.

Quella fatidica mattina il sole splendeva dopo una pioggia fredda della notte, che forse anche aveva perfino faticato a non diventare neve e camminando non potevano fare a meno di notare, tra le staccionate di legno a gambe all’aria e i rami spezzati, intorno alle case e lungo la strada, quanti topi ci fossero in giro.

Giangio aveva già spiegato che quelli erano topini di montagna che si erano moltiplicati, si erano avvicinati di più alle case dove nessuno o quasi viveva tutto l’anno, anche perché la neve c’era ancora e a maggio di solito non c’è. Avevano più fame perché l’inverno si era prolungato più del solito ed era stato proibito, per via del Corona Virus, di andare a sciare. La gente aveva lasciato piuttosto abbandonate le seconde abitazioni, che per i topi rappresentavano molte più possibilità di mangiare, anche se le vivande lasciate là dentro erano un po’ attempate, loro si adattavano di buon grado, se riuscivano ad entrarci.

Lo stato di allarme mondiale aveva causato un certo abbandono, la gente era stata costretta in casa, in alcuni periodi, come per esempio in fascia arancione o rossa, non si poteva nemmeno uscire dal proprio comune di appartenenza.

I tre hanno anche notato un materasso mangiucchiato, ricoperto dal suo sacco di nylon trasparente, attraverso il quale si intravedevano dei topi morti, lasciato fuori da qualcuno per essere portato via dall’Alia, società locale che faceva la raccolta dei rifiuti.

La bambina parlava assai e raccontava al nonnone quello che imparava a scuola a Cutigliano, ora chiusa per la Pandemia, ma lei ne sentiva troppo la mancanza.

Era una bambina simpatica, non doveva stare tutto il tempo a parlare come le altre o a giocare, spesso se ne stava zitta e dalla faccetta, o dagli occhietti vispi, s’intuiva che pensava, ma senza alcuna fretta, e con un certo ordine, si supponeva poi dai fatti limitrofi.

“I topi non avevano nipoti.” Ha dichiarato a un certo punto, come se fosse una cosa di cui stessero parlando poco prima.

“Che hai detto?” Ha chiesto Severino, senza capire.

“L’altro giorno ho visto un pezzo di film, in cui il padre della bambina stava tutto il giorno fuori dalla scuola ad aspettare che la bambina uscisse.”

“E perché?”

“Perché la mamma era morta e il babbo si era reso improvvisamente e tragicamente conto che loro due erano rimasti soli, cioè non avevano più nessuno al mondo, allora il papà aveva lasciato il lavoro della sua impresa, che stava facendo fusione con un’altra, molto più cazzuta e internazionale…”

“Madonna mia come sei fottutamente precoce! Ma lo senti Giangio come parla questa? Chi ti ha spiegato tutte queste cose?”

“La mamma, no? A dire il vero era lei che guardava il film, prima non voleva che io restassi con lei, perché c’erano scene di sesso, sai com’è… allora io me ne sono andata in camera mia, ma poi sono tornata di nascosto e ho guardato il film dalla porta, capito? Mentre mamma non se ne accorgeva.”

“D’accordo. Ma allora i topi che c’entravano?”

“La bambina, piuttosto precoce e simpatica anche lei, aveva imparato a scuola questo palindromo…”

“Pali che?”

“Come sei ignorante nonnone, anche il nonnetto lo sa e te no? Un palindromo insomma è una frase che funziona anche letta alla rovescia, no?”

“Cose da giovani cazzuti.” Ha commentato ridendo Giangio.

Severino ha guardato positivamente sorpreso l’amico, che ha confermato annuendo e sorridendo. Poi mentalmente ha provato a far sfilare le lettere della frase dalla fine al principio. Gli occhioni celesti scorrevano silenti sui baffi bianchi. Anche se gli spazi erano spostati, a livello di lettere, quella funzionava perfettamente e, in maniera quasi timida, ha sorriso anche lui, cosa rara, ma è ridiventato subito serio di colpo.

 

ITOPIN ONAVEVA NON IPOT I

 

I TOPI NON AVEVANO NIPOTI.

 

Sulla curva della strada intanto aveva notato che la concentrazione dei roditori era assai maggiore. Entravano e uscivano da una grata di raccoglimento dell’acqua, se ci si faceva caso andavano e venivano dal bosco dietro una casa.

Incuriosito e ficcanaso, figlio d’arte, ma che non la poteva - nemmeno volendo - mettere da parte, Severino ha lasciato la bambina con il collega nonno Giangio e ha seguito al contrario la direzione e tendenza dei roditori seminascosti da ciuffi d’erba e cespugli.

Ha visto che là dietro c’era una casa diversa dalle altre che c’erano in giro, tutta di pietra a vista, abbastanza sinistra, più antica e con poche finestre, con un design piuttosto torvo, in definitiva, anche perché visibilmente abbandonata e nascosta dagli alberi e dai cespugli.

Una grande struttura di vetro e ferro era stata abbattuta e distrutta, forse dal peso della neve e dalla forza del vento, i topi zampettavano sui vetri rotti facendo un rumore lieve e sinistro da film di terrore. Le finestre della casa avevano i vetri chiusi ma gli sporti aperti, la porta era appena accostata e senza fretta non molti topi entravano e uscivano.

È stato lì che Severino ha scoperto il cadavere, che a dire il vero era ormai già quasi uno scheletro, gli animali del bosco ne avevano fatto scempio.

Hanno chiamato subito la polizia con il cellulare di Lia, che insisteva di voler andare a vedere anche lei, ovviamente non gliel’hanno permesso.

Alla vista del disgraziato poi uno dei carabinieri ha vomitato, quello più giovane. Giangio intanto in un orecchio gli aveva già sussurrato che lo conosceva, prima che diventasse quello che era.

Il cadavere secondo il suo amico era proprio il padrone di casa, Emilio Paradossi, che anni prima l’aveva abbandonata, perché era pieno di debiti, si era reso introvabile a Modena, dove viveva, aveva avuto una ditta fallita e poi si era nascosto lì, finché il tribunale non avesse risolto il problema era relativamente più al sicuro, forse anche perché la casa non era intestata a nome suo ed era in provincia di Pistoia, che apparteneva anche a una regione differente dall’Emilia Romagna ma confinante, cioè la Toscana.

Giangio gli ha detto anche che non molto tempo prima era stato trovato un altro corpo, non molto lontano da lì, ma in provincia di Modena, in una camera di un rifugio, al Lago Scaffaiolo, che potrebbe essere stato collegato, secondo lui, per via di alcuni particolari somiglianti.

Nei giorni a seguire la moglie e Severino hanno discusso un po’ più spesso del solito, perché lui non riusciva a dissimulare il suo interesse diretto al caso, le sue inevitabili indagini, nascoste , ma non troppo.

Tornati a valle è diventato improvvisamente molto attivo, navigava persino in internet. Spesso diceva che andava a pescare, a fare qualche partita a carte o a scacchi con gli amici, addirittura passeggiate in città (mai fatte), con la mascherina in tasca e gli occhiali da sole sul naso a patata.

La moglie era anche lieta che uscisse spesso e gli pareva quasi allegro e attivo, insomma, alla faccia della depressione. Non che ridesse molto, non si poteva pretendere troppo, ma faceva ridere lei con le sue freddure acide, con la sua critica ambientata in una eterna battaglia giornaliera, contro il mondo in generale e gli esseri umani in particolare, quasi tutti imbecilli.

Con animali, piante e oggetti entrava in conflitto solo occasionalmente e con assai meno convinzione, con la gente aveva molta meno pazienza, e in un certo senso aveva anche ragione.

I grandi comici dicono cose da scompisciarsi in piena serietà, a cominciare da Buster Keaton, che all’epoca del cinema muto non parlava proprio, ma non sorrideva mai e anche da Totò, il quale nella vita privata risultava piuttosto sul depresso.

La verità era che invece Severino faceva qualche sopralluogo in montagna a visitare Lia, a farsi dire da lei le cose che sentiva dire, i commenti dei genitori, della gente che conosceva, in definitiva piuttosto a indagare. Rimaneva in contatto continuo e nascosto con Giangio, che gli portava anche lui i fatti e i controfatti, quelli che secondo lui erano prove e indizi, non sempre lo erano, magari lo sembravano e basta.

Però intanto passava il tempo e si mantenevano in movimento, non solo mentale. Insomma si divertivano, a loro modo, anche se l’argomento era piuttosto serio.

Non gli era certo sfuggito che i due morti, anche se in diverse province e regioni, ma a distanza di un pugno di chilometri in salita, o in discesa che fossero, sembravano piuttosto collegati. Giangio diceva che certe notizie venivano nascoste per via del turismo. Severino obbiettava piuttosto che: ma quando mai? In tal caso i turisti sarebbero invece aumentati.

In un tardo pomeriggio, davanti al fuoco acceso della sua casetta, Giangio gli ha raccontato che tanti abeti caduti erano stati piazzati ad arte come ostacoli dagli abitanti della regione, di proposito per bloccare i sentieri alle moto, alle mountain bikes e ai turisti in genere, ma nessuno di loro poteva pensare a un movente per due morti.

Giangio lo invidio, perché lui si diverte davvero, nella vita e se sta tutto il giorno a letto, o in casa davanti al caminetto, non si sente in colpa, non deve dimostrare niente a nessuno e riesce a star bene, a divertirsi, a passare il tempo in maniera costruttiva e piacevole.

Come diavolo fa?

Severino no, nella sua testa e cuore lui combatte, in maniera costante, per questo non mi sopporta. In un certo senso gli assomiglio, con le debite proporzioni e questa mia esagerazione gli dà noia, forse anche di più perché sono donna, in un uomo l'accetterebbe di più, magari, non lo so.

Con Bice ora ci sentiamo spesso, quasi tutti i giorni. È piuttosto limitata nella conversazione, ma non è affatto una scema ed è anche una buona osservatrice, il mio ex marituccio me lo sa raccontare bene, perfino nei più insignificanti particolari.

Insomma, alla fine Severino ha ammesso quello che stava facendo, lei lo aveva già intravisto, ma ha velocemente soppesato e apprezzato il futuro vantaggio, cioè che dopo avrebbero potuto parlarne apertamente e ha fatto la burbera benefica. Anche per me è stato un passo avanti notevole.

Se un giorno qualcuno leggesse questo plico, si chiederebbe come ho fatto a registrare questi dialoghi. Sorvegliandolo a dovere, con in più i resoconti di Bice, mi sono immaginata anche quello che dicevano e come. Questa è la parte che mi è piaciuta di più e non credo di essere andata troppo lontana dalla verità. Il mio ex consorte è così costantemente perduto tra le nuvole e pure mezzo orbo, che entravo ed uscivo tranquillamente da casa sua. Secondo me non ci sente nemmeno tanto bene.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

III) MAURO E MARCHIGNO (8)

 

 

Si salta un po’ di palo in frasca, mancano a volte i contatti tra le varie avventure illustrate, ma Nara non poteva certo sorvegliarli tutto il tempo. I personaggi in questione, sebbene a lei ne interessasse solo uno, poi non stavano sempre nello stesso luogo allo stesso tempo. Le vicende intermedie bisogna cercare di immaginarsele insomma e tirare i fili per cucirle insieme.

Con il tempo poi Nara si è interessata di più a tutta la vicenda, in fondo quello era un signor giallo, o meglio: forse era un noir, insomma quelli erano i film che vedeva e i libri che riusciva a leggere, dove c’era una suspence, una certa ansia di scoprire cosa e come, quando, dove e perché...

 

 

Un tale Mauro Pelosi è stato condotto alla Bicocca a sorpresa, comune amico dei tempi andati, compagno di scuola. Severino non lo ha riconosciuto subito, ma solo dopo che glielo hanno detto, anche per via dell’eccentrica mascherina a disegni montanari stilizzati dai colori vivaci.

Forse si dovevano abbracciare, ma sono rimasti bloccati e imbarazzati per via del molesto Covid, con mascherine bianche, grigie e nere minacciose, le convenzionali occhiate disapprovatrici attorno. Bevendo e mangiando sulla ventosa terrazza del ristorante bar, Giangio ha introdotto la conversazione.

“Questo è il nostro asso nella manica, te l’ho portato qui anche perché so che ti avrebbe fatto piacere ritrovare uno che non vedi da più di cinquant’anni…”

“E a quel tempo eravamo quasi amici, prima che ti portassero via, a Roma, pensavo che non ci saremmo più rivisti…” Ha aggiunto Mauro.

“Pure io. Tiè: diciamo che la vita riserva sempre sorprese piacevoli, vabbè non tutte, però questa sì… ma perché tu hai usato la trita espressione retorica asso nella manica?” Ha ammesso, divagato e domandato Severino a Giangio.

“Perché Mauro, che se magari ti ricordi, aveva un certo pallino per le scienze, è diventato neuro-psichiatra, ha studiato tutto quello che io invece ho vigliaccamente interrotto…”

“Mah, diciamo che mi sono gradevolmente stupito...”

“Si vedeva anche ai nostri tempi, se è per quello. Studiava meno di noi e aveva voti migliori.”

“Ora che mi ci fai pensare…”

“Comunque il medico in questione, oltre alla normale e logica amicizia per noi, ci può far piuttosto comodo, ci può fare delle perizie segrete ma qualificate e gratis, ma non solo per questo, certo anche questo ci può essere utile, ma aspetta, il meglio deve ancora venire…” Ha aggiunto Giangio.

“Ma vuoi parlà o no? Che ti devo tirare fuori le parole colle pinze?”

“Ma se sei te che interrompi sempre!”

“E mo’ me ne sto zitto!”

“Bravo. Il Mauro in questione è neuropsichiatra e fa le famigerate perizie d’uopo e un ometto di questo determinato tipo per le nostre indagini rimpiattate ci può solo fare comodo, l’avrai già capito…”

“Diciamo che l’hai già accennato e riaccennato...”

…ecco, ma in più c’ha una talpa privilegiata abbestia in commissariato, un suo buon amico è vice commissario a Pistoia. Il quale pare che sia uno come noi, cioè crede nella giustizia, ma non la identifica necessariamente con la polizia, la democrazia e lo stato, anzi gli succede piuttosto raramente.”

“Tutti concetti e istituzioni non a torto oltremodo vituperati, oggetto di più che giustificati pettegolezzi. E non solo da parte degli italiani.”

“Infatti. Egli... cioè lui, si chiama Piccinini. Mauro dice che il Piccinini è informato delle cose esattamente e pure meglio di noi stessi medesimi.”

“Non ci credo, diciamo che la polizia se ne frega un po’ di questo fatto…”

“È vero, eppure la stampa e la televisione ne hanno parlato assai, un serial killer qui da noi dovrebbe fare notizia, non ce ne sono stati mai, invece… insomma, vi dico solo che Marchigno è incazzato come una bestia…” Ha sottolineato Mauro, che finalmente nel rispondere è riuscito a precedere Giangio.

“E mo’ chi è ‘sto Marchigno?” Ha chiesto Severino.

“L’amico mio, Piccinini. Figurati che il commissario lo ha messo su un’altra indagine, perché a Pistoia c’è uno strozzino, pare sia di origine brasiliana, uno che fa paura. Cioè non proprio a Pistoia, ma in provincia, a Chiesina…”

“Uzzanese?”

“Proprio quella.”

“E perché farebbe paura?”

“Sembra che abbia dei metodi piuttosto violenti, agganci con la Mafia, la ‘Ndrangheta, insomma la Camorra, speriamo di no, però…” Ha spiegato rapidamente Giangio. Mauro ha riso, ma Severino lo ha gelato con lo sguardo tipico di chi non credeva affatto che fosse bello scherzare su certe cose.

Il ghiaccio tra di loro si era rotto, eppure il terrazzo della Bicocca era ancora troppo freddo e la brezza informicoliva le orecchie lasciate dagli eventuali distratti fuori dai berretti. Si sono messi in movimento, verso la Croce Arcana, salendo gli mancava un po’ il fiato, ma erano pronti per scambiarsi le informazioni che avevano.

Il Piccinini aveva saputo di loro, dell’indagine clandestina e ha approvato, gli avrebbe detto tutto quello che sapeva, anzi in via non ufficiale e indirettamente voleva partecipare pure lui, in maniera attiva quanto sotterranea.

“Ma qui è tutta salita?” Ha chiesto Severino.

“Nooo. Solo all’andata. Al ritorno è tutta discesa.”

“Sottoscrivo, in montagna funziona un po’dappertutto così.” Ha confermato Mauro ridendo.

“Meno male. Ma quanto tempo ci vuole?”

“Beh, dipende dalle gambe del montanaro in questione.”

“Diciamo che i montanari qui sono falsi tutti e tre.” Ha detto Mauro con la massima serietà.

“No! Uno è vero e piuttosto nerboruto a livello di gambe, escludendo ogni possibile e inutile vanteria, il sottoscritto è già un bel po’ di tempo che ci abita qua e ha avuto ripetuta occasione di farsi le sue belle camminate, su e giù…”

“Magari dovrai aspettarci un po’, sei anche più leggero, puoi trasportare te stesso agevolmente, se fossimo in bicicletta e in discesa vincerei io, sono più di cento chili, ma ci vorrebbero dei freni buoni…”

“Ma senza bicicletta e in salita io vi massacro senza pietà, te poi sei sempre stato un culone sedentario… No, scusa, a parte gli scherzi… e i chili in sovrappiù, il tratto in questione è breve, magari ce la facciamo anche in mezz’ora.”

“Se mi stanco ti saluto e torno indietro e magari, se non ci rimani male, mi porto anche una bella merenda nello zainetto per ritemprarmi, non si sa mai.”

 “Magari qualche barretta ai cereali…” Ha aggiunto Mauro, che era uno che pensava alla salute e mangiava sempre qualche roba bio. Quel medico che c’aveva dentro di sé glielo aveva prescritto, per fortuna non sempre gli ubbidiva.

“No, no, su queste cose non si scherza.” Ha ripreso Giangio. “C’ho del salamino stagionato, secco e duro, scurissimo, che fanno qua in montagna e la sua morte sarebbe dentro quelle biove che hai portato su te, le ho intraviste dal sacchetto di carta, che quelle qua non si trovano…”

“Sì, vabbè, diciamo che a parlarne mi è venuta già una fame...”

 

 

IV) PARTE CHE POTREBBE ANCHE ESSERE MESSA ALTROVE (14)

 

 

A volte lei rimaneva a distanza a vederli parlare, le piaceva come gesticolavano, tali individui che parlano con un certo entusiasmo. Lei era curiosa e le piaceva anche indovinare l’argomento di cui stavano trattando, se non ci riusciva se lo inventava.

 

“L'ospizio della Val di Lamola restò in vita fino al 1648, prestando assistenza ai mercanti e ai pellegrini, sempre più numerosi sulla via Romea Nonantolana che dalla pianura Padana portava a Fanano, ad Ospitale e dopo avere valicato l'Appennino, entravano nella montagna pistoiese e proseguivano per Roma…” Ha iniziato Giangio.

…quello di Prunetta invece, dopo la tragica fine dell'ordine dei templari all'inizi del XIV secolo, in un primo momento fu attribuito agli ospitalieri ed infine fu abbandonato.” Ha continuato interrompendolo Mauro.

Passeggiando verso il laghetto, in mezzo al dialogo convenzionale Giangio è più volte partito, si è dato da fare con nozioni e date, stimolando il cervello di Mauro e annoiando quello di Severino:

“Hai fatto bene a farmelo notare. Guarda, il nome vero del luogo in questione, (cisiamo già stati personalmente a vederlo,) è passo della Croce Arcana (o dell'Alpe alla Croce) valico dell'Appennino tosco-emiliano, con una altitudine di 1669 m s.l.m., sito fra le province di Pistoia e Modena, nei comuni di Fanano ed Abetone Cutigliano. È attraversato dalla strada carreggiabile che dalla montagna modenese, passando per Ospitale, porta a Cutigliano e alla Doganaccia, nel Parco regionale dell'Alto Appennino Modenese...”

In più Giangio ci teneva a mostrare di conoscere la storia e la geografia del luogo in questione e Mauro Pelosi su ogni argomento difficilmente lo trovavi senza niente da dire. Severino perlopiù taceva, ma non per questo genericamente acconsentiva, anzi, più facilmente era contrario.

 “...vi stavo giustamente narrando che il passo in questione, detto della Croce Arcana, è situato lungo l'alto crinale dell'Appennino nostro e settentrionale che fa da confine tra la Toscana e l'Emilia-Romagna, nonché da spartiacque tra i bacini idrografici, rispettivamente: del torrente Lima, affluente del fiume Serchio, che si getta nel mare Tirreno; del torrente Leo, affluente del fiume Panaro, che si getta nel Po, tributario del mare Adriatico.”

“Molto interessante però noi...” Tentava di arginarlo Severino.

 “Il passo della Croce Arcana, come dicevo, si trova su di una sella esistente tra il Monte Spigolino, a sud-est, ed il crinale a nord-ovest che, attraverso cima Tauffi, giunge al monte Libro Aperto e al monte Cimone. La zona del passo è caratterizzata da brughiere di alta quota, da vaccinieti, da conifere striscianti e rocce affioranti; il panorama che vi si ammira è a 360 gradi: va da tutta la valle della Lima alle cime più elevate dell'Appennino tosco-emiliano, alle vallate del pistoiese, del modenese e del bolognese; quando è sereno in lontananza si scorgono le vette delle Alpi Apuane e le Alpi. È la località italiana dove le raffiche di vento raggiungono la velocità più alta, in media più di una volta l’anno si superano i 200 km/h.”

“Fermo lì: secondo Wikipedia quest’ultima notizia sarebbe da confermare...” Ha questionato severamente affermando l’ex capitano.

“Ah… lo hai letto anche tu?”

“Ma che c’avevi l’esclusiva? Vedo comunque che la tua memoria funziona ancora ammodino. Bravissimo, mi fa piacere, era quello che volevo constatare, diciamo però che mi dovresti spiegare qualche parola. Per esempio, vaccinieti io non l’ho mai sentito dire…”

“E certo, opportunamente e subito passo a spiegarti: dicesi vaccinieto la formazione vegetale nella quale predomina il mirtillo (Vaccinium myrtillus), in Italia legata ad ambienti montani, su suoli acidi e ricchi di humus…” Un sorso dalla borraccia e poi è ripartito con rinato vigore.

 “Il passo dell'Alpe alla Croce, come veniva chiamato nei secoli passati il valico della Croce Arcana, era assai frequentato fino dal basso Medioevo per transitare dalla Toscana alla pianura Padana e viceversa, anche se in misura minore della parallela via Francigena, che valicava l'Appennino settentrionale più ad ovest. I più antichi documenti risalgono all'epoca longobarda, quando Pistoia era divenuta città regia ed i bizantini si erano progressivamente ritirati verso oriente anche sulla montagna pistoiese, allora denominata Montagna alta. Il passo dell'Alpe alla Croce si trovò nell'VIII secolo, proprio presso il limes tra la Longobardia ed i territori dipendenti dall'esarcato di Bisanzio.”

“Sti cazzacci! Ti sei imparato tutto a memoria?”

“Sei stato te per telefono che mi hai chiesto notizie o no? E c’avevi ragione, la storia è la meglio geografia che puoi dare di appoggio a una determinata filosofia di un territorio in questione, senza trascurare la religione e la necessaria storia dell’arte…”

“… la ginnastica e le applicazioni tecniche…”

“… la matematica, la fisica, e perché no? Pure la chimica e l’informatica… se è lecito rammentarcelo.” Si è interrotto per via dello sguardo esasperato di Severino, che invano cercava di riportarlo sulle altre cose.

Tra una congiuntura e una congiunzione, durante le loro sedute, quando un pur breve silenzio attorno sembrava pesare, approfittando della presenza di Mauro e di Marchigno, Giangio illustrava la sua recente cultura con maggior piacere.

Si era accorto, da quando dalla lontana valle Severino gli aveva chiesto notizie sulla Doganaccia, che non ne sapeva granché e se ne era spaventato, subito dopo si era preparato a dovere, forse anche a potere e volere.

 Gli altri due sorridevano, magari cambiavano discorso, ma Severino lo guardava serio, esaminando mentalmente la credibilità delle notizie, faceva il poliziotto anche sulle fake news, volontarie o involontarie che fossero. Insomma secondo Giangio, per capire quello che stava succedendo ora lì, niente era meglio di ripassarsi la storia dei luoghi in questione.

“Con la rinascita verificatasi dopo il 1000 d.C. e con l'affermarsi dei liberi comuni, ai consueti spostamenti dei pellegrini e degli eserciti si aggiunsero quelli dei mercanti e delle loro mercanzie: lunghissime file di muli si inerpicavano su per i passi per trasportare pannilani, seterie, arazzi, merletti e stoffe pregiate tra Firenze, Prato, Lucca, Pistoia e altre città toscane da un lato, e Milano, Venezia, Parigi, la Fiandra ed altre città del nord Europa dall'altro. Questi intensi traffici spiegano la presenza di ospizi gestiti da ordini religiosi per dare asilo e per proteggere i viandanti che valicavano il passo della Croce Arcana.”

“Me cojoni!”

“Giusto, ma non solo, sul versante emiliano nel 749 d.C., Sant'Anselmo, prima di trasferirsi a Nonantola per fondare la celebre abbazia, aveva ottenuto dal Re dei Longobardi Astolfo delle terre in val di Lamola, vicino a Fanano, in Emilia, e vi aveva fatto costruire un ospizio per pellegrini. Per questa ragione anche il borgo in questione, che progressivamente si formò intorno all'ospizio assunse la denominazione di Ospitale, per volere della famiglia dei signori Ballocchi proprietaria di molte terre nella zona e tra le principali e antiche famiglie di Fanano, la cappella dedicata a San Giacomo che sorgeva accanto all'ospizio venne ampliata ed eretta in chiesa parrocchiale tra il 1588 ed il 1589. Ma anche sul versante toscano i cavalieri templari costruirono sulla strada che conduceva allo stesso Passo in questione una magione con finalità di asilo e difesa dei viandanti presso la Croce Brandegliana, nel luogo dove attualmente si trova la chiesa del paese di Prunetta…”

“L’argomento è piuttosto pertinente, a chi piace piace, non dico di no, ma cerchiamo di concentrarci sul qui presente caso, che mi pare anche complicato.” Brontolava Severino, magari per arginare invano la cascata di notizie. Mauro Pelosi però s’infilava e ne metteva in riga ulteriori e piuttosto attinenti.

 “Prima però sarebbe necessario specificare che il passo della Croce Arcana nei secoli successivi fu sempre meno frequentato: l'altezza eccessiva del valico ed il progressivo raffreddamento delle temperature che si registrò dall'inizio del XIV secolo fino alla metà del XIX secolo, cosiddetta piccola glaciazione, vi mantenevano la neve per oltre sei mesi all'anno; inoltre, nel 1781, per volontà congiunta del Granducato di Toscana e del Ducato di Modena, fu aperta la strada Giardini - Ximenes, oggi denominata strada statale 12 dell'Abetone e del Brennero, una vera opera d'arte per quei tempi, che eclissò rapidamente l'interesse per la vecchia strada, danneggiando l'economia di paesi come Ospitale e Fanano, nel Frignano, nonché di Cutigliano, in Toscana: l'antico percorso dell'Alpe alla Croce veniva scelto ormai solo dai valligiani per gli spostamenti locali.” Giangio lo seguiva e commentava al volo, appena l’altro prendeva fiato, mentre Severino sospirava di rassegnazione.

“Vero. Ma nell'ultimo dopoguerra la pratica dello sci alpino e di fondo si diffuse sempre più, cosicché anche la zona della Doganaccia e della Croce Arcana conobbe un rilancio inatteso: all'inizio vi fu costruito un rifugio che fungeva anche da albergo-ristorante e da stazione di arrivo della funivia da Cutigliano inaugurata nel 1959 per trasportare capi ovini e bovini all'alpeggio d'estate. Dopo poco tempo l'impianto funiviario fu destinato al trasporto delle persone. Furono quindi aperte diverse piste di sci, alpino e nordico, servite da impianti di risalita a fune e vari skilift; furono realizzate altre strutture ricettive e di servizio, tra cui una piccola chiesa. Successivamente fu inaugurata anche un'altra funivia che dal rifugio della Doganaccia portava proprio sul crinale del passo della Croce Arcana, a 1720 metri s.l.m. Da allora La Doganaccia, poco sotto il passo della Croce Arcana, tende ad estendersi sempre più: ormai, è diventata un vero e proprio paese di alta quota, grazie anche alla presenza di moltissime seconde-case.”

Mauro intramezzava delle pause sorridendo divertito sotto la barba ben curata, Severino ogni tanto sbuffava leggermente dalle narici e il tempo passava inesorabile e sornione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

V) CICCIO LOPPIA (13)

 

Questo qua è anche troppo lungo, ammettiamolo, ma assomiglia più a un racconto che a un romanzo. Il romanzo è una risposta, una pietra finale, chi racconta la storia, Nara, non aveva certo questa intenzione e noi non abbiamo questa presunzione.

Il racconto no, il racconto di solito è una narrazione breve, è una narrazione incompleta. Inizia dopo che qualcosa è già avvenuto, termina quando qualcos’altro deve ancora succedere. Lascia fuori una grassa porzione di storia, e certe volte quello che resta fuori è addirittura più ciccioso e determinante di quello che c’è all’interno.

Il racconto è una specie di punto interrogativo, e a tutti noi, in fila nello spazio e nel tempo, evidentemente interessavano più le domande delle risposte, e di domande qui ce n’è una schiera, un’apparentemente superflua abbondanza.

 

La Bicocca, ristorante-bar vicino alla chiesetta e all’arrivo della funivia, non poteva dare da mangiare che fuori, sulla terrazza con belvedere, per via della Pandemia alla terza ondata, ma il freddo non permetteva ancora di poterci resistere a lungo, a meno che non si fosse vestiti come d’inverno, con giacche a vento e abbigliamento da sci.

Bice passava il tempo in cui Severino la lasciava sola, che era tanto, a pulire, a rimettere a posto le idee e la casa, a fare la spesa e a sistemare il mangiare nello spazio che era poco ma il baffuto in questione mangiava in modo più che proporzionale. Era una persona preziosa, in un certo senso invidiavo anche lei, perché la famiglia era una cosa come l’avrei voluta anch’io, ma non ne ero capace. I loro figli se ne erano andati, come succede in questi casi, li vedevano di rado. Nonostante questo anch’io li vorrei avere avuti, qualcosina di una specie d’istinto di madre ce l’ho anch’io, ma si perde nella marea delle altre pressioni più urgenti, che io stessa non so arginare, né catalogare, tantomeno quatificare. Forse è stato meglio così, avrei avuto poco tempo per me stessa e magari loro sarebbero diventati dei matti.

Ginulfo ha detto anche lui la stessa cosa.

È un imbecillotto, intendiamoci, ma è proprio questo che mi piace, stavolta l’ho scelto bene, non uno che mi faceva sentire fuori di testa come Giangio.

Nel rifugio di Abruzzo, il più antico dell’Appennino, presso il piccolo lago Scaffaiolo, dove si era rinvenuto l’altro corpo, clandestinamente entrati in contatto con la rispettiva autorità della provincia di Modena e del comune di Fanano, i nostri quattro hanno appreso con curiosità e raccapriccio, che si sono trovati in quantità gli stessi semi di grano.

Nel giro di un mese, in un condominio appena fuori dal Melo, un po’ più a monte, tra la Doganaccia e Cutigliano, è stato segnalato che un appartamento mandava rumore continuo, in un corridoio del piano terra. Un ronzio forte e continuo, ma dentro non c’era nessuno, nessuno rispondeva al bussare e alla chiamata.

Interpellato l’amministratore e avvertita poi la polizia, un supplementare odore strano veniva da sotto la porta, abbattuta la quale dentro trovavano un cadavere di uomo mezzo mummificato, c’erano un deumidificatore acceso e un condizionatore attaccato su aria calda, chissà da quanto tempo.

Chicchi di grano attorno, nelle tasche del povero cadavere rinsecchito e sparsi per terra. Nessuno ha sentito la pur poca ma necessaria puzza, perché la gente non è più venuta qui in vacanza.

Pare che fosse il proprietario dell’appartamento, attraverso le solite notizie diagonali si arrivava a nome e cognome, Francesco Loppia detto Ciccio, calabrese, altro commerciante fallito, ma non di cereali, piuttosto di prodotti per la pulizia della casa e affini.

I tre morti avevano un’altra caratteristica in comune: le ancora sconosciute e misteriose cause del decesso.

I Carabinieri locali, sebbene riluttanti, avevano preso in mano le indagini, per arrivare a comprendere quasi subito che non ci capivano niente, non c’erano abituati, avevano altro da fare, perlopiù minutaglia di routine. Cutigliano è un comune piccolo e poco abitato, anche se con la bella stagione si popola di più. La prassi in questo caso li ha aiutati, lo hanno velocemente passato al capitano Ilio De Santi dell’arma di Pistoia.

Giangio, Mauro e Severino hanno invitato anche il competente e necessario Marchigno Piccinini per la prima vera assemblea generale, che hanno fatto alla trattoria Cavaradossi, di Bartolo e Ivana, nei pressi dell’ex stazione ferroviaria di San Marcello Pistoiese, Principale centro della Ferrovia Pracchia-Mammiano, chiusa nel 1965, che si diramava dalla linea appenninica FS della Porrettana.

“È venuto fuori un caso del genere anche a Castelfranco Emilia. Un po’ fuori zona ma neanche tanto, tre province e due regioni: Lucca, Pistoia e Modena, Toscana ed Emilia. In Romagna ancora niente, ma questo è il primo in pianura.

Per me dovremmo avere qualcuno che gentilmente ci facesse da talpa anche a Modena.” Ha detto subito Marchigno con un calice di Chiodino in mano con implicita scorzetta di limone. Pare che in loco lo chiamassero anche Bicicletta, ma in giro per l’Italia si trova con nomi ulteriori e diversi, spesso pittoreschi.

“No. Non ce l’abbiamo, magari tu conosci qualcuno che conosce?” Ha chiesto Giangio agguantando le terza bruschetta, piuttosto gocciolante.

“Possiamo sentire qualche amico di amici.” Ha concluso Severino versandosi un po’ di Chardonnay e aveva già in mente un nome o due.

La serata è proseguita con discorsi ramificati e tendenziosi, che sono serviti più che altro a cementare il loro sodalizio. Non hanno fatto un giuramento di sangue, magari perché c’era gente attorno, ma si poteva intuire che per loro non era solo un gioco per pensionati annoiati. A cominciare da Severino che tecnicamente pensionato era, ma più che mai si sentiva come un nostalgico tutore dell’ordine in borghese e a continuare con il poliziotto in servizio, che non credeva abbastanza nella polizia, forse perché la conosceva bene. Non che non ci fosse gente valida, lui stesso ne era la prova ambulante, ma di solito chi ne era a capo andava verso altre direzioni. Marchigno ha spiegato che in Brasile era peggio, dipendendo dalla zona, la corruzione non solo era normale, ma il non corrotto era l’eccezione. Tutti hanno riso, forse esagerava per via del vino e della buona compagnia.

“Queste cose ormai si sanno. La polizia, chissà perché, c’ha quasi sempre le mani legate e pure piuttosto sporche.” Ha detto malinconicamente a un certo punto il Piccinini strizzando un occhio.

“E noi invece no, quello che ci manca è altro, non del tutto a dir la verità, ma in teoria siamo proprio noi i padroni di noi stessi. E poi c’abbiamo la passione per la verità e la giustizia, non tutti possono dire lo stesso e non tutta la giustizia segue le idee della polizia e dello stato italiano o straniero che sia.” Ha replicato Severino. Gli altri hanno approvato.

“Ma che tipo è De Santi?” Ha chiesto poi Giangio.

“Come essere umano è abbastanza in gamba, direi, perlomeno mi pare, ma è arrivato da poco, non lo conosco bene. Una persona di cultura, legge molto, anche in ufficio: libri, giornali e riviste. In compenso quello che si nota subito è che come poliziotto è un po’ duro di orecchie, mezzo stronzo, si dà un sacco d’importanza.”

“Per esempio?”

“Qui, anche se tutti glielo dicono e ridicono, e ora ci sono di mezzo anche la stampa e la televisione, non pare ancora convinto che si tratti di un serial killer.”

“Quattro morti nel raggio di pochi chilometri, ammazzati senza motivo, nemmeno le cause dei decessi si sanno.”

“Il motivo ci deve essere, anche un pazzo un motivo ce lo ha sempre, forse assurdo, ma ce lo ha. Poi ci sono i semi, il grano. Una cosa simbolica, senza dubbio.”

“Non c’è interesse a rendere pubblico un gioco al terrore come questo, qui si vive di turismo, il problema è che questo pazzo non si fermerà, forse ci sono già altri corpi che non sono stati scoperti.” Ha dichiarato Giangio e un mormorio sommesso ne è seguito.

“Sui corpi sono d’accordo, ma secondo me invece il turismo aumenterà con questi fatti, la gente non pensa affatto che possa accadere anche a loro.” Ha commentato Severino e gli altri hanno scosso la testa pensierosi, forse disapprovando la ragione del collega, per così dire, che poteva anche essere in pensione, ma era il più alto in grado tra di loro, sorrideva di rado e solo ironicamente.

La profezia di Severino invece si è ben presto avverata e lui intanto aveva cominciato a parlarne di più anche con la moglie, dato che servizi sulle indagini e le novità giornaliere apparivano anche attraverso numerose televisioni private toscane ed emiliane.

Fatto sta che alla pistoiese Doganaccia e dalla parte modenese di Fanano veramente il fatturato del turismo in generale è aumentato. La gente si andava a vedere i luoghi incriminati e si faceva degli abbondanti selfie, filmati e tik&tok impertinenti e futili.

La stampa e la TV spiegavano che il tipo di vittima che andava per la maggiore era il commerciante fallito, l’amante della montagna, preferibilmente del sud Italia, così tutti gli altri si sentivano al sicuro.

Poi Severino e Giangio hanno avvertito i compari che la storiaccia sembrava collegata all’altra, quella dello strozzino Geraldigno o Geraldinho La Porta. Ma come avevano fatto a saperlo?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VI) LA CASA NEL BOSCO (2)

 

Mi è venuto di nuovo il sospetto che questa determinata parte andasse messa prima, mi sembrava che ci stesse bene qui, ma poi ho visto che c’era il primo sopralluogo e mi è venuto un dubbio, o forse solo quella parte lì era da staccare e mettere in precedenza. Sorrentino ci viene di nuovo in soccorso a dichiarare che lui pensa la trama non sia una cosa fondamentale, o che eventualmente non debba necessariamente rispettare una rigida linea temporale. Dal punto di vista della scrittura di un copione, giustifica persino un massiccio uso degli avverbi, a patto che sia esemplicativo dell’originalità e semplicità dell’espressione di un certo individuo non laureato, tantomeno letterato, cioè di me.

 

L’amministratore del condominio del Melo invece diceva che per i topi non c’erano problemi, era già successo, e che era stata colpa della neve fino a maggio. Purtroppo i topi non c’avevano la televisione e dovevano ingannare il tempo, ma per fortuna le case avevano pochi varchi di entrata e quasi mai a piano terra, dove ci si doveva già difendere dalla neve e dalla pioggia.

A determinata domanda ha risposto che quei morti umani potevano causare più guai, non aveva l’esperienza necessaria per stabilirlo, ma avrebbe preferito evitarli, almeno in futuro, che nel passato, anche se era prossimo, lì non ci si poteva fare più niente.

La famiglia della funivia e del bar ristorante La Bicocca era una di quelle dei tempi andati, gran lavoratori e brava gente. Il padre doveva avere un’ottantina d’anni ma lavorava come un giovane, i giovani che poi erano adulti e sposati, anche di più. Avevano investito tutto, soldi e vita sulla Doganaccia e avevano paura che gli affari andassero male, il covid 19 aveva già fatto del suo meglio e quella storia era ancora lontana da essere risolta.

Moreno, il figlio maggiore, era un tipo serio, ma assai naturale e simpatico, senza pensarci nemmeno. Una volta Giangio gli aveva chiesto una sfogliatella alla crema, lui gli aveva detto che c’erano alla cioccolata, alla ricotta, alla marmellata di mele e alla crema, ma sembravano tutte uguali. Moreno le aveva tirate su con la pinza apposita, una per una, guardate con attenzione e azzardato varie ipotesi, tra quelle conosciute. Alla fine aveva scosso la testa sconsolato e aveva detto: “Direi una bugia.” Giangio allora gli aveva fatto un gesto con la mano come dire: tiriamo a sorte.

Gliene era toccata una alla ricotta, ma era buonissima. Ne aveva provata poi un’altra ed era di nuovo alla ricotta. Alla terza gli era toccata la cioccolata, che era proprio quella che voleva evitare, ma era buona anche quella e in più ci avevano riso più volte insieme.

In un'altra occasione sulla funivia scendevano insieme e c’era anche il padre, Severino gli aveva chiesto come si faceva per pagare e lui gli aveva spiegato che si pagava in fondo, a Cutigliano, così se precipitavano avrebbero risparmiato.

Moreno tra l’altro diceva che se fosse aumentato il fatturato in quella maniera, cioè a ritmo di morti ammazzati, lui preferiva meno soldi, ma quelli guadagnati senza colpo ferire.

Il fratello minore, che correva anche in macchina nei rally, approvava e il padre scuoteva la testa con qualche imprecazione soffocata, diceva che almeno in tempo di guerra si sapeva chi era il nemico, ora invece no, si combatteva contro i mulini a vento come Don Chisciotte, si perdeva sempre e comunque, c’era da ammattire. Secondo me, però, stava parlando del Covid 19.

Una volta, prima della Pandemia, Mauro e la sua amica Ambrogina, residente a Lecco, erano andati a cena alla Bicocca. Era maggio e non essendo ancora alta stagione c'era poco movimento. A pranzo c'era una cuoca, un assistente lavapiatti e una cameriera, ma solo nel fine settimana, che apriva anche la funivia, se non c’era troppo vento.

Durante i cinque giorni feriali però erano in due, la sera Moreno si arrangiava da solo, usando le salse e la preparazione delle varie pietanze fatta dalla cuoca. In più teneva il bar, la reception dell'albergo e sgranocchiava cioccolata davanti alla TV.

Mauro ordinò ravioli burro e salvia e invece la sua amica prese le tagliatelle alla boscaiola. La porzione di Mauro arrivò striminzita e invece quella della sua amica che era anche piccola, magrolina e mangiava poco, era stranamente gigantesca. Di secondo Mauro prese le scaloppine al limone e lei invece la tagliata alla rucola. Anche in questo caso le porzioni erano nettamente sbilanciate dalla parte della signora, che di entrambi i piatti dette quello che le avanzava a Mauro, il quale specialmente in montagna da una buona diventava un’ottima forchetta.

Essendo tale comportamento poco professionale, ma anche una cosa buffa a vedersi, i due si erano divertiti abbastanza e si erano chiesti se non era stato fatto di proposito. Si erano risposti che probabilmente il ragazzone aveva fatto del suo meglio, ma non era certo un cuoco. E poi avevano mangiato bene e avevano riso del povero - ma ricco - Moreno che faceva tutto lui, conversando rapidamente con loro, sparendo in cucina a preparare le pietanze e andando su e giù dalla scala per tornare al bar e alla reception dell’albergo.

Il primo sopralluogo lo hanno fatto tutti insieme alla casa in questione che era grigia, di pietra a vista, si trattava di roccia locale tagliata a strati, piuttosto bella e originale come design, le pareti in leggera pendenza verso l’interno, in uno stile finto antico oppure falso moderno, ma finestre e porte erano sfondate, dentro e tutto attorno era abbandono e rovina. C’era anche una piscina coperta con una struttura di metallo e vetro che, opportunamente riscaldata, con numerosi pannelli solari sul tetto, permetteva di fare il bagno anche d’inverno con la neve intorno. Ora distrutta, non si sapeva se erano stati dei vandali ma Lia aveva commentato che era stato il peso della neve. Severino le ha chiesto se era stata una sua pensata o se lo aveva sentito dire, la seconda cosa che hai detto, ha risposto lei, che si godeva spesso su Youtube il comico Corrado Guzzanti e il suo personaggio Quelo, anche sua sorella Sabina, pure Caterina, ma non apprezzava il padre Paolo, giornalista ogni tanto riesumato dalla televisione, ma solo quando al sistema faceva comodo.

In quel giorno di nebbia fitta stavano andando a visitare di nuovo la casa abbandonata, Giangio e Severino erano assai ciarlieri e arzilli, gli altri due più assorti e silenziosi, solo che c’era un’umidità che entrava nelle rispettive giacche e sotto nelle relative ossa.

Arrivati al luogo del delitto numero uno, almeno nella loro cronologia della scoperta, hanno avuto la sensazione collettiva di un’ombra infilarsi tra gli alberi. Poteva essere chiunque o qualsiasi animale, lo hanno rincorso, qualsiasi cosa esso fosse, ma le loro gambe erano troppo molli e la nebbia assorbe e attutisce anche i rumori e non sono riusciti più a vedere niente, di quello che avevano solo sentito e nemmeno visto prima.

Giangio ha detto che quelle erano nuvole basse, non era nebbia, perché si muoveva a banchi, era fitta ma andava e veniva, il vento e la nebbia di solito non convivono. Severino era uno scettico naturale ma convinto, non ci ha creduto più di tanto e poi in quel momento non gliene importava.

Mauro Pelosi si è un po’ spaventato, Marchigno invece è rimasto a pensarci, giustamente poteva essere l’assassino che tornava sul luogo del delitto, ma anche un cinghiale che cercava radici tenere da mangiare, un lupo, magari anche un tasso...

Invece ero io.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VII) SU E GIÙ (6)

 

Determinate indiscrezioni pare che accennino al fatto che Nara leggesse tutto ad alta voce mentre ricopiava le annotazioni e poi le arricchisse di particolari. Se prima andava dietro all’ex, poi si era appassionata alla storia intera. Cose che probabilmente succedono solo sulla terra.

 

Lei era contenta che suo marito fosse impegnato in qualcosa che lo catturasse quasi completamente, il suo meccanismo mentale ne aveva bisogno, considerava che in fondo per lui era la miglior maniera per non cadere in depressione.

Severino e Bice sono rimasti alla base delle operazioni, visto che la sorella era contenta che ci stessero loro e quell’estate non avrebbero nemmeno usato il loro appartamento, era in programma una vacanza non proprio all’estero, ma quasi, insomma in Puglia e Calabria, forse persino in Lucania e Trinacria.

I due pensionati dovevano scendere a valle ogni tanto, se ne andavano a vedere come stava la loro casa e a fare una spesa più a buon mercato e fornita di prodotti che in montagna non si trovavano.

Visto che andavano e venivano, dalla valle alla montagna, Severino era sempre rimasto in contatto telefonico con la bambina, lui usava poco il computer, meno ancora le reti sociali, ma si era fatto un profilo Facebook solo per parlare con lei, all’occorrenza usavano anche Skype.

Sua moglie non sapeva cosa pensarne, di questo contatto tra un vecchio orco e una bambina, lui le suggeriva di non pensare a niente, se proprio ne avesse bisogno, che pensasse ai fatti suoi e non a quelli degli altri.

Ogni tanto andava a trovare Lia, allora i genitori hanno chiesto, al nonnetto acquistato Giangio, se era tutto a posto, lui ha detto di sì, che diamine, conosceva Severino da una vita.

Sono andati a fare delle passeggiate a Pistoia, perfino allo zoo e in Pizzorna, che è un altopiano vicino, ma già in provincia di Lucca, a mille più o meno esatti metri di altezza.

Lia leggeva di nascosto le cose che i due genitori pubblicavano sui social, insomma, le e-mail di lavoro più tante altre cose mezze proibite dalla legge, ma certo non gliele poteva dire a lui, che come il suo nonnetto erano pericolosi da quel punto di vista lì.

Di confessabile e positivo c’era che i suoi genitori erano fedeli l’uno all’altro e di questo lei era contenta, visto il panorama desolante che offrivano i genitori delle amiche, mezze hacker anche loro, alcune pure tre quarti, ma ovviamente all’insaputa dei relativi genitori.

 

“Madonna mia! Ma il il tradimento non è solo un esercizio di sessualità a bassa definizione, no, no, io penso che abbia una sua definita e lodevole dignità e soprattutto che non debba essere giudicato da quei figli adulti che, nel condannarlo, ahimè pensano di più alla loro quiete perduta che piuttosto al percorso anche drammatico in cui chiunque di noi, e dico chiunque, a un certo punto della sua vita, può venirsi a trovare. No, no, tradire un amore, tradire un amico, tradire anche un'idea, tradire un partito, tradire persino la patria significa infatti e pittosto svincolarsi da un'appartenenza e creare uno spazio di identità finalmente non protetta da alcun rapporto fiduciario, e quindi in un certo senso più che autentica e vera.

Nasciamo infatti nella vulnerabile ma incrollabile fiducia che qualcuno ci nutra e ci ami, ma possiamo invece crescere e diventare noi stessi solo se usciamo da questa fiducia indotta, se non ne restiamo prigionieri come tutti, se a coloro che per primi ci hanno amato e a tutti quelli che dopo di loro sono venuti, un giorno sappiamo dire:

"No! Non sono e non voglio nemmeno essere come tu mi vuoi".

C'è infatti e purtroppo in ogni amore, da quello dei genitori, dei mariti, delle mogli, degli amici, degli amanti a quello non meno forte delle idee e delle cause che abbiamo – ignari o consapevoli - sposato, una determinata forma di possesso che più che sviluppare la nostra crescita la arresta e costringe la nostra identità in formazione a costituirsi solo all'interno di quel recinto che è la fedeltà che non dobbiamo tradire. Ma in ogni umana fedeltà che non conosce ‘sto cazzo di tradimento (e neppure ne ipotizza la possibilità effettiva) c'è troppa infanzia, troppa ingenuità, troppa paura di vivere con le sole nostre forze, troppa questa incapacità di amare se appena si annuncia un potenziale profilo d'ombra. Eppure questo esiguo profilo d'ombra, quella lì, che puerilmente chiamano "fedeltà" è l'incapacità di abbandonare lidi protetti, di uscire a briglia sciolta e a proprio rischio verso le regioni sconosciute dell’esistenza che si offrono solo a quanti sanno dire per davvero "addio".

E in ogni addio c'è lo stigma del tradimento, vabbene, ma anche dell'emancipazione. C'è ‘sto lato oscuro della fedeltà che però è anche proprio quello che le conferisce il suo significato e che la rende possibile. Fedeltà e tradimento devono infatti l'una all'altro la densità del loro essere che emancipa non solo il traditore ma anche il tradito, risvegliando l'un l'altro dal loro sonno e dalla loro pigrizia emancipativa impropriamente scambiata per "amore".

Gioco di prestigio di parole per confondere le carte e barare al gioco della vita. La vita è un gioco la cui prima regola è: non è un gioco.

Il traditore di solito queste cose le sa a memoria, assai meno il tradito che, quando non si rifugia nella vendetta, nel cinismo, nella inutile negazione o nella fottuta paranoia della scelta, finisce per consegnarsi a quel tradimento di sé che è la svalutazione di sé stesso per non essere più amato dall'altro, senza così accorgersi che allora, nel tempo della fedeltà, la sua identità era solo un regalo dell'altro. Tradendolo l'altro lo riconsegna a sé stesso, e niente impedisce di dire a tutti coloro che si sentono traditi che forse un giorno hanno scelto chi li avrebbe traditi per poter incontrare sé stessi, come un giorno Gesù scelse Giuda per incontrare il suo destino.

Sembrerebbe infatti che la legge della vita sia scritta più nel segno del tradimento che in quello della apparente sicurezza della fedeltà, forse perché la vita preferisce di più chi ha incontrato sé stesso e sa chi davvero è, rispetto a chi ha evitato di farlo per stare rannicchiato in un'area, che egli crede protetta, dove la convenzione dei nomi fa chiamare fedeltà e amore quello che in realtà è insicurezza o addirittura rifiuto di sapere chi davvero si è, per la paura di incontrare sé stessi, un giorno almeno, prima di morire, con il rischio di non essere effettivamente mai nati.

 

E questo qui non lo dico io, magari per giustificare a me stessa le mie ramificate magagne, no, lo dice un inappuntabile e cazzuto socio-filosofo contemporaneo: Alberto Di Galemba.

Il senso della vita, anche dal punto di vista commerciale, era vero che Lia non lo comprendeva ancora - la maggior parte della gente non lo capisce in una vita intera, non facciamo nomi - ma arrivava senza alcuna fatica a considerare che era intrigante per lei, bambina già mezza adulta, e per la rimanente dichiarava di essere quasi tre quarti hacker.

Anche perché di queste cose suo padre ne aveva dibattuto con i suoi amici e avevano fatto determinati commenti anche con mamma, a volte quando Lia era in un’altra stanza e loro pensavano che non udisse.

Commenti che naturalmente non poteva riferire.

Insomma giocava a fare la persona adulta, come i bambini anelano sempre essere, una volta cresciuti invece vorremmo tornare a essere bambini. Uno dei meccanismi più umani che esistono, si vuole sempre quello che non si ha, e che spesso non si può avere, purtroppo.

Sua moglie Bice ha chiesto di nuovo a Severino cosa ci trovava di bello a chiacchierare con una bambina, nel caso in questione con Lia, lui ha risposto che era assai simpatica e intelligente, che lo faceva sentire nonno, anzi meglio ancora: un nonno giovane e attualizzato, su tante cose lo obbligava a documentarsi, a confrontarsi con il mondo attorno in eterno cambiamento: insomma i giovani, l’attualità, la televisione e l’internet, tutto.

Cosa che i loro figli a suo tempo non erano riusciti a fare, forse anche perché lavorava troppo, era impegnato e assorbito altrove. Non che lo avesse notato o chiesto, ma dopo ne aveva sentito la mancanza, quando era già troppo tardi.

Intanto pareva che i pesci abboccassero già, arrivata effettivamente una specie di timida primavera e Giangio aveva proposto di presentare a Severino i genitori di Lia, il quale già da sé era ansioso di conoscere, per via del fatto che avevano tirato su una ragazzina sveglia e affabile come quella.

L’ex capitano è andato a pescare nel laghetto di S.Giovanni Gualberto con Giangio, hanno preso diversi cavedani e due discrete carpe. Dopo averli fotografati li hanno rimessi in acqua. I pesci erano contenti, ma stavano meglio prima.

C’erano anche i genitori di Lia, intervenuti in un secondo momento e suo padre ha anche provato a pescare, dimostrando innate capacità per il lancio della lenza con forza e precisione notevoli, per uno che ci provava per la prima volta, tanto da insospettire Severino, che dubitava per principio, anche quando non ce n’era effettivo bisogno.

Il canuto con i baffi talvolta ragionava sulla storia già avvenuta, per capire quella che doveva ancora arrivare, lo stesso metodo usato dal noto futurologo Toffler, ma non l’aveva affatto copiato, ci aveva pensato forse prima lui, magari anche senza rendersene conto.

Di Toffler un giorno gliene parlerà Mauro. Lui noterà che combina con questo suo, si ricorderà il ragionamento, ma non il nome.

Pescando e discorrendo veniva costantemente ragguagliato da Giangio sugli sviluppi delle sue pensate sulle loro indagini, ma solo se in giro Carlo non c’era e nemmeno Lia… e naturalmente sulla storia della Doganaccia e della zona di confine regionale in questione. Per quest’ultimo tipo di dibattito non c’erano limitazioni, era aperto a tutti.

Come anche quel giorno, appena arrivati, quasi per caso, ecco anche Mauro Pelosi con il relativo cane Pippo a guinzaglio, bassotto attempato e sovrappeso, da strusciare quasi la pancia per terra.

Appena è stato possibile se sono andati a fare un’ispezione sul luogo del vicino delitto emiliano e modenese, il poliziottesco aiuto mutuo tra compagni di carabinierato aveva dato prova di valere ancora qualcosa, pure nell’epoca moderna. I semi di grano c’erano anche lì, hanno potuto vedere le foto, ricevute da amici di amici carabinieri per internet, mandate segretamente a Marchigno del caso di Castelfranco.

Mauro conosceva un valido alternativo in zona, Olavo Bertocchini, psicologo barbuto e marxista, intellettuale comunista a oltranza, ma non privo di autocritica, avevano già fissato in una data prossima un pranzo-assemblea da Bollo, trattoria della vicina Panzano, e lì ci si mangiava anche bene assai. Olavo aveva un amico, nonché uomo di fiducia, in polizia a Carpi, che conosceva altri dissidenti niente affatto dissimili, in ulteriori zone della provincia modenese.

Seguendo tutto con la mente infervorata, ma non applicando la sua ingenuità bambina, voleva ma non poteva portare Lia a vedere la scena del crimine, anche se forse lei gli avrebbe dato qualche pista utile, ma lei aveva capito che lui era lì per altre cose e lo teneva d’occhio.

 “Nonnone, perché dal momento che ti ho conosciuto agisci in modo strano e quando arrivo tu e il nonnetto cambiate argomento alla svelta?” Gli ha chiesto Lia a bruciapelo.

“No, ma che dici? Un po’ magari hai ragione, ma sai, devi sapere che noi vecchi abbiamo degli argomenti che non sono adatti per i bambini, anche se sono intelligenti e ficcanasi…”

“Ma qui non si deve fare il plurale, si dice ficcanaso e basta.”

“No, infatti, hai proprio ragione, ma devi capire che i tuoi genitori non approverebbero se noi ti parlassimo di certe cose…”

“Se è per quello non approvano nemmeno che voi veniate qui a comportarvi come degli agenti segreti… e poi credi che non abbia capito che qui hanno ammazzato della gente e voi state facendo un’indagine di nascosto e parallela se non perpendicolare a quella della polizia?”

Qui è intervenuto Giangio e ha detto e fatto con molto più tatto e tattica quello che Severino non era riuscito a esprimere. Lei ha fatto finta di crederci, ma negli occhietti si leggeva ancora il dubbio, a guardarci bene. Voleva essere trattata come un’adulta, ma nessuno lo faceva, a cominciare dai genitori. I due pensionati sapevano entrambi che Lia aveva ragione, i bambini non dovrebbero essere trattati proprio come bambini. Fin dall’inizio le avevano inventato confortevoli bugie, però con un fondo di verità, anche se mischiate a caso con altre verità e fondi di bugie.

Per Lia e Bice, Severino era come un ippopotamo che voleva fare il cavalluccio marino, ma non gli riusciva e risultava, alla fine, una specie di ornitorinco sovrappeso e piuttosto imbranato.

Ma era solo apparenza?

No, forse non solo.

Anche i suoi genitori si comportavano così con lei, per questo Lia era così svelta e sempre un passo avanti agli altri.

“Pulci-pulci-pulci! Non ci sai fare con i bambini te, e meno ancora con le bambine, non devi fare così con lei, le hai messo una pulce in più al naso.” Gli ha detto poi Giangio appena sono rimasti da soli. Severino ha grugnito, sapendo che l’altro aveva ragione, ma non ci poteva far niente.

Prima di tutto ha pensato di farsi amico Carlo, che pareva un uomo aperto e incline a vedere le gelosie come un ostacolo inutile e stupido, una buffa tendenza femminile che anche lui stesso, personalmente, non prendeva tanto sul serio.

In un secondo momento Carlo non gli pareva molto convinto però e poi anche poco naturale, sembrava nascondere qualcosa che in quel momento non poteva certo capire.

Parlando con Bice tutti questi particolari venivano fuori indirettamente, ma lui le raccontava i fatti per filo e per segno, difficile che si dimenticasse di qualcosa.

Comunque era raro che Carlo potesse andare in giro con loro, se ne stava al lavoro tutto il giorno, per via di collaborazioni con ditte varie cui faceva manutenzione del lato informatico e altre applicazioni di internet che Severino non comprendeva a fondo e forse neanche più in superficie. E la moglie pure non stava troppo lontana dal suo centro delle notizie e delle attività computerizzate. Salvo qualche pranzetto, merenda e cena, ma prefabbricate e veloci da preparare e consumare in tre. Non era prevista alcuna presenza supplementare, Giangio era un veicolo per loro, al quale potevano lasciare Lia, per comodità.

 “Pare che il morto del rifugio fosse anche lui un commerciante caduto in disgrazia, anche lui del sud, la presenza del grano potrebbe essere simbolica e rappresentare il denaro che loro dovevano a qualcuno, potrebbe essere un usuraio, magari legato alla Mafia.” Ha commentato distrattamente Lia, mentre pescavano al laghetto, insieme a Giangio. Ci sono rimasti di sasso, il silenzio scalfito appena dalla brezza e stormire relativo e lieve di fronde, c’è voluto qualche secondo prima che qualcuno parlasse.

“Ma quei topi non avevano proprio dei nipoti?

Nemmeno lontani?” Ha chiesto Giangio sorridendo alla bambina, come confermando una cosa di cui stavano parlando prima.

“Forse sì.” Ha risposto invece Severino serio e apparentemente distante.

“O magari no. Poi vediamo.” Ha concluso il nonnetto. Lia ha sorriso contenta. Era riuscita a colpire nel segno, anche se forse non sapeva bene quale, magari ci avrebbe pensato dopo.

 

 

 

VIII)  NUCLEO CONTROEGEMONICO (4)

 

 

Diciamo che dove di questo passo sarebbe andato a finire il mondo se lo chiedevano un po’ tutti, ma in fondo se lo erano sempre chiesto, dalla notte dei tempi e non erano mai riusciti a rispondere se non con il senno di poi, alle domande sul futuro che piuttosto velocemente diventava passato, almeno nel cervello e nel cuore, senza quasi mai passare dal solito presente in questione, perlopiù ignorato.

 

Ogni tanto Lia chiedeva a Severino per telefono delle cose, o anche per e-mail o attraverso Facebook, cercava di non fargli capire perché chiedeva e dove lo aveva sentito, ma tutti e due intuivano cosa stava succedendo.

Aveva cominciato anche a usare un cannocchiale giacché aveva notato più persone aggirarsi intorno a casa di Giangio. Glielo ha detto anche, ma Giangio non le ha dato troppo credito, allora lo ha riferito a Severino il quale è andato a visitare i dintorni della casetta, ha trovato tracce di scarpe che coincidevano con quello che la bambina gli aveva riferito. Un uomo e una donna, a giudicare dalle calzature ed entravano anche in casa.

Giangio è caduto dalle nubi, ma non era sparito niente e non sapeva proprio cosa pensare di una cosa del genere.

Il luogo del primo delitto Lia lo andava anche a visitare spesso e i nastri della polizia non la spaventavano, ma la facevano sentire ogni volta al centro di un mistero e di un meccanismo che la incuriosiva sempre di più.

Lo svantaggio però c’era anche, ed era che la bambina, per quanto precoce, non aveva idea della ferocità degli esseri umani, forse questo l’aiutava e la ostacolava, dipendendo dalle situazioni. Paura non ne aveva, forse proprio perché era ancora lontana da immaginarsi tutto ciò che si può conoscere con l’esperienza, su quello che certe cosiddette persone possono fare per togliere agli altri quello che hanno, ma anche facendo cose non necessarie, non per questo meno esagerate, o forse meglio sarebbe  dire malate.

Su Facebook poi Lia gli ha mandato un testo interessante, a Severino, ma lui si è chiesto subito cosa ci potesse capire una bambina di otto anni.

 

“La mente umana è naturalmente portata a dilettarsi dell'uniforme”, intuì Vico; c’è insomma uno svantaggio intrinseco, strutturale, nel vero cambiamento, in quanto chi lo propone deve essere in grado di dimostrarne i meriti senza poterne far fare esperienza: l’avvenire è sempre un’astrazione. Ora, la capacità di pensare astrattamente e dunque di imparare dal passato e di anticipare il futuro è ciò che ci distingue dagli animali; quando tale pensiero invece di esaurirsi in un sentimento irrazionale (negativo come l’angoscia o come il fatalismo o positivo come la speranza) si costringe all’uso della ragione, della logica e dell’analisi e si organizza in un progetto di lunga durata, allora nasce l’ideologia, concetto denigrato dal liberismo comunque travestito proprio per queste sue caratteristiche di persistenza e di rigore.

Non è un caso che il fondatore della politica moderna, Machiavelli, la inventò pensando a un principe nuovo, appena arrivato al potere spodestando chi ce l’aveva da generazioni. Quest’ultimo non aveva (e non ha) bisogno della politica: a far sì che tutto resti come prima basta l’inerzia, dunque il disinteresse per la politica; basta che ciascuno si faccia i fatti suoi, per egoismo, paura o rassegnazione. L’egemonia, una volta raggiunta, non può venire sconfitta e neppure messa in difficoltà dalla denuncia dei suoi abusi e delle sue contraddizioni e menzogne: non sarebbe egemonica se non fosse in grado di persuadere la gente che quegli abusi non sono tali ma anzi provvedimenti necessari, che quelle contraddizioni sono coerenza e quelle menzogne verità. L’egemonia si sconfigge solo aggregando un blocco controegemonico, ossia aggregando e ideologizzando quelle che altrimenti resterebbero inefficaci insoddisfazioni, inespresse frustrazioni, velleitari rancori.

 

                                    Francesco Erspamer

 

Severino ha chiesto a Lia cosa significava quel testo per lei, se lo capiva completamente e dove lo aveva preso. Gli ha risposto che lo aveva rubato a suo padre, diciamo solo preso in prestito.

Gli ha spiegato che lei era già una mezza hacker, forse anche tre quarti o più. Poi gli ha spiegato pazientemente, con gli occhi al cielo, cosa era un hacker. Ma Severino lo sapeva già, ogni tanto le faceva delle domande anche solo per sentire la forbita spiegazione con le sue parole.

Rileggendo quel testo che gli aveva mandato Lia, gli è venuto in mente che il loro blocco controegemonico di un poliziotto in servizio diagonale e tre pensionati non professionisti, anche se c’era un cospicuo ex, gli pareva abbastanza forte. Quello che dovevano fare era contro le regole, le abitudini, le consuetudini, le comuni maniere di pensare, vale a dire l’egemonia, purtroppo.

 

 

 

 

 

 

 

 

IX) DA BOLLO A PANZANO (7)

 

 Figurarsi che Nara, quando non poteva farlo personalmente, mandava anche Catello, uno dei suoi scagnozzi prezzolati, cugino del suo attuale compagno Ginulfo, per seguire e registrare tutto quello che faceva l’ex marito Giangio. Di solito non rimaneva affatto soddisfatta del suo operato, delle relative e prolisse annotazioni, che le evidenziavano aspetti per lei molto meno interessanti ed evitando invece i punti che a lei premevano di più.

 

Se ne sono andati tutti e quattro a Panzano, nel comune di Castelfranco Emilia, dove nella trattoria da Bollo, chiamato così per la sua faccia piatta, ovvero senza eccessivi rilievi. Il Bertocchini aveva riservato una saletta.

Catello ne ha approfittato che non lo conosceva nessuno e si era messo appena aldilà con un registratorino portatile e varie cassette, per fortuna la saletta aveva un acustica buona e da fuori non si sapeva chi parlava, ma le parole si capivano bene assai.

Bice mi ha riferito poi anche quello che il maritozzo le aveva a sua volta relazionato e i fatti combaciavano. La riunione è stata oltremodo interessante, ma pur anche piuttosto complicata.

I particolari della cammuffata morte non violenta di Cosimo Stellato a Castelfranco erano i soliti, manco a dirlo, il quasi dissidente poliziotto Traspedini ha partecipato anche lui alla cena. Soprattutto sullo spezzatino si è fatto valere e ha trangugiato più vino di tutti, ma senza quasi proferir parola.

Hanno cominciato con i tortelloni al sugo, proseguito con secondi misti di Pianura Padana. Alla fine mangiato bene assai e bevuto anche meglio. Bollo in persona, dopo la fatica ai fornelli si è unito al gruppo, per bersi un bicchiere anche lui e commentare, a suo modo, la vita del ristorante e quella del mangiare sano. La moglie, che serviva ai tavoli, non era tanto comunicativa, meglio così.

Olavo pure ha studiato quegli individui e la situazione fino al dessert, partecipando alla facezie, osservando e tacendo alla parte delle cose serie. Con la barba lunga e gli occhietti frizzanti ricordava forse lo stesso Marx e comunque stava zitto, ma a suo modo approvava, sorrideva e sentenziava in silenzio.

“Sei una specie di macellaio, insomma.” Lo ha provocato Mauro Pelosi, dopo una debita sorsata di grappa offerta dalla casa. Qui tutti i cervelli erano pressoché anestetizzati dal vino e ottenebrati dalla digestione relativa alla spanciata di ottimo cibo, meno quello di Olavo Bertocchini.

“Beh, in sintesi sono discipline simili, non squarto i morti però viviseziono i vivi, ma di quest’ultimi solo il cervello e il cuore. Magari è anche più interessante.”

“Quindi pensi che ci sia del marcio in Danimarca?”(evidente quanto fuori luogo riferimento allo Shakespeare di Amleto)

“Sì, qui c’è uno psicopatico a dirigere questo traffico di sangue umano in cambio di soldi. Qualcuno piuttosto malato ma anche intelligente, un selvaggio ma metodico boia.”

“Che vuoi dire?”

“Tu mi conosci. Io non sono uno strizzacervelli classico, ma sappiamo entrambi che il pensiero umano ricorre spesso a delle scorciatoie per arrivare alla soluzione di problemi specifici, senza però liberarsi dalle proprie idee preconcette.

Succede così che, in alcuni soggetti, la mente tende a confondere ciò che è tipico con ciò che è possibile, o probabile, tanto da ritenere statisticamente vero per le piccole serie quello che è quasi vero per le serie molto lunghe e vero soltanto per le serie infinitamente lunghe.”

“Non ci ho capito granché.” Ha detto Giangio e gli altri, tra i ruttini soffocati, hanno approvato.

“Partiamo da più lontano. Non è che noi professionisti del ramo ci sentiamo padroni della verità, ci sorprendiamo spesso a osservare alcuni soggetti più interessanti, eppure sistematici anche loro, alla loro maniera. Nell’attraversare l’ambito della loro routine, nello scorrere turbolento delle loro vite tanto piene di attività frenetica quanto scarse d’idee costruttive, di direzioni, di prospettive vere.

Ciò nonostante potremmo affermare che ci siano delle persone che raggiungono una tale purezza di risultati, sia in quantità che in qualità, che, per forza, devono aver avuto una grande determinazione, continuata decenni, per riuscirci.”

“Qui stavi scherzando, spero!”

“Ovvio, ma abbiamo ragione di credere che ci piacerebbe provare a essere come loro, magari solo per poco tempo, forse per via della loro perseveranza nel far sistematicamente finta che tutto quanto gli sarebbe utile sapere e - magari - di conseguenza fare, semplicemente non esiste, se non nella loro mente.

La loro insistenza nell’errore distratto, sistematico e catastrofico, ha indubbiamente un qualcosa che noi non riusciamo a capire, ovviamente nemmeno a praticare.

Non per questo non l’ammiriamo e aggiungiamo persino che ambiremmo a possederne almeno una dose, ma ci viene anche il sacrosanto dubbio che ce l’abbiamo già in noi, magari ha contaminato, da tempo immemorabile, tutto il nostro essere e proprio per questo non ce ne rendiamo conto.”

“Ora sì che mi hai confuso definitivamente.” Giangio era diventato il portavoce di tutti i presenti, eccetto Mauro che era del mestiere.

“Sì, hai ragione, ora cercherò di essere schematico.

Da un punto di vista un po’ più scientifico, per spiegare la situazione attuale, i tasselli mancanti ci sembrano essenzialmente due:

1)il Bias di Conferma

2)la Tendenza Psicopatica dell’umanità del cosiddetto mondo occidentale.

Il Bias di Conferma è un errore che la nostra mente compie ogni volta che ci giungono dati che confermano, oppure correggano le nostre credenze.

In un caso le informazioni vengono lasciate entrare e conservate, nell’altro, come si suol dire, esse entrano da un orecchio ed escono dall’altro.

La nostra mente prende atto dei dati che riceve in modo selettivo, notando e sopravvalutando le informazioni che confermano le nostre credenze e ignorando o sottovalutando le informazioni che le contraddicono.

Siamo tutti soggetti a tale fenomeno, ma alcuni di noi lo sono in misura maggiore di altri, e possono giungere, occasionalmente o sistematicamente, a negare addirittura l’evidenza.

Ci piaccia o no, il modo in cui è strutturata la nostra mente è quello che è, per cambiarla bisognerebbe prima capirla e ci si sta provando da sempre.

La nostra mente burlona è pronta a tutto pur di proteggersi da interpretazioni della realtà che essa non è pronta ad affrontare, conservando anche contro ogni logica una visione familiare e rassicurante delle cose.

La mente umana arriva sistematicamente alle conclusioni alle quali le conviene giungere, delle altre se ne frega o le rifiuta con tutta la sua forza.

Proprio per controbilanciare questa tendenza cognitiva umana, il metodo scientifico richiede che noi cerchiamo di provare la falsità delle nostre ipotesi, ma questo è ovviamente troppo faticoso e ci vuole del tempo che noi non abbiamo più, anzi, ne abbiamo sempre meno.

Prova a guardare due persone che discutono, quante persone hai conosciuto che cercano veramente di capire la verità?

Questo biotipo di umano è rarissimo, tutti gli altri cercano solo di dimostrare di aver ragione e ancor di più che l’antagonista abbia decisamente torto, in maniera anche aggressiva.

Il Bias di Conferma cambia la nostra idea d’intelligenza umana, per cui vediamo con chiarezza che troppa gente è sprovveduta, non possiamo fare a meno di notare che più sono coglioni e più si credono brillanti.

Certo che la maggior parte di loro crede di star facendo qualcosa di buono, alcuni anche meraviglioso o stupendo, almeno per sé stessi, ma in realtà fanno principalmente del male agli altri e indirettamente, magari più a lungo termine, pure a sé stessi.

Poi, alla fine, non ne ricavano nemmeno il vantaggio che desideravano, ma non per questo ne traggono insegnamento, per un eventuale futuro anche prossimo: no, insistono e raddoppiano la dose.

Vantaggio, questo, che se a volte ce lo hanno anche avuto, almeno all’inizio, è evidente che poi la situazione gli è scappata di mano e dopo si sono dimenticati anche di quello che stavano facendo, ma continuando a farlo, ancora ed ancora.

I politici hanno fatto del Bias di Conferma una maniera di vivere, è diventata la loro routine: negano sistematicamente ogni evidenza a disposizione; si sa già che faranno proprio quello che, indignati, giurano e spergiurano che mai farebbero per niente al mondo; sulla testa dei propri figli negano di aver detto quello che hanno appena finito di dire.

Sono forse essi dei bugiardi, malintenzionati e basta?

No, non tutti, non completamente, almeno, molti credono di dire se non la più pura verità, di agire per il bene della gente, dei loro elettori, dell’Umanità intera, in alcuni casi.

Ci risulta che l’Organizzazione Mondiale del Commercio, le multinazionali e le banche siano fatti anche loro di persone, cioè di terrestri simili in tutto e per tutto a noi.

Eppure non sembra, da come si comportano, pare che vivano in un altro pianeta, o forse in un’altra dimensione.

Dove vivranno i loro figli?

Che tipo di futuro si stanno scavando con le loro stesse mani?

Oltre a questo, quotidianamente, leggiamo sui giornali e riviste, vediamo nei telegiornali, episodi che non sono più eccezioni, diventano sempre di più la regola.

Omicidi crudeli, assassini in serie, terroristi, pedofili, maltrattamenti ai bambini, torturatori di donne, leader religiosi senza scrupoli, imbroglioni e professionisti sleali...”

“Non l’hai presa un po’ troppo larga?” Stavolta ha chiesto Mauro.

“Sì, ma era necessario per arrivare ai nodi essenziali, ci vuole un po’ di preparazione, ma aspettate che ci arrivo velocemente.

Dunque: tutti questi problemi si sono aggravati, in modo straordinario, per causa dell’azione di psicopatici e di persone che adottano modi psicopatici di convivere con le altre.

Se questo succede è perché la nostra società ha fondamento in valori e pratiche che, come minimo, favoriscono maniere psicopatiche di essere e di vivere.

In qualche modo stiamo contribuendo a promuovere una cultura nella quale la psicopatia trova un campo assai fertile per poter crescere.

L’ideologia sulla quale si basa la cultura dei nostri tempi ha tre principi fondamentali:

1)individualismo

2)relativismo

3)strumentalismo

Senza entrare troppo nell’ambito della filosofia, i tre principi possono considerati in questa maniera:

1)L’individualismo predica la ricerca del miglior tipo di vita di cui poter usufruire. S’intende il miglior tipo di vita quello che include l’auto-sviluppo, la auto-realizzazione e l’auto-soddisfazione. In sostanza: gli altri che si fottano. In questo ordine di idee l’individuo ha l’obbligo morale di procurarsi la sua felicità a svantaggio di qualsiasi altro obbligo con gli altri.

2)Secondo il relativismo tutte le scelte sono ugualmente importanti, poiché non esiste un modello di valore obbiettivo che ci permetta di stabilire una qualsiasi gerarchia delle maniere di comportarsi. Così qualunque azione che porta l’individuo a raggiungere auto-soddisfazione è valida e non può essere questionata.

La dottrina dei relativisti è molto seducente: non esistono verità, ogni ideale si equivale, ognuno ha il diritto di seguirlo senza alcun vincolo.

La tesi per cui unica bussola dell'agire umano dovrebbe essere fa' ciò che desideri, senza nessuna riflessione seria sul bene oggettivo della persona, né del suo immediato prossimo, è una tesi che sembra salvaguardare la libertà individuale, ma agisce anche e soprattutto al contrario, perché invade la sfera personale altrui, balla allegramente la rumba sui piedi del suo prossimo.”

3)Lo strumentalismo afferma che il valore di qualsiasi cosa fuori da noi è solo un valore strumentale, ossia il valore delle persone e delle cose si riassume in quello che loro possono fare per noi.

L’espansione della cultura moderna, piena di tratti psicopatici, ha modificato in maniera drastica le nostre relazioni familiari e sociali.

Stiamo perdendo il senso di responsabilità comune nel campo sociale e di vincolo significativo nelle relazioni interpersonali. L’aumento implacabile della violenza è una risposta logica e prevedibile a tutta questa situazione.”

 “D’accordo. Ma cosa ha a che fare quello che dici con il nostro caso?”

“Beh, è presto detto: direi che qui dietro c’è uno psicopatico che agisce in maniera sistematica.”

“Dici?”

“Di sicuro. Considerate: ci sono 69 milioni di psicopatici nel mondo, l’1% della popolazione mondiale, 20% della gente che è in prigione, 86,5% dei serial killer.”

“Sì?”

“Sì. È 4 volte più comune trovare psicopatici nelle imprese che nella popolazione in generale.

Lo psicopatico non ha sentimenti, ma sa riconoscere, interpretare e poi usare, meravigliosamente bene, i sentimenti degli altri. Mostra ammirazione per il talento e per i punti forti della vittima. Vuole essere visto come l’unico che veramente nota il suo potenziale nascosto. Identifica perfettamente le caratteristiche della personalità della vittima e finge di condividere gusti ed interessi. La vittima, pensando di aver trovato finalmente un amico, gli confida i suoi segreti più intimi, apre il suo cuore rivelando paure e speranze. Ultimo stadio della manipolazione, lo psicopatico crea un anello di congiunzione psicologico che promette una relazione stabile. È superficiale, non gli importa dei contenuti, ma solo di come potrebbe venderli. È narcisista: si preoccupa solo di sé stesso. È manipolatore: mente e usa le persone per riuscire ad ottenere quello che vuole. È freddo, è razionale e calcolatore, perché ha poca attività nel sistema limbico, centro di emozioni come paura, tristezza, disgusto. Senza rimorso: non sente colpa. La parte del cervello responsabile ha bassa attività. Senza empatia: non riesce a mettersi nei panni degli altri. Irresponsabile: si impegna solo in ciò che gli può portare benefici. Impulsivo: tenta di soddisfare le sue necessità al momento. Incapace di pianificare: non stabilisce mai una meta a lungo termine. Imprudente: corre rischi e prende decisioni audaci.

Ma psicopatici si nasce o si diventa? Non si sa con precisione, però tutto il mondo occidentale, spinto dalla voglia di risultati, dall’assurdità di voler sempre crescere in spazi e tempi limitati, si sta comportando alla stessa maniera, solo che non se ne accorge. Insomma: magari nessuno nasce cattivo, ma è la famiglia o la sua mancanza, la società, quindi la vita stessa, così come è diventata, che ti porta a delle distorsioni del tuo carattere che a volte sono da te conosciute e persino bene, ma alle quali non puoi sfuggire.”

“Prova a sintetizzare un po’.”

“Ci provo... ecco: magari mi dirai che è sempre stato così, invece no, una volta i ruoli erano ben definiti.”

“In che senso?”

“L’eterna lotta del bene contro il male nell’epoca moderna è così confusa che tutti o quasi si danno la zappa sui piedi. La circonvenzione d’incapace è una routine fatta spesso alla luce del sole, gli imbecilli sono quelli che governano, quelli che hanno i posti di estrema responsabilità. La società è un sistema mafioso a largo raggio che si nasconde dietro il politicamente corretto e si ciba di apparenza, denaro e potere.”

“E quindi?”

“In un sistema del genere la delinquenza organizzata, come quella di uno psicopatico intelligente, prospera facilmente, viene quasi legittimata dalla mancanza di attenzione delle persone che contano per le cose veramente importanti.”

“Ecco, ora ci sono, mi pare. Bisognerà spiegarglielo a Severino però.”

“Ci pensi te?”

“Io?”

“Ho paura che io gli confonderei le idee.”

“Va bene, glielo dirò appena posso, ma aiutami a fare un Bignami scritto di tutto quello che hai detto.”

Qui la faccia di Severino me la sono persa, ma la risata generale che ne è seguita ce l’ha descritta assai fedelmente. Pare che a questo punto Traspedini sia stato svegliato bruscamente, giacché ha smesso di russare e ha fatto un rutto neanche tanto sommesso. Oltre a questo sembra che successivamente in macchina, sull’autostrada, dopo alcune scorregge, l’ex carabiniere si sia sfogato così:

“Un lungo viaggio a vuoto abbiamo fatto! I tordelli erano buoni e il vino andava giù bene assai, ma io non li sopporto gli intellettuali, l’amico tuo Bertocchini è simpatico e tutto, ma questi qua hanno la pretesa di risolvere con la teoria le cose che invece nella pratica sono completamente differenti dai loro cazzi di ragionamenti!” Gli altri hanno riso e lui si è infuriato anche con loro e non ha parlato più fino a casa. Hanno provato a rincuorarlo con un vasto repertorio di canzoni oscene, ma niente da fare. Mauro ha provato a difendere le teorie di Olavo, ma ormai la serata aveva degenerato ed era diventata notte fonda.

La registrazione di Catello stavolta era quasi buona, ogni tanto si soffiava il naso e perdevo delle parole, a volte delle frasi intere, ma pazienza, non si può estrarre sangue dalle rape e viceversa.

Ma che cos’era un Bignami? Anche Bice non se lo ricordava.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

X) T’AMO PIO BOVE (11)

 

"La mitezza consiste "nel lasciar essere l'altro quello che è". È il contrario della protervia e della prepotenza. Il mite non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere, e alla fine di vincere. Ma la mitezza non è remissività: mentre il remissivo rinuncia alla lotta per debolezza, per paura, per rassegnazione, il mite invece rifiuta la distruttiva gara della vita per un profondo distacco dai beni che accendono la cupidigia dei più, per mancanza di quella vanagloria che spinge gli uomini nella guerra di tutti contro tutti. Il mite non serba rancore, non è vendicativo, non ha astio verso chicchessia. Attraversa il fuoco senza bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilità. Ecco quel "potere su di sé" di cui abbiamo già sentito.

Il mite può essere configurato come l'anticipatore di un mondo migliore. Egli non pretende alcuna reciprocità: la mitezza è una disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrisposta per rivelarsi in tutta la sua portata. Amo le persone miti, perché sono quelle che rendono più abitabile questa “aiuola”, tanto da farmi pensare che la città ideale non sia quella fantastica e descritta sin nei più minuti particolari dagli utopisti, dove regna una giustizia tanto rigida e severa da diventare insopportabile, ma quella in cui la gentilezza dei costumi sia diventata una pratica universale."

Norberto Bobbio, Elogio della mitezza, 1994

Ecco: se Giangio è un mite, come io credo, ebbene sì: io sono l’esatto contrario.

Con Ginulfo non posso discutere di queste cose, i suoi interessi sono altri, cioè non ne ha. Per parlare di Giangio e il suo meraviglioso mondo interattivo, di solito lo faccio con Bice, la maggior parte delle volte per telefono. Ma lei è già assai impegnata a cercare capire gli sviluppi della meccanica mentale di suo marito Severino e lascia subito cadere ogni discussione sull’argomento.

Ne parlo allora con me stessa, cioè io e il computer, oppure io e l’internet, le risposte spesso sono immediate e forse sono anche troppe, ma basta sfoltire.

Poi in terapia lo psichiatra di turno, eventualmente neuro, mi dà neutre risposte zuccherate e anche troppo articolate. Quando poi si dilungano in spiegazioni più complesse che semplificano come se fossi una bambina, mi viene voglia di strozzarli, ma naturalmente non lo faccio.

Riassumendo, per capire ho capito, ma non mi sembra giusto, lui così e io in una maniera quasi diametralmente opposta. Mi ribello a tutta questa razionale realtà, lo so che è inutile, ma almeno mi sfogo con qualche bestemmione.

Dicono che tra le altre cose io abbia una lieve e atipica sindrome di Tourette, le parolacce più che dirle le penso però, ma le penso gridate e anche ad alto volume.

Quando mio marito voleva fare il simpatico mi chiamava più volte Nararana e alternativamente poi anche Rananara, io lo mandavo affanculo e questa scena si è ripetuta sistematicamente durante gli anni pressoché identica.

Severino quando era arrabbiato o voleva essere ironico, chiamava sua moglie con nome e cognome, sapendo che lei ne rimaneva offesa. Se la frase cominciava con il solito Bice Berenici, lei sapeva già cosa aspettarsi. Quando era veramente irritato, a volte, metteva perfino prima il cognome, ma l’impercettibile variazione veniva ignorata di proposito.

La colpa era anche dei genitori di lei, con un cognome del genere, quel nome sarebbe stato da evitarsi accuratamente. Per non parlare dei miei, gente che tranquillamente condanna i figli a essere presi in giro vita natural durante.

Quando Severino era di malumore, sua moglie non sempre riusciva a cambiarglielo, talvolta succedeva anche che glielo peggiorasse. Bice con lui aveva migliorato più volte i suoi metodi, ultimamente l’accorgimento che lei adottava era d’ignorarlo a oltranza. Secondo il suo raziocinio, poi lui si incuriosiva ed era tratto fuori dalla sua stessa trappola, dall’irresistibile voglia di polemizzare con lei. Insomma usciva dalla sua abulia di piombo, con un trucco che però non sempre funzionava e a volte s’incazzava di brutto con il mondaccio infame, in quel momento degnamente rappresentato da sua moglie.

Giangio invece partiva dallo stesso ragionamento di Bice, ma era molto più sottile e sapeva provocarlo in maniera più efficace. Lei senza rendersi conto finiva per polemizzare veramente con suo marito, considerando stancante e assurdo tutto quello spreco di energie, mentre lui no, Giangio lo faceva a puro scopo terapeutico e il suo segreto era che ci si divertiva anche. Soprattutto si sentiva incentivato e stimolato, poi gratificato quando il baffuto bambinone tornava a sorridere, dopo essere finalmente uscito, per merito suo, da quel banco fitto di nebbia oscura. Si volevano veramente bene quei due.

Severino in più era curioso anche a livello antropologico-poliziottesco, sebbene non lo volesse sembrare e il Pelosi, oltre indubbiamente a esserlo, lo sembrava anche. Ecco perché il caso in questione, per quanto estraneo al suo mondo precedente, gli era familiare, perché era ovviamente anche uno studio psicologico oltre che sociologico degli esseri umani.

Marchigno passava meno tempo con loro, per via del lavoro, mentre i tre moschettieri restanti erano precipitati in una pensione senza fondo.

Insomma portavano avanti le indagini passando ore gradevoli, evitando quello stagnare della routine del pensionato, che dopo una vita di attività diventa noiosa oltre che qualche volta anche perniciosa, per le relative menti.

Il dialogo era costante e anche brillante, tra i quattro, che a volte erano tre, e spesso solo due, se ad ascoltarlo non ci fossi stata anch’io, una giammai capace di giovarsene. Perlomeno senza accorgersi in tempo utile dell’originalità anche interessante e istruttiva di quella situazione. Volentieri quanto spesso però la conversazione andava fuori dal seminato.

Marchigno si chiamava così perché aveva vissuto in Brasile e sposato una bellezza di nicchia, secondo le sue stesse parole, a Campo Bom, nel Rio Grande do Sul. Marquinho si sarebbe dovuto scrivere così, ma a sua moglie non importava niente e ai brasiliani figurarsi, anche meno.

Mentre facevano sopralluoghi clandestini, i normali tempi morti li rendevano vivi sgranocchiando magari una focaccia con fontina e speck alla Bicocca, un bicchiere di vino bianco o due. Qualche volta tre, raramente quattro.

“Caro Severino, la vita non manca mai di stupirci, anche se non sempre in maniera positiva, guarda noi tre riuniti qua dopo un secolo che non ci si vedeva, non si sapeva nemmeno se eravamo vivi o morti.” Ha detto Mauro un giorno.

“A proposito: ma come vi siete ritrovati voi due?” Ha chiesto Severino quasi sorridendo.

“Inutile dire che le mascherine non aiutano, in questo caso, ma tutti gli anni andati poi trasformano anche le facce…” Si è intromesso Giangio.

“Prova a immaginartelo. Se una fisionomia familiare, anche se un po’ incartapecorita, entra in una farmacia e ordina qualcosa, mentre tu fai la fila fuori al freddo e al gelo, poi si mette a parlare con tutti gli altri, se non lo riconosci subito, alla fine poi ti viene almeno un dubbio e chiedi…” Ha spiegato Mauro gesticolando.

“Anche l’alzheimer è così: non riconosci più i tuoi familiari, ma hanno tutti qualcosa di... familiare appunto, per cui alla fine è quasi lo stesso.” Ha dichiarato poi Giangio, più o meno inutilmente.

“Ah, vi siete trovati in farmacia a Cutigliano?” Ha domandato Severino, puntualmente ignorando la storia dell’alzheimer, che non era proprio una roba da scherzarci su.

“No, a S.Marcello.” Ha replicato Giangio.

“Conosci tutti anche a S.Marcello?” Gli ha chiesto poi Severino.

“No, ma comunico volentieri e abitualmente con quelli che mi stanno attorno, è interessante e si passa il tempo in maniera piacevole. Dovresti provare anche te, qualche volta.”

“Giangio si metterebbe a parlare anche con le pecore al pascolo, se non gli rispondono pazienza, ma non vede proprio perché ci dovrebbe rinunciare.” Ha commentato Severino e tutti hanno riso.

“Beh... a vivere da soli si diventa molto più socievoli, una volta non ero così.” Si è giustificato.

“Non è vero, sei sempre stato così, magari non te lo ricordi, direi anche che sei peggiorato negli ultimi anni.” Ha dichiarato Severino.

“Da quando Nara mi ha lasciato. Magari. Può essere.”

“È normale, inutile chiedere se ti manca ancora, ma per un tipo solitario e schivo come Severino certo sarebbe stato molto peggio.” Ha detto Mauro.

“Nara non è che mi manchi, se è per quello, forse ero anche innamorato, era una donna piena di virtù, e mi ha lasciato lei, ma era anche una mezza matta, alla lunga l’ho capito che è stato meglio così.

Forse, approssimativamente.

Quanto a Severino, anche a lui piace parlare, solo che parla molto di più con sé stesso, un po’ come la mia ex. E al confronto le pecore al pascolo non gli sembrano interessanti a livello di dialogo, invece secondo me si sbaglia.”

“Che vorresti dire?”

“Che mia moglie era come un vulcano spento ma sotto c’era un’attività frenetica, a prima vista non si notava. L’ho capito solo dopo, viveva la sua vita in un rapporto ansioso che faceva anche paura, ma non lo diceva a nessuno, anzi cercava di nasconderlo perfino a sé stessa.”

“Eh sì, la nostra storia personale, ci cambia inevitabilmente, cari miei.” Ha aggiunto Mauro pensieroso.

“E poi te di alzheimer che diavolo ne sai?” Ha chiesto subito dopo.

“Ho ha avuto le mie brave e significative esperienze, capirai, un po’ come tutti al giorno d’oggi.”

“Eh sì, la malattia è sempre più diffusa…” Ha commentato tristemente Severino.

“Non mi dirai che è stato con tua moglie!?” Si è preoccupato Mauro.

“Nooo, lei c’ha altre magagne, questa le manca.

No, no, solo amici e amiche, amici di amici e amiche, genitori di amici, conoscenti e genitori di conoscenti, estranei ma conoscenti di amici, genitori di estranei ma conoscenti di conoscenti...”

“Vabbè, la vogliamo tagliare ‘sta lista? Il concetto l’abbiamo già recepito e immagazzinato.” Ha interrotto Severino con un sospiro di rassegnazione.

“Ma te dove abiti?” Ha chiesto poi l’ex capitano, nel silenzio seguitone, al dottore in pensione.

“Abitare è un verbo troppo definitivo ed esteso da me a tre appartamentini minuscoli, in luoghi tatticamente differenti, ma pieni di comodità e piccoli ricordi, legno alle pareti, panche, accessori romantici e di atmosfere montanare anche in pianura e alla spiaggia, tutt’al più qualche quadro di velieri, una stella marina e una conchigliona esotica di simil-gesso come soprammobili…”

“Certamente il legno in questione può ricordare anche l’interno di un galeone, basta dargli qualche tocco di ricordi di film, come L’Ammutinamento del Bounty eccetera…”

“Infatti.”

“Ma te sei nato da queste parti, se non mi sbaglio…”

“E certo, Fagiolino del ristorante è mio zio.”

“Madonna mia. È vero, me ne ero dimenticato.”

“Mauro, te non ti sei mai sposato, è vero?”

“No, mi sono anche poco fidanzato, se è per quello.”

“E come mai?”

“Non mi sono mai eccessivamente accompagnato, forse ho sempre amato troppo la solitudine, la libertà. Che ne so? Comunque quando mi sono reso conto che ero quasi un vecchietto e ne avrei avuto un sano bisogno, voglio dire di una compagna come la tua Bice ancora arzilla e piena di interessi, oltre che di appoggio amorevole…”

“Dicevi che quando ti sei reso conto, Mauro…”

“Beh, sì, quando me ne sono reso conto era troppo tardi, non molto tempo fa, ho addirittura partecipato a una specie di comunità per cuori solitari, lì mi sono reso conto che la mia pazienza era meno di un tempo fa, coll’età quella diminuisce, talvolta, che le donne mi sembravano tutte irrimediabilmente zitelle isteriche…”

…e anche tu eri un po’ troppo rinsecchito per pensare a certe cose…”

“Sì. Andavo per esclusione ed escludevo, escludevo e basta, non includevo mai. Io non piacevo a loro, ma ancora di più non trovavo nessuna che rispondesse positivamente ai miei criteri, ammesso e supposto che ne avessi di ben precisi…”

“A proposito di supposte, la salute come ti va?” Ha chiesto Giangio.

“Abbastanza bene, questo vetusto ed esile corpicello di una quasi quintalata non ha dato segni di gastriti, prostate, ipertensioni e neppure di Alzheimer, almeno per ora.”

“A volte essere un medico aiuta.”

“Non sempre, l’uomo è portato a ingannare sé stesso, non è che se uno è medico faccia una debita eccezione alla regola.”

“Il medico è uno che beve e fuma più di te, ma ti dice di smettere, anche se lui non solo non è capace, magari pensa perfino di essere superiore a queste bischerate.” Ha detto Giangio.

“Ma prima, da giovane, i tuoi gusti com’erano?” Ha domandato Severino.

“Beh, sono stato sempre difficilotto, lo ammetto, ma con l’età, se possibile, sono peggiorato.”

“In che senso?” Gli hanno chiesto in coro.

“Per esempio a quarant’anni le mie coetanee mi sembravano già delle vecchie, figuramoci ora…”

“Ah! Allora ti piacciono le giovincelle…”

“Sì e no.”

“Come sarebbe?”

“Mi piacciono fisicamente, ma poi quando parlano mi viene voglia di scappare.”

“Ma anche gli uomini a quell’età sono così.”

“Lo so, ma gli uomini non mi garbano nemmeno fisicamente.”

“In effetti...”

“E con le donne non hai avuto mai delle storie importanti?”

“Certo, con due almeno mi sarei potuto e dovuto fermare, magari, ma quando me ne sono accorto erano già sposate e con i figli grandi.”

“Ti sei pentito?”

“Sì, ma l’uomo quando è forte fisicamente ha il cervello piuttosto infantile, specialmente qua in Italia, molto tempo dopo avrebbe anche esperienza e capacità, ma si trova debole a livello di forza fisica, di conseguenza anche morale e non ce la fa a farcela.”

“Eh sì, quando si capiscono le cose spesso è perché è troppo tardi.” Ha dichiarato malinconico Severino.

“Il senno di poi non è mai stato retroattivo.” Ci ha infilato di mezzo Giangio.

“Ma in fondo così come sei non stai mica male…” Ha aggiunto il canuto corpulento.

“No, visto quanto ho conosciuto e attraversato, sono contento, mi sento piuttosto fortunato.”

Magari anche Mauro alludeva alle donne come me, quelle che complicano la vita a tutti, ma non lo fanno per sport. Non riescono proprio a rilassarsi, a stare bene, a godersi quello che hanno e a non pensare a quello che non hanno. Vogliamo sempre di più e non sappiamo più nemmeno cosa farci, per esempio con i soldi. Siamo schiave e non sappiamo neanche di cosa. O anche se e quando lo sappiamo, non possiamo più farci niente.

Chi ci ha perso di più sono io stessa, non ho solo perso l’unica sicurezza che avevo, ho anche visto che era falsa, è difficile sentirsi bene, dopo. D’accordo, nemmeno prima stavo bene, vero è anche che Giangio l’ho lasciato io. Lo ammetto: è stato tutto per colpa mia. Ma non ho colpa di come sono fatta io.

Ne sono colpevole o no?

Forse è per questo che lo spio da anni, per capire come fa, per imparare a fare anch’io come lui, almeno un po’ del suo tipo di vita spensierata, ma il professor Doroteo Scapecchi purtroppo mi ha detto che non funziona così.

Che bella scoperta, con tutti i soldi che gli ho sganciato, mi sarei aspettata qualcosa di meglio...



XI) BIGNAMI (3)

 

Mi ero dimenticata, ma sapevo di non ignorarlo. Appena gliel’ho chiesto a Catello è partito a razzo. Cugino di Ginulfo, si tratta di un acculturato del cacchio, uno che ha studiato, sì, ma non capisce niente di un’unica cosa, che gli piacerebbe tanto, ma non gli riesce. La vita del mondo, attorno a lui, gli è sconosciuta, non sa proprio come vivere fuori dal computer e lontano dai libri.

“Haha! Chi non ha mai preparato un esame usando, di nascosto, un libriccino grigio, contenente un sintetico riassunto del professor Bignami?

Ernesto Adamo Bignami nacque a Milano proprio nel 1903, il 24 febbraio. All’inizio un ragazzo e uno studente, che a volte abitano scomodamente lo stesso corpo e mente, non sanno proprio cosa fare della propria vita, si buttano nelle cose difficili, forse pensando che pochi saranno in grado di capirle e perciò meno ancora di criticarle. Non sanno ancora che per criticare non solo non c’è bisogno di comprendere, ma addirittura è auspicabile e assai più pratico.

 

(Da che fottuto pulpito viene 'sta predica?)

 

Nel 1925 si laureò in Lettere all'Università di Milano con la tesi La catarsi tragica in Aristotele; successivamente, nel 1927 si laureò in Filosofia presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore con la tesi Il concetto antiestetico e antispirituale dell'arte presso gli antichi e la posizione mediatrice della Poetica di Aristotele.

Questo è importante, per quello che succederà subito dopo, per una specie di contrappasso quasi infernale e dantesco se me lo concedi.”

“Basta che ti sbrighi.” Ma forse non ero abbastanza  minacciosa, perché ha continuato come se niente fosse.

Questi studi sfociarono nella pubblicazione del saggio La Poetica di Aristotele e il concetto dell'arte presso gli antichi (1932), premiato in un concorso indetto dal Ministero della Pubblica Istruzione e dall'Accademia dei Lincei.

Chi lo sa? Magari è stato proprio nelle lunghe notti passate a studiare, mentre i suoi amici si divertivano, che il bisogno di dire in poche parole quello che invece era sempre stato espresso in centinaia di pagine, è diventato un pensiero costantemente presente nella mente del giovane.

Chi erano quegli emeriti coglioni che si dilettavano nell’ostacolare la corsa al progresso per proteggere il loro sapere stantio e rigido?

Certo che la formidabile complessità di certi testi ha spinto lentamente e progressivamente il nostro eroe a convincersi, in maniera sempre più granitica, di dover personalmente porvi un drastico ma assolutamente necessario rimedio.

Ernesto Bignami insegnò al liceo dei Barnabiti a Milano e poi, come ordinario, nel liceo classico di Voghera e al Parini di Milano.

Si era evidentemente rotto le scatole di insegnare quelle cose a quella maniera. Urgeva un metodo alternativo per distruggerle e riformarle, non troppo lateralmente, di guadagnarsi la vita in una maniera diversa e magari migliore.

Interessi pedagogici e didattici lo spinsero a riflettere sul modo di condensare in forma semplice, sistematica e mnemonica il contenuto delle varie discipline.

Si era già reso conto che agli allievi, in quello stadio della loro vita, di quelle cose, non gliene fregava niente.

E non poteva essere diversamente.

Nacquero così nel 1931 i bignamini pubblicati dalla casa editrice fondata da Bignami stesso: libretti tascabili in brochure, contenenti le nozioni base di ogni materia delineate secondo i programmi ministeriali, pensati soprattutto per il ripasso finale in vista degli esami di maturità.”

“Taglia corto che non ho tempo.” Ho intimato, ma con poca convinzione, ero curiosa di sapere dove voleva arrivare, forse. Non riuscivo a interromperlo. Lo guardavo affascinata e terrorizzata allo stesso tempo e lui se ne accorgeva, insomma se ne approfittava, di solito tutto questo spazio non glielo davo.

“Subito!

Proprio nel 1931 MUSIL pubblica L’uomo senza qualità, anche chiamato l'enciclopedia della incertezza umana. Un quadro spirituale e intellettuale di un'epoca che attrae il lettore col fascino della sua complessa problematicità della vita.

A New York è portato a termine e si inaugura il più alto edificio del mondo, è l'Empire State Building, che per decenni rimarrà l'incontrastata più alta costruzione mai realizzata dall'uomo.

CHARLIE CHAPLIN (CHARLOT) ottiene un clamoroso successo con il suo film Luci della città, il patetico amore di un vagabondo, che cerca di procurarsi denaro per guarire la sua giovane fioraia cieca. Una analisi pungente sulle apparenze e i tabù della vita sociale.

Dopo le perdite di certezze nella fisica con HEISENBERGER, fa perdere certezza alla matematica GODEL, dimostra l'impossibilità di costruire un sistema matematico in grado di offrire una certezza globale. E arriva al paradosso "la matematica è vera soltanto se è considerata incompleta".

GUGLIELMO MARCONI compie i suoi primi esperimenti con le onde radio cortissime aprendo la via alle realizzazioni successive; le microonde, i radar ecc.

JANSKY utilizzando le stesse onde, scopre con un rudimentale radiotelescopio, che dal centro della nostra galassia provengono onde radio.

PAULI enuncia l'ipotesi dell'esistenza del neutrino dotato di carica nulla e di massa nulla. Enrico Fermi nel 1933, proseguendo gli esperimenti elabora la prima teoria dell'interazione debole, dove compare questa particella che è lui a chiamare neutrino. Questa invece, segna la nascita della teoria sulla forza nucleare debole; una delle quattro forze fondamentali della natura,

Da JAMES CHADWICK altra sensazionale scoperta, il neutrone, la particella di massa simile al protone ma senza carica elettrica.

Dimostra quindi così l'esistenza della particella neutra nel nucleo atomico, ipotizzata già da RUTHERFORD e da BOHR per far quadrare la teoria dell'atomo.

I coniugi CURIE l'avevano già prodotta in un esperimento, ma non se ne erano accorti anche se riportarono alcuni dati che poi divennero noti. Tanto che MAJORANA disse: "cretini, ce l'avevano lì sotto il naso e non se ne sono accorti!".

Ecco che come nel 1903, anche nel 1931 si coglie un gran movimento e vento di cambiamenti, la solita incertezza.

Questo senso di incompletezza, che stanca e disturba da sempre l’essere umano, non ci abbandona proprio mai, ma è forse uno dei motori che spingono a trovare nuove soluzioni ai nuovi problemi, eventualmente anche ai problemi vecchi, quelli di sempre.

Per questo e per altri motivi contingenti Bignami sente la necessità di smettere e di far smettere di perdere tempo agli italiani.

Andiamo al sodo, per favore! Sembra che ci inciti dai suoi volumetti, lasciamo perdere le maschere e curiamoci finalmente del contenuto.

Gli anni di nascita e di fondazione della casa editrice Bignami, mostrano caratteristiche comuni a tutti gli anni messi in terra, da Dio o chi per Lui.

Ernesto Bignami morì il 29 luglio 1958.

La Casa Editrice Prof. Ernesto Bignami, oggi Edizioni Bignami, nasce a Milano nel 1931, ad opera di Ernesto Bignami che in quell’anno pubblica il primo volume L'Esame di Italiano, che viene subito accolto molto bene dagli studenti.

Che sollievo per i poveri ragazzi condannati a studiare meccanicamente delle robe lunghe, noiose e incomprensibili!

A questo titolo se ne aggiungono ben presto altri, quali L’Esame di Latino, L’Esame di Storia, ecc.

In pochi anni nell’elenco dei titoli pubblicati compaiono tutte le discipline letterarie: il librettino di sintesi conosciuto come "bignamino" è ormai molto noto nell’ambiente studentesco.

La scomparsa del fondatore nel 1958 non arresta il lavoro della Casa Editrice che continua sotto la guida di Lorenzo Bignami, fratello di Ernesto, al quale va riconosciuto il merito di avere ampliato il catalogo aggiungendo ad esso titoli relativi a materie scientifiche: infatti sono pubblicati in questo periodo i volumi relativi alle Scienze, alla Chimica, alla Fisica, alla Matematica, alla Geometria, all’Estimo, alla Merceologia e a Scienze delle Finanze.

Si capisce da questo che, anche se forse non completamente ispirato, il nostro Ernesto si è dato da fare, all’inizio della sua carriera di letterato, con dei mattoni indigesti di consistenza non indifferente.

L’obiettivo che si vuole raggiungere, sia nella realizzazione dei nuovi testi sia nell’aggiornamento di quelli già esistenti, è quello di attuare una "sintesi" della materia, senza mai sacrificare né la profondità dell’indagine né il rigore metodologico, e senza mai mortificare la cultura.

La Casa Editrice Bignami si pone infatti dalla parte dello studente il quale necessita di un’esposizione della materia che lo aiuti a comprendere e a memorizzare facilmente, quindi semplice e chiara ma allo stesso tempo completa.

Il catalogo oggi comprende più di 250 titoli.

A questi titoli se ne aggiungeranno presto altri sempre ispirati alla necessità di chiarezza e di "sintesi" che primo fra tutti sentì il Prof. Ernesto Bignami.

Insomma la nuova materia, che consiste nella sintesi di quella vecchia, è una materia che rende, ci si può guadagnare e in più si fa del bene all’Italia.

Che cosa c’è di più intelligente che un libriccino grigio che snellisce la burocrazia per i cervelli intasati, rende contenti quasi tutti, e che in più dà da vivere in soldi contanti?

Si è detto quasi tutti giacché si sono riscontrati spesso quanto malvolentieri casi di gente dotta che, orgogliosa del proprio sapere, non ha mai voluto trasmettere veramente la conoscenza, che tanto o magari troppo gli era costata.

Che se l’andassero a scavare da soli!

Spesso i cosiddetti intellettuali hanno ostacolato come potevano gli eventuali curiosi ignoranti, che veramente volessero smettere di esserlo, che cercavano affannosamente di capire.

Lo hanno fatto con paroloni difficili, giri di frasi a spirale, sensi del discorso che, invece di avvolgere, loro srotolavano.

Insomma tutte cose che a loro venivano naturali, visto che il loro scopo era il contrario di quello che sembrava, di quello che dichiaravano essi stessi.

Non che sempre lo facessero apposta, sono fatti così, questi intellettuali.

Bignami invece e per fortuna è stato un grande intellettuale alla rovescia, per noi un predecessore, un pioniere.

Uno che finalmente e sorprendentemente, ha tagliato quelle robe complicate e perciò inutili e dannose al progresso e le ha buttate nel cestino che meritavano.

Ultimamente, per via della situazione economica e politica italiana, Ernesto Bignami si sta agitando nella sua grande ma pur stretta tomba.

A volte gli pare addirittura che la sua massiccia opera di bonifica sia stata del tutto inutile.

 Lui stesso, però, ci ha insegnato che la storia non è mai completa, chi lo sa, magari va a ondate, quello che oggi ci pare assurdo, ha il suo motivo di esistere, non sta succedendo per caso.”

“Che palle Catello! Quindi nel vostro gergo, di gente che ha studiato, voglio dire, cosa significa fammi un Bignami?”

“Più o meno significa: fammi un riassunto sintetico.”

“Grazie assai Catello, se mi proponevi un bignami anche a me, voglio dire di una frase o due, magari sarebbe stato sufficiente, ma so che è una cosa che a te non posso chiedere.”

“Effettivamente…”

Catello s’impara i libri a memoria e non è capace di cucinarsi un uovo fritto, di mettersi due calzini di colori simili. Forse qualche residuo di una curiosità antropologica rimastami mi spinge ogni tanto a studiarne il comportamento, ma capire no, non lo capisco.

Chi sono io per giudicare gli altri, mi chiedo? Va bene, sono il capo, i soldi sono io che glieli sborso, però…

Giangio manco a dirlo invece è differente, ha una specie di equilibrio efficace e semplice, è colto ma sa fare di tutto, dai lavoretti di casa, a cucinare, tenersi un orto, a navigare in internet, ma soprattutto nei rapporti umani ci sa fare. Più mi irrita e più mi affascina, non so spiegarlo nemmeno a me stessa. La vita per lui è un giochetto, ma prende anche tutto sul serio, però senza ossessionarsi, senza ansia. E si diverte.

Le cose che non capisce le lascia lì in aspettativa, ma non gli pesano affatto, se non ce n’è bisogno ci possono rimanere anche per sempre, non si mette lì nemmeno a cercare di risolvere tutti i nostri dubbi esistenziali, del genere umano intendo.

Ginulfo è uno scemo, si sente già dal nome, forse l’unico nel mondo che si chiama così, (i genitori hanno fatto dei danni anche nella sua famiglia, non solo nella mia,) però… meno male che è fatto in quel suo modo limitato e raffazzonato, sennò io non lo sopporterei e magari nemmeno lui starebbe al mio gioco.

Insomma il mio marito attuale, tecnicamente neanche sposato, è un bleffatore a oltranza, l’unica cosa che gli interessa sono i soldi, e meno male che è così.

Intanto, a volte senza Severino, Mauro e Giangio parlavano con maggiore calma, divagavano anche, ma tornavano sempre al filo principale dell’indagine.

Giangio invitava spesso l’amico la sera, quando Severino invece amava andare a letto presto, se non con le galline, subito dopo, ma non prima di un pasto caldo, di solito a base di zuppa e pane abbrustolito.

Davanti al caminetto acceso, a casa di Giangio, dopo cena, invece gli altri due approfittavano per parlare e, strano a dirsi, era Mauro che parlava di più. Giangio era anche un buon ascoltatore, altra sua caratteristica che mi provocava invidia.

Come minchia ci riusciva non lo so.

 

 

XII) CARLO E RINA (5)

  

Se una vita ha avuto un qualsiasi senso difficilmente lo scoprirà il vivente, piuttosto qualcun altro, ma non lui, il possessore ignaro di quella vita, che in fondo non è stata proprio sua e non sapeva nemmeno dirigerla. Era lei a indirizzare lui, se e quando ne aveva voglia, ma il trucco era proprio che lui non lo avrebbe mai saputo. Non avrebbe nemmeno mai saputo quando sarebbe finita e quando era iniziata non era stato certo lui a sceglierlo. Se guardiamo gli altri però capiamo quanto poco siamo padroni del nostro destino, è vero che possiamo influirvi, ma spesso, o quasi sempre non sappiamo come farlo e a volte i risultati sono il contrario di quello che volevamo…

 

Attraverso l’unico poliziotto in auge, Marchigno Piccinini, le conseguenti pensate sono arrivate al Capitano De Santi, che ha scosso la testa sconsolato. L’usuraio in questione era Geraldinho La Porta, figlio di emigranti italiani, ma nato e cresciuto in Brasile, e la logica tutta convergeva su di lui. Solo che il meccanismo non era chiaro, poi ci volevano le prove, ce n’era bisogno in questi casi, non solo, ma anche in altri.

In Brasile la grana, il malloppo, i soldi, tra le tante maniere si potevano chiamare anche grano e anche questo coincideva. I relativi chicchi trovati sui quattro luoghi dei relativi delitti erano simbolici.

Le cosiddette vacanze continuavano quasi come se niente fosse, ma sotto c’era un gioco di spionaggio non indifferente. La bambina inoltre non era tipo di dir loro delle bugie, si credeva, era solo curiosa e voleva aiutarli, quindi l’hanno scelta come intermediaria, oltre che come insospettabile mente della provvidenza. Si era insomma propensi a credere che lei non avesse avuto le sue pensate personalmente, ma le avesse sentite dire da qualcuno.

Invece Severino era così ingenuo nel suo entusiasmo, che gli capitava raramente e non c’era abituato, gli faceva perdere il mirinvengo. Figurarsi che considerava che i bambini moderni fossero troppo fottutamente precoci e gli pareva che lei anche su quell’altro discorso, quello di Francesco Erspamer, intuisse il significato del testo e le sue necessarie implicazioni nella vita di tutti i giorni, solo che gli era convenuto, fino a quel momento, far credere di no.

Si è trovato a discuterne con Giangio, quel pomeriggio piovoso davanti al caminetto acceso, avendogli quest’ultimo garantito che non ci fossero microfoni nascosti in giro. Invece io ero lì fuori e ho sentito tutto, non era per niente caldo, per fortuna ero vestita come uno scalatore sull’Everest.

Si sono fatti dei bei bicchierotti di whisky invecchiato, anche se i rispettivi medici glielo avevano, in separata sede, proibito.

Con tutti questi morti era poco rispettoso che loro due si stessero divertendo, ha detto Severino. Alla fine la vita è così, quando c’è da prendere qualcosa, anche se è solo per un attimo, meglio non lasciarselo scappare, ha concluso Giangio, perché non capita tanto spesso, specialmente ai pensionati.

 “Amico caro, lasciati dire che non è possibile che la bambina in questione, di otto anni, per quanto precoce sia, capisca queste cose che hanno a che fare più che altro con esperienza e specializzazione nel ramo dei rami.” Ha detto Giangio.

“Posso anche essere d’accordo. Ma, allora, da chi potrebbe averle sentite, secondo la tua modesta opinione?”

“Da suo padre, per esempio, che lei spia regolarmente, che ascolta quando ne parla anche con sua madre. I quali due genitori in questione hanno una rispettiva corrispondenza elettronica che lei riesce ad hackerare e qui è veramente un mostrillo che ci può insegnare a tutti quanti siamo.”

“Ma suo padre che mestiere fa?”

“Programmatore di computer.”

“Con agganci di spionaggio industriale e non?”

“Forse, non lo so, ma per guadagnare guadagna bene.”

“E la moglie?”

“Lavora anche lei con i computer, internet, fuffigni telematici, ma non ho ancora capito bene cosa faccia, tutto quel che riguarda imbrogli legalizzati e zone limitrofe.”

“Che non è poco.”

“No, al giorno d’oggi è quasi tutto e anche lei, secondo me, si porta a casa uno stipendio grassoccio, se così si può chiamare, visto che è una libera professionista e va a ingrassarsi proprio con le percentuali di produzione.”

“Temi che ci sia qualcosa oltre la legalità?”

“Non lo so, non ho mai provato a chiederglielo, figurati se ha confessato spontaneamente, ma sono sicuro che anche se me lo spiegasse non capirei.”

“Quello per noi vecchierelli è un altro mondo.”

“Non sono affatto d’accordo. Io navigo spesso in internet e sono ancora piuttosto vivace e giovanile.”

“No, hai ragione, tu sei un teenager, io parlavo per me stesso, figurati, te sei già molto più hacker di me. Io... se mi metti davanti a un computer comincio a sudare, non c’è nemmeno bisogno di accenderlo, solo a vederlo mi da’ noia. Però guardati allo specchio ogni tanto anche te, vedrai un vecchietto rinsecchito. Quelli non sono appassionati dell’internet per divertimento, magari sono degli hacker, alla loro maniera, forse anche malintenzionati. Ma te un’idea della tua vicina, del suo carattere, della sua onestà ce l’avrai…”

“Diavolo, i miei valori sono uguali ai tuoi, più o meno, ma il mondo attorno tu lo sai com’è.”

“Sì, ma se il frutto non cade mai lontano dall’albero...”

“Severino porta pazienza, dai retta a me. I proverbi sono una cosa un po’ meno complessa della vita vera, nella quale non dico sempre, ma a volte, il frutto fa dei chilometri e si dimentica completamente dell’albero buonanima.”

Giangio lo chiamava per nome solo quando si innervosiva, alla sua maniera, nelle sue intenzioni doveva servire per sdrammatizzare, quel nome pareva ridicolo anche all’ex capitano. Questo gli faceva capire troppe cose o nessune. Dipendeva ovviamente dal cosa o dal quando, dal dove e dal come, il perché anche non era da trascurarsi.

Severino si è trovato improvvisamente, ma anche in maniera logica, interessato a scoprire chi erano e come pensavano i due coniugi, atipici e brillanti, dagli occhi stanchi e dalle poche azioni fuori dalla rete, per cui Lia, la figlia, diventava quello che era già a otto anni. Se tutto questo pareva che avesse poco a che fare con le indagini, forse gli poteva aprire nuove strade per le informazioni.

Quando è venuto a sapere da Giangio, che lo aveva appreso da Lia, che tutti e due lavoravano per certe agenzie di assicurazioni, tra le altre cose che facevano con il computer e le relative consulenze, erano due polipi che allungavano i loro tentacoli in internet per pescare percentuali e conseguenti soldi. Gli è sembrato interessante, in qualche modo che non sapeva ancora come.

Aveva notato anche che la bambina in presenza dei genitori faceva più la stupidina, proprio a loro non rivelava appieno le sue capacità e loro, impegnatissimi nella loro vita piena di lavoro ma abbastanza proficua a giudicare dalla casa e dal tenore di vita, magari non se ne accorgevano che lei li spiava e che era molto più sveglia di quello che voleva far credere.

Certe assicurazioni sulla vita venivano fatte a persone che poi guarda caso morivano e non si sapeva nemmeno di cosa, non si capiva neppure chi ci guadagnava, secondo le parole di Lia, che le riportava senza intenderci tanto, ma le doveva aver sentite indubbiamente dai genitori, che lavoravano anche per tali agenzie, visto che in internet loro ci sguazzavano e del fango che c'era senza dubbio, o solo forse, non se ne sporcavano, ma ne chiacchieravano magari affascinati da tali meccanismi misteriosi, ma che una certa logica dovevano avercela e (chi lo sa?) loro la capivano. Quando Giangio e Severino sono andati a chiedere chiarimenti, Carlo e Rina sono caduti dalle relative nubi, forse Lia aveva frainteso, loro non ne sapevano niente, figuriamoci.



XIII) ACULEI (1)

 

Quando il riccio sente freddo in inverno, si avvicina ai suoi compagni di specie in cerca di calore, ma così facendo le sue spine feriscono gli altri, e le spine degli altri feriscono lui.

Il problema è che le spine sul corpo del riccio rendono il processo di avvicinamento agli altri difficile e doloroso, poiché ogni volta che si avvicinano, le spine nei loro corpi li feriscono, quindi decidono di allontanarsi. Poi, sentendo di nuovo freddo, si avvicinano di nuovo, e così via.

In teoria, il riccio ha trovato una soluzione a questo problema e ha ideato un metodo semplice e di successo, un processo che Schopenhauer ha chiamato la distanza di sicurezza. Il riccio è riuscito a scegliere una distanza specifica che gli garantisse abbastanza calore e, al contempo, il minor grado di dolore possibile.

Nel 1851, il filosofo tedesco Schopenhauer rifletté sulla situazione del riccio e la considerò uno dei dilemmi sociopsicologici dell'uomo, chiamandola: il dilemma del riccio.

Schopenhauer ha proiettato questa teoria nelle relazioni umane, sottolineando che una persona solitaria sente un’intensa necessità di avvicinarsi alle persone e interagire con loro, poiché la solitudine rimane molto dura e dolorosa per una persona normale (come il freddo per un riccio), quindi decide di comportarsi come il riccio e cercare altri esseri umani per ottenere calore psicologico.

Il problema è che l’attaccamento e la vicinanza non saranno sempre fonte di felicità e conforto, ma, al contrario, possono essere fonte di dolore e stanchezza (per lui e per gli altri), generando così molti sentimenti negativi come pressione psicologica, imbarazzo, separazione e altro.

Anche noi siamo fatti così. Dovremmo cercare di mantenere una distanza specifica tra noi e gli altri per sicurezza, in modo da mantenere la relazione nel suo stato migliore. Non troppo lontano, al punto dell’isolamento, né troppo vicino, al punto dell’interferenza nella sfera privata. Le esperienze confermano che le relazioni migliori, più efficaci e durature si basano sul rispetto reciproco all’interno di limiti che nessuna delle due parti supera.

 

 

Il mondo moderno gli stava assai stretto, era ingrassato lui, lo sapeva, ma l’esistenza attorno faceva del suo peggio per strizzarlo di più.

Arte di strada  e artigianato di fabbrica per lui erano la stessa cosa, ma il secondo era più onesto. Quelle statue enormi e bianche, messe su una discarica nascosta o a spingere il muro di una cattedrale, gli davano una noia insopportabile. Rothko, Cattelan e Fontana, erano cacate di artisti, almeno le scatolette di Manzoni puzzavano ma erano tappate, e alla loro maniera facevano anche ridere.

Severino odiava termini come spoiler, location e foliage, forse perché disprezzava le mode, parole non italiane che erano uscite fuori da poco e venivano usate al posto delle altre e se ne sentivano affascinati, le usavano e ne abusavano principalmente i giovani. Non capiva perché attualmente non si poteva più dire tipo, ma sempre e solo tipologia. Se qualcuno disgraziatamente iniziasse la frase con il consueto ...e niente... come le mode attuali consideravano simpatico, perdeva automaticamente tutta la sua potenziale stima.

Quando vedeva passare comitive che se ne andavano in giro con gli obbligatori bastoncini per camminare, in montagna o collina che fosse, gli veniva voglia di dirgli che erano tutti dei solenni imbecilli, non senza difficoltà se ne stava zitto, ma dalle narici gli usciva del fumo azzurrino.

Il Black Friday lo odiava, il venerdì per lui era un giorno che assomigliava al Ramadan dei musulmani, o allo Shabbat ebraico: non si poteva comprare niente, per nessun motivo.

A Natale diventava cattivo, piuttosto aggressivo con chiunque volesse fargli un regalo, era uno sgarbo che accettava solo da sua moglie, ma non senza difficoltà.

Giangio aveva più o meno le stesse opinioni, la differenza stava nella sua pazienza del saperle vivere in maniera diversa, senza doverle per forza odiare. Per lui facevano parte della natura stessa dell’uomo, tutte queste banalità e debolezze, pur ammettendo che una volta era meno peggio. Ci rideva su, e tentava scherzare con l’amico su queste bizzarrie che invece Severino prendeva molto sul serio e ci riusciva per niente a divertircisi.

Già dal nome, l’eccessiva severità dell’ex capitano, talvolta implicava buonumore per gli altri, un po’ come il carattere stesso dell’uomo moderno, secondo gli storici, i sociologi e gli scienziati tutti. Era stressato e preoccupato per pericoli che ormai non esistevano più, abituato fin da quando era un uomo delle caverne, a mangiare gli animali che cacciava... e a volte a esserne a sua volta cacciato e purtroppo anche mangiato, poteva capitare.

Severino era un cavernicolo un po’ più colto, talvolta nei modi e negli sguardi, forse anche a suo tempo incantevole per sua moglie, ma risultava un po’ troppo esagerato per gli altri, e ugualmente gli altri per lui.

Dentro di sé però aveva un esercito ben addestrato a perseguire i malviventi, aveva studiato poco ma da autodidatta si era fatto largo in un mondo di tanti che per abitudine fingono di essere intelligenti. Lui era veramente arguto, anche se spesso non gli pareva una cosa positiva, capire al volo le situazioni lo faceva anche soffrire.

Era rozzo e raffinato allo stesso tempo, non era capace di fingere, se la maggior parte della gente si nascondeva dietro comportamenti e stereotipi preparati senza nemmeno saperlo, lui invece no, e a cambiare non ci aveva nemmeno mai pensato.

Mauro era stato a suo tempo e modo piuttosto forte di carattere e prepotente, quando era bambino, un po’ come Severino, quindi non avevano legato molto, ma inconsciamente si stimavano. Giangio invece era stato vicino a tutti e due, avendo un carattere più flessibile e meno estremo.

Da adulto Mauro era cambiato, forse anche per via del suo lavoro e certamente per merito della sua storia personale. Severino no, e il suo lavoro non lo aveva aiutato a farlo, forse gli aveva provocato alcuni peggioramenti successivi, calcificati e stratificati.

Da adolescenti erano andati insieme in motorino al campeggio, poco prima che Severino si trasferisse con la famiglia a Roma. All’isola d’Elba non era stata affatto una bella vacanza, Mauro e Severino si erano coalizzati contro Giangio, che consideravano forse più debole.

La loro amicizia era stata interrotta per un bel po’ di tempo. Diversi anni dopo, quando dalla capitale erano ritornati in Toscana e in provincia di Lucca, Mauro non c’era più e Giangio invece sembrava che lo avesse aspettato.

Severino insomma era un ingenuo per tante cose e molto più astuto della media per altre. Quello che complicava tutto per gli evemtuali interlocutori era che quando scherzava pareva che facesse sul serio e quando invece faceva sul serio, allora sembrava che scherzasse.

Bice era una donna combattiva e quieta, Severino non era capace di ingannarla a lungo, dal suo lato lei aveva già capito in gioventù che era meglio lasciarlo fare, sennò la vita diveniva una guerra.

Eppure lui con lei si trasformava, era meno polemico e puntiglioso, perché lei lo lasciava libero di andare a sbattere nei muri con la testa, a piacimento suo, e lui e gliene era anche grato, ma non era certo stato programmato per le mezze misure.

Chi teneva l’amministrazione della casa e le redini della famiglia era lei, lui si perdeva dietro altre cose, se ne fregava dei soldi, ma se fosse stato solo non avrebbe certo raggiunto l’età della pensione. Se lo diceva da solo e lei taceva, che non c’era nessun bisogno di acconsentire. Era inutile arrabbiarsi, era fatto così e non poteva cambiare. Tutte le volte che lui riusciva a ingannarla, statisticamente andavano a finire male, alla fine chi ci rimetteva erano tutti e due, ma non succedeva tanto spesso.

Inoltre chi pesca forse non lo fa solo per causa dei pesci, almeno i pescatori sportivi ma non troppo, come Giangio e Severino, quelli che non adoperano la mosca o il cucchiaino perché dovrebbero fare troppo movimento e quello che vogliono loro invece è la quiete, chiacchierare senza fretta, scordarsi del mondo frenetico non troppo lontano da lì.

I pescatori attempati hanno spesso questa caratteristica, ma nel mondo moderno ogni tipo di pescatore sta sparendo, sia quelli sportivi, che quelli di mestiere, per motivi diversi, ma diventano sempre più rari.

I professionisti, cioè gli ex, non hanno molto più pesce da pescare, per via dell’inquinamento e della pesca predatoria e senza rispetto né per i pesci né del povero futuro dell’umanità che sta straziando ogni specie e si avvia verso un domani di cibo chimico. I pescatori intensivi non sono molti, perché le macchine fanno quasi tutto loro.

Gli altri, quelli come Severino e Giangio, cominciavano a pensare che era piuttosto scomodo, troppo umido, c’erano tanti altri passatempi più facili da praticare, i pesci poi non gli piacevano, se c’era da sbuzzarli e pulirli, insomma se non già cotti e senza lische.

Di argomenti per parlare ne avevano anche troppi, ma le storie del passato erano quelle che piacevano di più a tutti e due. Giangio quando andava a pescare doveva usare degli occhiali particolari, per riuscire a vedere i movimenti del galleggiante, quelli che usava per guidare la macchina, ma la prendeva raramente quella, stava sempre in garage a riposare.

La neve si era sciolta tutta e il caldo era più degno di questo nome. Era quasi giugno sono andati a pescare al laghetto e si sono trovati, come ai vecchi tempi, a parlare di fantomatiche prede ittiche raccontate al Circolino del Pescatore Sportivo di Monte S.Quirico.

Al fornitissimo bar con annessa l’associazione venatoria lucchese, più un terrazzo sfizioso assai per le cene, con vista fiume Serchio addirittura. Purtroppo aveva chiuso da qualche anno.

 “Ti ricordi quei bugiardi quante ne inventavano?” Ha domandato Severino lanciando la lenza più lontano che poteva da quella di Giangio, che invece gliela lanciava sempre vicino, magari senza rendersene conto, ma forse invece sì.

“Come potrei dimenticarmi di quei personaggi da operetta venatoria?”  Ha risposto Giangio.

“Beh, bisognava farci la tara, ma non tutte le storie di pesca miracolosa erano inventate di sana pianta, qualcuna poi era anche quasi vera.”

“Quasi. Un quasi gigante però. Ci sarebbe da scrivere un libro!!”

“Ma meglio un film.”

“Mi viene in mente la storia della trota di Tre uomini in barca.”

“Ecco. Tutti dicevano che l’avevano pescata e tutti in modo differente. Alla fine cade giù e va in mille pezzi, era di gesso!”

“Appunto. Dicono che il pescatore esagera o mente per inerzia dei fatti, o anche della loro eventuale eventuale mancanza. Là il peggio bugiardone però era il Martellacci!”

“Secondo me invece era il Malerbi.”

“Beh, certo che anche il Lipparelli…”

“Ma chi?”

“Come chi?”

“Il Lipparelli non te lo ricordi?”

“Se mi ricordo il Lipparelli? Che domande fai? Quello sì che era capace di mentire con la massima indifferenza, era bravissimo!” Ha ricordato con la stessa e ben proporzionata massima ammirazione Giangio.

“Sì, però quell’altro più grosse le sparava e più faceva quella faccia indifferente…”

“Ma chi, il Lipparelli?”

“No, ora sto parlando del Martellacci. Ti ricordi quando andarono a Massaciuccoli con l’esca nuova, supermega, di polenta speciale inventata da lui? Che ci aveva messo anice e formaggio?”

“Chi se lo ricorda? Bisogna vedere poi se era vero…”

“Infatti, magari l’aveva comprata al Caccia e Pesca di Quiesa, ma quello che conta è la faccia che fece quando gli chiesero quante ne avevano prese…”

“Come se fosse stata una cosa del tutto trascurabile disse che avevano preso poco o niente, a parte una carpetta di quindici chili…”

“A specchio o reina? Gli chiese il Lipparelli che non ci credeva, come noi.”

Cuoio, cuoio, rispose quello quasi infastidito, voleva essere sensazionalistico a ogni costo, (anche se a quel tempo questa parola non era ancora in uso,) lui di Cuoio non ne aveva mai viste, non credo che ce ne siano nemmeno in Toscana e poi quelle a quindici chili non ci arrivano nemmeno…”

“Ci arrivano, diamine, ci arrivano, guarda che io di manuali di pesca ne ho letti non so quanti.”

“Anch’io, figurati, che qua in montagna d’inverno non c’è niente da fare. Dopo Tolstoj, Dostoevskij e Gogol i manuali me li sono divorati tutti: pesca, caccia, allevamento nonché agricoltura fai-da-te e naturalmente come diventare un hacker cazzuto abbestia. Allora: la Carpa Cuoio si presenta totalmente liscia e priva di squame. Il corpo più tozzo, arcuato e massiccio rispetto alla Carpa a Specchio. Quella ha origine da incroci ed accurate selezioni effettuate dai carpicultori della regione della Boemia…”

“Sì, lo so, lo so, e si diffuse poi soprattutto nelle varie regioni della Germania, in Inghilterra e nell'Italia del nord, e, grazie ai suoi eccezionali incrementi ponderali annui (fino ad 1,2 - 1,3 kg dopo il 5° anno di eta'), la sua fama si diffuse presto tra i carpicultori europei ed asiatici.” Facevano a gara a chi ne sapeva di più e io là dietro nascosta a guardare verso il cielo, che delle carpe non me ne fregava niente.

“La livrea di questo pesce differisce dalle precedenti varietà per un colore più scuro con tonalità bruno-giallo-olivastre e riflessi bronzei anche sulle pinne branchiali, pettorali ed anale.”

“Sì, va bene, ma allora a quanti chili arriva?”

“Secondo le mie fonti ittiche a non più di venti chili.”

“E le altre?”

“Anche quaranta.”

“Ma te le hai mai viste delle carpe di quaranta chili?”

“No, personalmente no, ma i libri di pesca dicono così, poi il Martellacci potrà confermartelo.”

“Ah, allora… a lui ci credo ciecamente, basta attenersi al contrario di quello che dice.”

“E poi è morto.”

“Ma quando?”

“Sarà una ventina d’anni fa.”

“Come passa il tempo, eh?”

“Già...”

“E di che è morto?”

“Boh? Forse avvelenato dalle bugie.”

Era una bella giornata di sole, una brezzettina impertinente increspava appena le acque del laghetto. 

 


 

XIV) PESCATORI DI ILLUSIONI (10)

 

«Essere disposti a cambiare è da persone intelligenti.

L'inconscio governa la nostra vita, e l'inconscio è formato dalle nostre credenze, molte delle quali sono false anche se le diamo per certe. Avere un atteggiamento di apertura verso tutto e tutti ci mette in migliori condizioni per continuare a crescere. Come già diceva Keynes, «la cosa più difficile al mondo non è che la gente accetti nuove idee, ma che dimentichi quelle vecchie»; qualcosa di simile a quello che pensava Goethe: «Stai attento a ciò che impari perché non potrai dimenticarlo». Essere aperti al «disimparare» è assolutamente imprescindibile affinché il vero apprendimento abbia luogo. Molte volte, ciò che pensiamo di conoscere è ciò che realmente ci impedisce di imparare».

 

Bertrand Arthur William Russell 1872-1970

Matematico, filosofo, scrittore e altre robette

 

 

Andati a cena da Fagiolino a Cutigliano, Severino e Giangio hanno rivelato agli altri due i sospetti e le novità. Tra cui quello che Lia non gli aveva detto, ma dalle sue parole si era lasciato intravedere. Piccinini e Pelosi non sono rimasti propriamente di stucco, ma quasi. Giangio ha parlato di quello che pensava dei vicini, non coinvolti personalmente ma sapevano di cose turche e Severino ha tirato le debite conclusioni, causando proteste e mani nodose addosso, il che lo ha convinto che era sulla giusta strada, ma forse c’era da potare qualche frasca e riempire di ghiaia le buche che si erano create con il maltempo.

Giangio lo ha appoggiato, visto che le conclusioni erano anche le sue e poi erano una coppia che agiva appunto in numero di due e se per caso stessero sbagliando, che gli dovessero prima dimostrare i dovuti e necessari elementi contrari e contro la loro volontà e determinazione.

Fatto sta che di conseguenza, ispirato dai fatti appresi lateralmente dalla coppia di ex lavoratori in questione, poco dopo Marchigno ha rivelato un fatto che poteva e non poteva essere collegato, ma è stato considerato interessante almeno dal punto di vista amatoriale sì, ma piuttosto sull’investigativo.

Il dottor Sandro Ferraro di Cutigliano, medicina generale di professione libera, conosciuto da loro tutti, persona onesta e intelligente, aveva detto a Piccinini, in occasione di un altro interrogatorio, per altri possibili reati, (quelli là ancora da dimostrare, ma non commessi da lui,) che alcune perizie - a riguardo il loro specifico caso - gli avevano offerto soldi per falsificarle, non sapeva bene chi, ma era possibile dedurlo per loro carabinieri. Naturalmente non lo avrebbe testimoniato in tribunale, era pericoloso per la sua stessa incolumità, o della cui famiglia, ma era così, se poteva servirgli a qualcosa e dicendo queste cose accusava già indirettamente la mala, o chi per loro, la mafia, La Porta o chi ci fosse di mezzo, non erano fiori da odorare con speranzosa soddisfazione olfattiva.

“Eh sì. I topi non avevano proprio nipoti!” Ha detto Severino, Giangio ha riso, Mauro e Marchigno non hanno capito, per i primi due era diventato un modo di dire sul genere di CVD, Come Volevasi Dimostrare. Glielo hanno spiegato anche a loro.

Quelli però hanno continuato a non capire.

E poi la situazione funzionava pure al contrario, ha commentato Severino. Partendo dalla bambina, che lasciandosi scappare cose che lei in prima giovane persona magari non capiva, ma che erano rivelatrici dell’attività di colleghi, collaboratori, datori di lavoro e conoscenti limitrofi dei genitori, si era arrivati dove si era arrivati… certamente, anche se non si sapeva ancora dove.

Insomma i discorsi che faceva la bambina, visto che non poteva averli uditi da loro due, che queste cose non le sapevano e poi ci stavano attentissimi, le aveva apprese dai genitori, visto che poi lei non frequentava nessun altro.

Lia poteva essere usata anche per farsi dire quello che dicevano i nonni acquisiti, ma loro per fortuna in sua presenza non si erano mai fatti sfuggire nulla. E secondo Severino, appoggiato da Giangio, poi lei voleva ribellarsi ai genitori che non avevano tempo per lei, sempre attaccati ai vari computer, telefoni fissi e cellulari, si era appoggiata ai nonni ad honorem, per fargli dispetto, ma loro invece, personalmente erano contenti che ci fosse qualcuno che le facesse compagnia.

Insomma pare che la bambina avesse detto che tali morti in serie, erano collegate con i premi delle assicurazioni, chi glielo avesse detto non si sa, ma si supponeva che lo avessero detto sua madre o suo padre, chiacchierando del più e del meno specifico, quando Lia nascosta dietro la porta, o nell’altra stanza, si supponeva che non potesse sentire.

Carlo a pesca non veniva più, c’era venuto poche volte anche prima, ma aveva subodorato qualcosa o aveva troppo da fare, magari non gli piaceva stare con loro, o la pesca non entrava nel suo concetto di gradevole tempo libero. La bambina si vedeva poco in giro, la mamma non appariva più per niente.

Marchigno ha provato a parlarne con il capo, Ilio De Santi, anche se già senza convinzione e lui, il capo, gliela ha tolta subito tutta, non ci credeva e non poteva capacitarsene e lui, Marchigno, stavolta, di conseguenza si stava lentamente facendo di lui, il capo, un’opinione che non avrebbe potuto confessargli facilmente.

Le indagini intanto proseguivano senza apparente sforzo, ma soprattutto senza risultati concreti, eppure in teoria si erano macinati già dei chilometri non indifferenti.

Marchigno allora ha avuto l’idea di trovare un hacker ammodo e pensandoci bene ce ne aveva uno già sotto mano, si fa per dire, perché essendo lui cacciatore aveva un amico pescatore, che qualche volta erano andati insieme a pescare o a caccia, tanto per farsi compagnia. Il quale amico avendo un figlio che condivideva la sua stessa passione di pescare, ma con la rete, erano andati insieme anche con il figlio a pesca e a caccia.

Che c’entrava con tutto questo?

Il padre non era poliziotto, era piuttosto un idraulico, anche se defunto, ma di morte naturale. Il figlio chiamato Tore, indirettamente come diminutivo di Pescatore, che come abbreviazione di Torregiani, era uno che pescava più volentieri con la rete, o anche detta bilancia, in fiume, lago o fosso che fosse, ma soprattutto in internet, lavorando a Milano per la Microsoft.

Dato il caso che la pandemia costringeva attualmente chi poteva a lavorare a casa e il suo lavoro essendo in internet, Michele detto Tore, si trovava a casa sua in pianta stabile, cioè a Tempagnano.

Severino impaziente ha chiesto allora che cosa stavano aspettando, il Piccinini ha risposto che Tore bisognava incentivarlo, però, che di voglia di lavorare non ne aveva tanta, passava la maggior parte del giorno al computer e quando ne usciva non voleva tornarci, ma vivere un po’ di vita aldifuori del virtuale.

Soldi?

No, magari qualcos’altro. Credeva che fosse un tipo a posto, con degli ideali e basi solide. Ci voleva qualcos’altro.

Severino gli ha proposto di portarcelo a casa sua, a Tempagnano o dove diavolo fosse, ma subito. Ci avrebbe parlato lui. Per quanto perplesso Marchigno lo ha portato da Tore, insieme a Giangio, sempre in seconda battuta, ma pronto al peggio eppure auspicando il meglio.

 

XV) HACKERS (9)

"Qualcuno si chiede per quale motivo si studi la filosofia, cioè una disciplina che in apparenza non ha alcuna utilità pratica. Ebbene la filosofia serve a non dare per scontato. Nulla. La filosofia è uno strumento per capire quello che ci sta attorno – per capire quello che ci sta dentro probabilmente è più efficace la letteratura –, ma capiamo davvero quello che ci sta attorno se non diamo per scontate le verità che qualcun altro ha pensato di allestire per noi. Fare filosofia – cioè pensare – significa imparare a fare e a farsi domande. Significa non avere paura delle idee nuove. Significa non fermarsi alle apparenze. Significa essere capaci di dire di no a chi vorrebbe imporci il suo modo di pensare e di vedere il mondo. Cioè a chi vorrebbe pensare per noi."

Gianrico Carofiglio - "Il bordo vertiginoso delle cose"

 

Il ragazzone non si è stupito né preoccupato, naturalmente era piazzato a oltranza davanti al computer, si capiva dagli occhi rossi. Li ha fatti entrare, gli ha offerto un caffè, ma poi si è seduto al pezzo e non smetteva di guardare il monitor e cliccare, mentre annuiva parlava con loro a monosillabi. Per tutta la loro conversazione ha lavorato senza guardarli in faccia che ogni tanto, a mo’ di conferma alle mezze parole dichiarate.

Dopo i convenevoli, Severino ha cominciato a dire:

“Ci sarebbe da fare un lavoretto.”

“Quale?”

“Beccare dei mafiosi fetenti e metterli in gattabuia.”

“Mi pare un po’ faticoso.”

“Alle manette e alla parte del lavoro fisico ci si pensa noi, all’occorrenza li meniamo anche.”

“Ma voi non siete in pensione?”

“Sì, ma non per questo ci dovrebbe garbare di vedere la gente ammazzata da certi stronzi, magari per lucrarci sopra. La polizia dorme, ha le mani legate, prende le tangenti per non fare niente, insomma le solite cose, non necessariamente in questo ordine.”

“Di chi stiamo parlando? Dei quattro morti con i semi di grano?”

“Proprio quelli.”

“Bene... No... anzi: male, malissimo. Ma io che dovrei fare?”

“Li peschi nella rete, dove sei fine maestro e li smascheri con prove solide anche se piuttosto telematiche.”

“Gratis?”

“No, ci sarebbe la soddisfazione impagabile di aver migliorato il mondo, ti pare poco?”

“...e tecnicamente si tratta di mafia vera?”

“Forse, ma ci sono dei punti oscuri, probabilmente attraverso compagnie di assicurazioni.”

“Beh, se mi date un computer con i controcazzi e un’internet valida, in qualche ufficio, a casa vostra o di chi vi pare a voi, io ve lo posso anche fare, così se succede qualcosa la colpa me la scarico. Da qui non posso, rischio troppo.”

“Mi pare onesto. Questo fine settimana puoi venire alla Doganaccia?”

“Certo, ma oltre al computer, poi vi dico io come deve essere, preparatemi almeno da mangiare qualcosa di buono. Merenda e pranzo, direi, ma consistenti. Non mi piace il fegato, per il resto va bene tutto.”

 “Affare fatto. Ti telefoniamo appena abbiamo i dettagli.” Era giovedì pomeriggio e il computer non sapevano ancora dove andarlo a pescare, in più la descrizione delle caratteristiche, scritte su un foglio a quadretti era peggio dell’arabo, almeno per loro.

Marchigno Piccinini però aveva un figlio patito per i giochi da fare al computer, in più faceva disegni tecnici e animazioni per studio in vista anche di un lavoro, per i quali ci vuole un apparecchio di tutto rispetto. La sua famiglia viveva a Pistoia e giungerci per Tore era più comodo e rapido che alla Doganaccia.

Raggiunto insomma il sabato seguente, il giovinotto è arrivato puntuale e ha voluto subito un acconto di merenda, panini al prosciutto e gorgonzola, caffellatte e yogurt in quantità e qualità, roba che ha fatto sparire in un batter d’occhio. Poi si è messo al computer che il figlio di Piccinini non aveva voluto lasciare incustodito, per via forse di qualche pornaccio nascosto in qualche angoletto della memoria e ha voluto assistere all’operazione, magari per impararci anche qualcosa, non si sapeva mai, il futuro era proprio in quelle macchine infernali.

Abbandonando il mouse, Tore ha cominciato a mitragliare sulla tastiera ovviamente aprendo una finestra di prompt, una di quelle schermate nere con le scritte bianche diventate famose col film War Games.

Davanti a sé solo codici. Niente icone: più i cervelloni elettronici sono potenti più l’interfaccia grafica tende a semplificarsi, a rimpicciolirsi, fino a sparire.

Gli hacker utilizzano linee di comando, niente disegnini né paesaggi di sfondo. Un cursore bianco lampeggiante su schermo nero: il campo di battaglia di questo tipo moderno di pirata è simile a una scacchiera lampeggiante.

Chi guardava non ci capiva niente, chi avesse una qualche pur modesta e intermedia dimestichezza con il computer non era per niente avvantaggiato.

Si è collegato via Telnet all’host del primo gestore, cioè si è travestito da Alborella per non farsi riconoscere, mentre era un cospicuo Luccio ed è arrivato, attraverso una distesa di verticali alghe verdi chiaro e fulmini giallo scuro, nei pressi del metaforico buco in cui si voleva introdurre.

Come volevasi dimostrare Tore era un pescatore rapido ed efficace, avuto il nome dell’agenzia in questione è riuscito nel giro di minuti a trovare dei nomi di pesci pregiudicati e non solo pistoiesi facilmente riconducibili al La Porta, non tanto come collaboratori ma come fornitori a terzi di cibarie e bevande, cancelleria e cose varie, che forse facevano parte degli accordi, certo non erano prove, ma si potevano sorvegliare e vedere dove portavano, hanno pensato e detto i compari.

Poi dei pagamenti sospetti a Petrocchi Gian Antonio, un medico montanaro già conosciuto per essere un probabile corrotto. Alcune non eccessivamente grasse ricevute scritte a penna su un foglio poi scannerizzato, a Delio Signorini, che collaborava anche attraverso consulenze di vario tipo con Carlo Dalle Piagge, il padre di Lia e anche con Rina, la madre. Entrato sulle tracce dei quali sono stati trovati solo contatti indiretti con La Porta. Diverse volte sicuramente è comparso anche l’e-mail di Nerobase, cioè il mio, e quello di CiccioPasticcio, che è di Ginulfo, ma loro non li conoscevano e quindi non ci hanno fatto caso.

I contatti con le assicurazioni c’erano e le imprese erano tante. Forse troppe. Ma in quel mondo ci voleva pazienza e se ogni tanto una rete incrostata di conchigliette si presentava davanti al luccio travestito, allora Tore faceva un giretto ed entrava di dietro dalle lunghe e apparentemente minacciose alghe.

Nel giro di quaranta minuti scarsi il ragazzone aveva fatto tutto quello che poteva e stava già sgranocchiando il pranzo che la moglie di Piccinini gli aveva preparato e discorrendo, dei più e dei meni a disposizione, si sono messi a mangiare tutti insieme, con Severino e Giangio, tra un boccone e l’altro commentando quello che pensavano e quello che dovevano fare di conseguenza. Niente di quello che aveva trovato poteva essere usato come prova, purtroppo, ma almeno ora avevano una sensazione più solida di essere sulla strada giusta.

“Eh sì. I topi non avevano nipoti.” Ha detto distrattamente Giangio bevendosi il caffè corretto a grappa.

“No. Ma potrebbero avere degli zii.” Ha replicato Severino.

“In che senso?” Ha chiesto Marchigno.

“Non è che volete personalmente prendere un prestito?” Ha domandato Mauro Pelosi già terrorizzato dall’ipotesi.

“Bravo. Ci vorrebbe una coppia di anzianotti insospettabile, che faccia da esca.” Ha continuato Severino, pensando a sé stesso e sua moglie, nel suo raziocinio davanti a un caffè nero fumante e a sei occhi spalancati.

“Ma se non li ammazzano dopo non serve a niente. L’usura è un reato da niente.” Giangio ha volutamente rovinato il progetto, almeno così ha creduto al momento.

“Se sono costretti a fare un’assicurazione sulla vita però…”

“Nooo. Ci vuole troppo tempo.”

“E poi non mi quadra ancora una cosa, il morto mummificato perché hanno acceso aria condizionata e deumidificatore? L’hanno ridotto a una mummia, ma per quale motivo?” Ha chiesto Severino.

“Forse per impressionare i debitori, ma non ce n’era alcun bisogno, per me è qualcosa di sinistro oltre la necessità, dico io.” Ha risposto, anche a sé stesso e ai dubbi di Mauro, pelosi come il suo cognome.

“Il morto deve essere ammazzato, ma non si sa come, e deve essere trovato alla svelta, ma se l’assicurazione non sa dimostrare che è stato ucciso, allora deve pagare.” Ha detto Mauro.

“Cioè a chi deve pagare i debiti deve sembrare morto ammazzato, agli altri invece no.” Ha concluso Severino.

 



 XVI) E LA LEGGE IN VIGORE? (15)

 

Secondo Bice, per quello che gli raccontava Severino, Marchigno la prendeva piuttosto alla sportiva, sennò la sua esistenza sarebbe stata molto più infernale, era come quei bravi psicologi che oltre a curare non si guastano le cose della routine e vivono dando importanza a quello che fanno ma non troppa, mantenendo la necessaria distanza per poter aiutare gli altri.

Marchigno aveva un forte rapporto con il cibo, abituato e viziato dall’Italia centrale, gli piacevano abbestia la gastronomia e la culinaria, forse era per questo che non aveva resistito tanto in Brasile, ci si mangiava troppo male, in più non c’era scelta, avevano un menù limitato. La moglie anche era stata d’accordo e, dopo quattro anni, erano venuti in Italia.

La loro l’indagine era importante per tutti, ma per Severino lo era molto di più. La vita non era mai stata un gioco, per lui, forse lo diventava quando stava con gente che non lo faceva pensare alla realtà. Per lui trovare quell’assassino e condannarlo era questione di vita e di morte. E a morte lo avrebbe volentieri condannato e giustiziato personalmente.

Per Giangio tutto era importante e niente veramente lo era, non si rovinava mai il sonno e riusciva a godere delle più piccole cose, amava la natura e la solitudine non gli pesava, perché aveva numerosi e goderecci contatti con la gente e il mondo. Non aveva paura di morire, eppure la vita gli piaceva.

Tutto il contrario di me.

Era un maestro nel suo gioco di flessibilità quotidiana, quello che in Brasile chiamano jogo di cintura. A proposito: Bice era entrata in contatto con Telma, la moglie brasiliana di Marchigno, era curiosa di conoscerla e magari anch’io, indirettamente.

Giangio aveva preso tutte le cose stampate da Tore, documenti che a loro, pur sembrando sospetti, non dicevano abbastanza. Il loro piano era consultare il milanese Pietrogiovanna, un amico detective privato di Ambrogina, apparentemente solo un bauscia pelato, che si vestiva anche in maniera piuttosto pacchiana, che però al posto dei capelli era dotato di metaforiche antenne paraboliche.

Giangio, dopo questo colloquio a distanza, il giorno seguente è tornato fuori dal rispettivo computer, più indispensabile e relativa internet, con mezze notizie e tre quarti di ipotesi, per gli altri membri della congrega.

Nella riunione adiacente ha letto e recitato con voce da poliziottesco un po’ sull’avvocatizio:

“L’art. 1815 c.c. in materia di mutuo prevede che Salva diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante. Per la determinazione degli interessi si osservano le disposizioni dell’art. 1284. Se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi. Gli interessi rappresentano la prestazione corrispettiva gravante sul mutuatario. Il secondo comma dell’articolo in questione (che originariamente prevedeva: Se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e gli interessi sono dovuti solo nella misura legale) è stato sostituito dalla legge 7.3.1996, n. 108, recante disposizioni in tema di lotta all’usura. Il reato di usura disciplinato dall’art.644 c.p., appartenente alla categoria dei delitti contro il patrimonio, punisce con la reclusione da due a dieci anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro: chiunque, fuori dei casi previsti dall’art. 643, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o vantaggi usurari.”

“Madonna mia, questo è un azzeccagarbugli.” Ha detto Marchigno.

“Bel lavoro Giangio, non ti sei baloccato come al solito ed hai fatto diligentemente e con dovizia di particolari inutili il compito per casa.” Ha concluso Severino e Giangio ha sorriso e scosso lento la cervice, disapprovando le sue parole.

Alle spicce però ha spiegato cosa significava quello che aveva appena letto, la presenza in loco di tale documento confermava e smentiva certe ipotesi, ma soprattutto confermava.

Pietrogiovanna anche pensava che altri documenti non ufficiali (che Giangio ha letto puntualmente ai restanti tre moschettieri) su promemoria ricchi di particolari incomprensibili per loro, ma non per il milanese che il suo lavoro lo conosceva a menadito, riguardo i quattro morti di morte accidentale ma non troppo, (più altri dodici sui quali si sarebbe indagato in seguito, non necessariamente già defunti,) non smentivano ma piuttosto confermavano, se non come prova, piuttosto affatto non casuali coincidenze di tali macchinazioni illecite e in un certo senso abominevoli.

Marchigno ha detto subito dopo che suo fratello Marcello, che lavorava in banca a Empoli, guarda caso sapeva a memoria che le banche avevano questa abitudine di far firmare una assicurazione sulla vita a chi prendeva prestiti ingenti, grosse cifre. Figurarsi se gli strozzini non prendevano le loro precauzioni, con le banche avevano tante cose in comune, tra cui i metodi senza pietà per i malcapitati.

Stavano arrivando le vacanze di Natale, periodo meno agognato per l’ex capitano convinto anti-consumista, e se ne sono dovuti tornare a casa, ovviamente Dina la sorella della moglie aveva bisogno dell’appartamento per le due sacre settimane bianche a cavallo delle feste comandate e comunque era diventato troppo freddo per i suoi gusti, Bice invece c’era abituata, lei e sua sorella erano notoriamente originarie delle montagne pistoiesi.

Era passato un bel po’ di tempo, sei mesi o giù di lì, e la polizia stavolta non brancolava più nel buio solo perché i giornalisti avevano smesso di occuparsene. Un serial killer che non si trova e per di più smette subito di uccidere, automaticamente diventa ancora più misterioso, ma passa nel dimenticatoio.

Severino è andato a parlare con Carlo e Rina, ha cercato di apparire meno minaccioso possibile, ma forse non gli è riuscito tanto bene. Lia era di là con Giangio. Gli ha fatto capire di aver capito cosa facevano, i loro amici, conoscenti o colleghi, ma hanno ignorato il suo tentativo, secondo loro magari poteva farsi i fatti suoi, anzi, forse era anche meglio.

Nei dintorni dell’ufficio del mafioso usuraio gli interrogati hanno confermato i traffici loschi e il movimento continuo di gente che entrava e usciva, con facce deluse o preoccupate, si è notato che alcuni scherzavano nervosamente per sdrammatizzare. Comunque nel palazzo c’erano anche altri uffici e chi usciva poteva essere di tanti tipi e i commenti di più ancora, meglio non fare di tutta l’erba un fascio. 

A fare da esca alla fine c’è andato Giangio con la sua amica Ambrogina, La Porta non c’era, ma all’uscio di un ufficio moderno standard, un suo uomo con la cravatta piena di tazzine e piattini li ha ricevuti, a Chiesina forse anche Uzzanese, in piazzetta Tal dei Tali, numero mezzo scancellato.

Gli sono parsi tanti quarantamila euro, ma ha detto di tornare il giorno dopo, mentre loro si informavano. La pratica era però che si dovesse firmare un’assicurazione sulla vita. Giangio ha riempito i formulari, la conversazione è durata una mezz’ora ed è stata da lui registrata con un piccolo tascabile. 

 


  XVII)  THRILLER, GIALLO O NOIR? (17)

 

Ilio De Santi diceva che secondo i suoi informatori, la facciata non era solo una facciata, che compravano e rivendevano articoli di ogni tipo, ma soprattutto di generi alimentari scaduti o vicini alla scadenza. Una cosa perseguibile per legge anche quella, ma meno grave. Spesso i compratori erano supermercati e ipermercati. Geraldinho non c’era quasi mai in sede, che poi erano tre solo in provincia di Pistoia, ma pare che la principale fosse quella di Chiesina Uzzanese.

 

Pure lui è camuffato, con la carica che ha non potrebbe essere differente, ma da alcuni particolari lo ho riconosciuto, perché eravamo alle medie insieme e ora è amico di amici, o gente che si crede tale. Da mesi sono in corrispondenza saltuaria e discontinua con Ilio De Santi su Facebook, il capitano dei Carabinieri di Pistoia. Lui è un altro che si immagina chissà cosa di me, ma io sono bravissima a fargli credere quello che voglio.

Attraverso le reti sociali è fin troppo facile, per chi è abituata a fingere di presenza, con la gente che ti guarda negli occhi. Le foto del mio profilo sono di un’attrice boliviana di mezza età, una bella donna, ma non bellissima e con qualche malcelata ruga. Ce ne ho anche pubblicate di quando era bambina.

Lui vuole incontrarmi, ma io non cedo, faccio la sdegnosa, alternata alla sciantosa, cerco di scucirgli notizie, è piuttosto abbottonato, ma indirettamente qualcosina ogni tanto mi arriva.

Voleva fare sempre il colto e l’interessante, naturalmente io non abboccavo.

“Tu sai che io sono un lettore acerrimo, soprattutto gialli, noir e libri dalla trama imprevedibile, che non sono tanti e spesso non sono nemmeno famosi. Bisogna scavare.” Ha detto un giorno Ilio.

 “Ma che tipo di storia è quella del tuo caso dello strozzino?” Ho chiesto io.

“Non lo so ancora. Ecco, oggi si distingue, la differenza tra giallo, noir e thriller, tre generi letterari che poi diventano anche film, generi che hanno molto in comune, ma che non possono e non devono più essere mischiati a piacimento, ci sono cose mischiate, che non appartengono né all’uno o all’altro genere, o a tutti e tre, o a due soli, insomma.”

“E allora quali sono ‘ste differenze?”

“Prima di tutto: la vita è diversa dai gialli, dai noir e compagnia cantante. Il noir rappresenta in qualche modo l’altra faccia della storia di un crimine, quella vista dalla parte del criminale. Manca del finale consolatorio che tranquillizza il lettore e assicura il colpevole alla giustizia. A differenza del classico giallo. Invece nel noir, quello che veramente conta è uno spaccato di una certa società – periferie emarginate, città un po’ decadenti, sobborghi piuttosto malfamati – ma il protagonista in chiaro-scuro e ai margini della legge.  L’importante è raccontare, attraverso l’indagine poliziesca, altre cose, gli aspetti oscuri di una città o della collettività, spesso nel noir la figura dell’investigatore passa in secondo piano.”

“Qui si parla di tante altre cose, quindi mi pare un noir, l’investigatore non è in primo piano, che quello saresti te, ma non mi sembra che tu investighi tanto…”

“No, siamo un po’ bloccati, abbiamo due casi grossi, figurati, da una parte ci sono questi morti misteriosi, senza sapere nemmeno di cosa sono morti, ma hanno in comune questo mistero e i chicchi di grano in tasca…”

“Secondo te quindi sono simbolici i chicchi?”

“Ma simbolici di cosa? Non si capisce.”

“Forse rappresentano i soldi?”

“Boh? Lo dice anche Piccinini, ma quello è fesso, ci sono troppi punti oscuri… Comunque, veniamo a noi. Il noir rappresenta guasi-guasi la faccia in un certo senso opposta del giallo. Ora andrò a spiegarti invece la differenza tra giallo e thriller analizzando le differenze per categoria.”

“E chi è ‘sto Piccinini?”

“Quante cose vuoi sapere. Il mio vice. Che non capisce una mazza.”

“Perché?”

“Figurati che dice che i due casi sono collegati e complementari.”

“Cioè i morti ammazzati e gli usurai?”

“Sì, secondo me ha visto troppi film alla tv!”

“Scusa, ma non potrebbe essere?”

“Nooo, non dimentichiamoci che siamo nel nord della Toscana. No-no, troppo drammatico, troppo simbolico, allora che interesse potrebbero avere questi che vogliono ad ogni costo attirare l’attenzione su di sé?”

“Infatti, non ha molto senso.”

“No, no. Gli ho dato le ferie a Piccinini, così si leva dai coglioni. Con rispetto parlando, è chiaro.

E al di là di personaggi e ambientazioni più o meno sviluppate, il classico giallo si snoda attorno alla soluzione di un unico caso. C’è un investigatore, un colpevole, un cadavere e una serie di indizi disseminati lungo le pagine al scopo di invogliare il lettore a formulare una sua idea in linea con quanto letto. L’obbiettivo è risolvere l’enigma e dunque smascherare il colpevole. Nel thriller, invece, è tutto diverso: la trama può riguardare molteplici aspetti (anche a causa del miscuglio dei sottogeneri), dall’omicidio di una persona al rapimento di un bambino, da un traffico illegale di droga alla storia di un serial killer che commette efferati delitti, dalla volontà di fermare una potente arma batteriologica e così via. Si parla dunque, generalizzando, di  crime story.  L’enigma non è più al centro dell’attenzione, ma ci si concentra anche e spesso sulla psicologia dei personaggi, e l’autore cerca a volte di instillare una morale.

Il personaggio che viene curato maggiormente nel giallo è il detective: intelligente, sveglio, pieno di intuizioni. Gli altri personaggi sono descritti in modo più sbrigativo. A farne dei tipi veramente simpatici di provano tutti, ma pochi ci riescono.”

“E come mai?”

“Perché i simpatici nella vita sono pochi, magari e non tutti poi pensano che la simpatia sia una roba che segue un canone prestabilito, no?”

“Forse, tu per esempio non sei simpatico per niente…”

“Ti sbagli. Se a volte sono antipatico è per via del mio mestiere, si perde spesso la pazienza e bisogna fingere di no, capirai. Comunque nel thriller, dato che il copione è spesso più complesso, si tende a raccontare piano piano la storia di ogni personaggio coinvolto. A volte ci sono flashback che impreziosiscono la storia, e gli attori coinvolti tendono a essere comunque persone molto simili a noi.”

“Guarda che noi siamo tutti diversi, non ce ne sono due uguali.”

“Sì. Vabbè, tu mi hai capito, cosa volevo dire, no?”

“Forse.”

“Insomma vedi che nel giallo l’indagine è al centro, quindi meticolosa, curata nei minimi dettagli. Il lettore sarà sempre un passo indietro al detective (basti pensare al classico Sherlock Holmes); anzi, se mai il lettore smaschererà in anticipo il colpevole, allora sarà proprio un giallo da quattro soldi. Nel thriller invece l’attenzione non è rivolta al caso, che fa da contorno: il lettore viene proiettato in una spirale di azione che genera stress e in un certo senso spavento (infatti thriller deriva dal verbo to thrill, rabbrividire).”

“Come persona saresti anche abbastanza colto, ma fai cascare tutto dal cielo, dovresti essere più umile, secondo me,”

“Te invece non ho ancora capito come sei, ti nascondi, fai la preziosa, ma non ho ancora visto che poche foto.”

“Se è per quello sono una bella donna, ma non sono per niente stupida, se era quello che cercavi…”

“No, che c’entra, anzi. Si sente che su di te rimbalzano le saette, non ti fai mettere i piedi in testa di sicuro, però… da investigatore mi pare che ci siano tanti punti oscuri.”

“Per forza, se ti raccontassi tutto che gusto ci sarebbe? Non volete anche un po’ di mistero, voi uomini complicati e innamorati della mamma?”

“Ma te come fai a saperlo di me e mia madre?” 

 “Mammoni! Siete quasi tutti così. E poi ho anch’io le mie fonti di informazioni riservate, non t’illudere.”

“Questa è bella! Sto vivendo un giallo con te, un noir e un thriller, messi insieme e mischiati, il giorno che ti incontrerò forse capirò, ma ora mi lasci sempre con un po’ di amaro e un po’ di dolce.”

“Nooo, quello è solo il bastone e la carota, non sei un seguace di Mussolini te?”

“Ecco, da dove lo hai tirato fuori?”

“Allora: non mi sottovalutare e con me ti troverai bene.”

“Guarda che anch’io ho i miei hackers.”

“Ah, bravo, e che sarebbero?”

“Figurati se non lo sai. Non è che niente-niente lavori per il contro-spionaggio del KGB?”

“Non esageriamo. Do’ solo un colpo al cerchio e uno alla botte, in maniera del tutto campagnola…”

“Vabbè, torniamo a noi: per quanto riguarda il finale, nel giallo molto spesso è lieto: il detective scopre il colpevole, si danno una serie di spiegazioni sul movente e sul modus operandi, e tutto finisce bene. Nel thriller la cosa è più complessa: spesso c’è un capovolgimento dei punti di vista, dove il buono diventa cattivo o il cattivo diventa buono.

Per concludere, è veramente ampia la differenza tra giallo, noir e thriller. Credo che molti scrittori così come i lettori dovrebbero approfondire il tema e smetterla di parlare di thriller solo perché fa tendenza, quando magari si riferiscono a un canonico giallo poliziesco.”

“Vabbè, se lo dici te...”

“Non sono io che lo dico.”

“Vabbè, la letteratura del ramo, ma il tuo caso sarebbe un giallo classico, secondo te?”

“Te lo dirò quando lo avremo risolto. Ma attualmente io credo di sì.”

“E invece Piccinini dice che è un thriller?”

“Infatti, forse perché ha vissuto in Brasile, là c’è una realtà diversa…”

“Diversa come?”

“Ma che ne so? Diversa e basta.”

“Ma come sei scontroso…”

“No, è che mi sembri troppo curiosa.” 

“Voglio semplicemente sincerarmi di che tipo di uomo sei, per eventualmente incontrarci, un giorno.”

“Non vorrei dare troppa importanza all’età, ma mi pare che non abbiamo troppo tempo da perdere, e poi io parlo e parlo e te non mi dici niente di te.”

“Parli e parli ma di cose che con te hanno a che fare direttamente poco o niente. Lo sai che noi vedove siamo diffidenti, già le donne in generale lo sono, e quando si tratta di uomini, beh… ancora di più.”

“Sì, lo so, è un classico, cattive esperienze eccetera-eccetera...”

“Appunto, se ti comporti da persona per bene io mi fido, vedi che io mi accorgo se fingi, che cosa credi?”

 


XVIII)  IL BENEFICIARIO (18)

 

 

«È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia un cretino. [...] e dunque una certa malinconia, un certo rimpianto, tutte le volte ci assalgono che ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genuini, integrali. Come il pane di casa. Come l'olio e il vino dei contadini».

Leonardo Sciascia, “Nero su nero”

 

“Sapere che un pazzo ha architettato tutto questo non mi aiuta, cioè non ci aiuta.” Ha detto Severino.

“Secondo Mauro questo è un tipo di pazzo poco comune, nel senso che pare anche uno assai intelligente, piuttosto capace, forse anche simpatico.” Ha spiegato Giangio.

“E allora? Diciamo che io cerco di trovare un nesso più strumentale e immediato, non tanto le ragioni lontane dell’omicidio in serie, in fondo chi se ne frega se è un tipo intelligente e simpatico?”

“Secondo Mauro trovando le ragioni si trova anche il movente e il colpevole viene subito dopo.”

“Nooo. Ci si mette un secolo. Per esempio considerare che le banche fanno fare una assicurazione sulla vita a chi prende un prestito ingente.”

“Sì, ne abbiamo parlato, ma allora che ne deduci?”

“Se questi hanno un filo diretto con le assicurazioni, fanno fare una polizza sulla vita a chi chiede loro un prestito ingente, poi se non gli restituiscono il montante più interessi gonfiati, si prendono i soldi ammazzandolo.”

“E allora?”

“Leggi qua, tante banche fanno così, è diventata una routine.”

Il sito della banca Tal dei Tali è complicato, ma alla fine c’è questa parte dell’assicurazione Caio e Sempronio, ancora peggio.

 

…scegliere il beneficiario di un’assicurazione sulla vita

 

Al momento della stipula di una polizza vita, il contraente è tenuto a designare il beneficiario, ovvero la persona che riceverà dalla compagnia assicurativa la somma pattuita, nell’eventualità che si verifichi la circostanza indicata nel contratto.

Secondo l’articolo 1920 del Codice Civile, è possibile sottoscrivere un’assicurazione sulla vita a favore di un terzo, ovvero un soggetto beneficiario della polizza che non corrisponde alla persona assicurata.

Indicando una terza persona come beneficiaria dell’assicurazione, per legge la polizza vita non rientrerà nell’asse ereditario. Di conseguenza, solo il beneficiario acquisisce il diritto di ricevere da parte della compagnia il capitale, che non può essere riformulato in quote e destinato agli eredi dell’assicurato.

Inoltre, non facendo parte dell’asse ereditario, la somma assicurata non è assoggettata alle imposte di successione.

 

Chi può essere nominato come beneficiario

 

Il contraente può specificare la figura del beneficiario di una polizza al momento della stipula del contratto, oppure in una fase successiva, inviando comunicazione della sua scelta in forma scritta alla compagnia assicuratrice, oppure indicando la nomina all’interno del testamento.

 

“Questi usano un linguaggio che io non esito a definire… anzi a dire la verità non so nemmeno definirlo.” Ha detto Severino.

“Allora non lo definiamo che facciamo prima.” Ha sorriso e dichiarato Giangio.

 Per ottenere un’identificazione precisa, è importante specificare in maniera inequivocabile il nome, il cognome, il codice fiscale e l’indirizzo della persona designata. In caso contrario, la compagnia assicurativa potrebbe incontrare difficoltà nel liquidare la prestazione alla persona corretta.

Esistono anche delle formule generiche per indicare il beneficiario:

coniuge dell'assicurato;

eredi legittimi dell'assicurato (suddivisione in parti uguali);

figli nati e nascituri dell'assicurato (suddivisione in parti uguali);

eredi indicati dall’assicurato nel proprio testamento o eredi legittimi in mancanza di testamento (suddivisione in parti uguali).

La legge permette di designare più soggetti beneficiari di una singola polizza, caso in cui è importante che il contraente specifichi la percentuale di capitale da attribuire ad ognuno di loro. Nel caso di multibeneficiari senza un’indicazione precisa delle quote personali, la suddivisione avverrà in parti uguali.

Se dovesse verificarsi, come caso limite, la dipartita contemporanea dell’assicurato e del beneficiario, la compagnia sarà tenuta a versare il capitale agli eredi del beneficiario e non a quelli dell’assicurato, nell’eventualità che questi siano diversi.

È compito del contraente informare il beneficiario della designazione a suo favore, perché sarà un compito di quest’ultimo, in caso di evento improvviso, avvisare la compagnia per avviare la pratica di versamento del capitale assicurato.

 

 

Cambiare il beneficiario

 

Il contraente può modificare il soggetto beneficiario della polizza? La risposta è sì, ed è possibile cambiarlo ogni volta che lo si ritiene opportuno.

Per effettuare la modifica si deve scrivere direttamente alla propria assicurazione, che si occuperà di cambiare il contratto riformulando la nuova nomina.

È possibile cambiare il beneficiario nel proprio testamento, inviando comunque la comunicazione di avvenuta variazione alla propria compagnia.

 

 

Designare il terzo referente

 

Il Regolatore italiano IVASS, nel Regolamento 41 del 2018 (art. 11, comma 4), ha disposto che nella proposta emessa dalla compagnia venga previsto uno spazio apposito per l’indicazione di un referente terzo, ossia una persona che abbia la possibilità di comunicare con il beneficiario nel caso in cui il contraente abbia esigenze di riservatezza.

 

“Hai ragione te. Ci credi che leggo queste cose e mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro, senza rigorosamente capire una beneamata?” Dice Giangio.

“Non me lo dire a me! Io gli assicuratori li ammazzerei tutti.”

“Non c’è bisogno di esagerare, anche loro devono guadagnare il loro pezzo di pane.”

“Ma non c’è nemmeno bisogno di fregarcelo a noi, con discorsi complicati e incomprensibili, no?”

“Forse no.”

 

Il terzo referente rappresenta una figura di supporto, diversa dal beneficiario, a cui l’impresa assicuratrice potrà far riferimento in caso di decesso dell’assicurato per poter procedere con la liquidazione della prestazione.

La designazione del terzo referente è facoltativa e generalmente può essere effettuata nelle stesse modalità di quelle del beneficiario, ossia in fase di emissione o in ogni altro successivo momento.”




XIX) AMICIZIE(19)

 

 Giangio è stato accusato di essere troppo bravo a vivere in mezzo alla gente, lui ha ammesso le sue colpe, ha confessato con timida soddisfazione e ha dichiarato:

“Se dovessi sintetizzare direi che riesco quasi sempre a cavalcare sia la realtà che l'immaginazione. La mia realtà ha bisogno dell'immaginazione come una lampadina ha bisogno della presa. La mia immaginazione ha bisogno della realtà come un cieco ha bisogno del suo bastone.

Mi piace perdere tempo, da sempre, forse questa è la mia debolezza ma è anche la mia forza.”

 

Viviamo in un mondo che misura tutto in produttività, dove il tempo deve sempre essere impiegato, ottimizzato, sfruttato. Ma cosa succede quando ci permettiamo di perderlo? Quando lasciamo che il tempo scorra senza doverlo riempire di obiettivi, risultati o scadenze?

Perdere tempo è un atto di ribellione. È dire no alla frenesia, ai calendari pieni, al mito della produttività a ogni costo. È un gesto radicale: lasciarsi andare, fare spazio al vuoto.

Perdere tempo non significa sprecarlo, ma ritrovarlo. Significa concedersi il lusso di stare, di osservare, di respirare.

La società ci ha convinto che ogni minuto deve servire a qualcosa, ma è una bugia. Perdere tempo è il modo più puro di ritrovarsi, la sola parte di noi che abbiamo davvero vissuto.


[Domenico Iannacone]

 

Mi posso permettere di giudicare gli altrui difetti, perché ce li ho anch'io e li conosco bene, anzi ce ne ho pure di più.

Mauro Pelosi, per esempio, era la persona più equilibrata: simpatico ma senza voler strafare, intelligente senza volerlo per forza sempre dimostrare, capace un po' in tutto. Solo due difetti gli avrei trovato: prima di tutto era innamorato di Ambrogina, e lei di lui, ma lui in quella maniera che gli faceva più comodo, averla per eterna amica, magari temendo che lei volesse fare sesso o che limitasse la sua sacra e inviolabile libertà.

Doveva sentire la solitudine, chi è che non la teme?

Per questo aveva il cane Filippo, per gli amici Pippo, e qui il suo secondo difetto: lasciava troppo tempo al chiuso il povero ma fedele amico, con la scusa di proteggerlo dal mondo.

Pippo era un bassotto, grasso come un barilotto, con le corte zampette che venivano fuori quasi per scherzo da quel cilindro con la pancia. Pelosi tutti e due, uno di nome e l'altro di fatto, avevano una certa complicità forzata, come il marito che a suo modo ama la moglie, ma la lascia sempre a casa e la tratta come un animale scomodo ma necessario.

Pippo guardava le persone negli occhi e sembrava capire le loro frasi che indirettamente racchiudevano il loro drammi, perciò pareva sempre triste, ma bastava tirar fuori una salsiccia per farlo diventare improvvisamente euforico.

Relegato a valle, la sera, davanti al caminetto acceso, o alla TV a volume basso, un disco di musica classica, Severino ogni tanto si rileggeva una lettera che Giangio gli aveva scritto anni prima, quando era andato in pensione e si era stabilito alla Doganaccia.

Non era esattamente un intellettuale, ma aveva una buona memoria, nonostante tutto e aveva redatto questa pratica, fatta di teorie, per i posteri, se mai a quelli gli fosse interessato di leggerla. Con la solitudine e la ginnastica giornaliera sulla montagna era diventato un po’ filosofo e soleva scrivere cose che forse nessuno avrebbe mai considerato, ma gli garbava farlo lo stesso, forse per scoprirle lui per primo. Severino gli aveva discusso alcuni punti, corretto alcune cose, ma alla fine ci aveva riflettuto e imparato certo di più lui.

“Ci chiediamo a volte che cosa sia giusto o sbagliato, nella nostra maniera di agire e reagire, dove stia il bene e dove il male, nella nostra quotidianità, nei nostri atti e nelle nostre omissioni, se abbiamo una qualche segreta missione sulla terra. Oltre il normale e logico boh (?) ci conviene spesso pensare di trovare una linea, una serie di punti fermi, di risposte valide a tacite ma insistenti domande.

Quello che c’interessa è solo ciò che ci porta dei vantaggi o bisognerebbe riflettere più compiutamente sulle conseguenze?

È forse vero che il primo prossimo che dobbiamo soddisfare siamo proprio noi stessi o è solo un detto ebraico?

Dobbiamo avere un codice di comportamento corretto, almeno ai nostri occhi, perché in fondo è la maniera più giusta ed efficace, infine più agile, per vivere insieme agli altri, visto che da soli non si può stare?

 La lotta giornaliera per la sopravvivenza distrae talvolta il vivente in modo che, concentrandosi su quella, tutto il resto, quello che gli dovrebbe dare il motivo principale per cui vivere, gli riesce male, non ha quasi tempo per poterlo mettere in pratica in maniera efficace. D’altro canto chi non ha problemi di soldi spesso si infila dei bastoni nelle ruote da solo, cercando il proprio piacere senza avere pazienza o cognizione di causa, oppure sforzandosi troppo nella ricerca di un senso della vita, senza riuscire a farlo in modo pratico, ma solo teorico e cercando peli nelle uova, che per esserci ci sarebbero anche, ma non bisogna concentrarsi troppo sul metaforico dito, piuttosto meglio sulla luna, cioè l’obbiettivo pratico e individuale del nostro vivere di tutti i giorni, non necessariamente quello della collettività o dell’umanità. Senza contare che chi c’ha i soldi c’ha anche troppa paura di perderli e quasi un obbligo ad aumentarli, è quello poi che diventa l’unico scopo della sua vita, tutto il resto passa in secondo piano. Chi non ce li ha vorrebbe averceli e questo causa frustrazione, oltre alle altre conseguenze di un mondo che diventa sempre più strumentale e legato all’apparenza, ai falsi miti, che poi anche quando sono veri, se mai ne esistessero, non servono a granché, anzi sono causa di ulteriore perdita di visione di una realtà efficace e pratica.

Insomma come diceva Bartali: gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare. Purtroppo non si può, allora una diagonale da tracciare su tutto questo quadro, potrebbe essere la filosofia, per capire e agire di conseguenza. La gente non ne ha piena coscienza, anzi nemmeno una vuota.

La filosofia non è una roba facile, perché anche avendone trovata una valida, bisognerebbe accompagnarla con dei fatti e qui viene veramente il difficile. Però non ogni tanto, magari nei fine-settimana, o durante le vacanze. No, deve essere tutti i giorni, per poterlo fare ci vuole disciplina e non è una cosa semplice essere prammatici e coerenti, in special modo se facciamo un lavoro massacrante, per esempio, se le zanzare ci pungono le caviglie e se i vicini mettono la musica a tutto volume.

Insomma la filosofia è uno sport che richiede cervello e muscoli, esperienza ed estrema sincerità con noi stessi. Chi ci riesce è bravo, vive meglio, ma non ci si può distrarre troppo, anzi nemmeno un secondo.

A volte verrebbe voglia di mandare tutto e tutti affanculo, ma anche quello non si può, almeno sulla terra, purtroppo siamo condannati: quello che non è proibito è obbligatorio, con gli anni le regole aumentano, invece di diminuire, ora a rompere le scatole e forte ci si è messo anche un virus, una pandemia, come se non bastasse il caos fisico e mentale che c’era prima.

Per questo che la diagonale, l’alternativa calcolata, è l’unica maniera per non venire macinati dagli ingranaggi della vita. Quelli non hanno pietà per nessuno.

Che ognuno scopra la sua efficace ricetta, non lo so se ho trovato la mia.”

Figuriamoci che a casa sua, a lato del caminetto ha messo in cornice una cosa che aveva trovato in un libro che rileggeva ogni tanto.

1) In montagna camminare lo sguardo fisso a terra, a dove poggiare il passo. Se si vuole guardare intorno il panorama, fermarsi. Non si sta nella zona pedonale di una città d’arte. Si sta da passanti su sentieri che rasentano precipizi.

2) In discesa fare passi corti: permettono di recuperare l’equilibrio in caso di scivolata. Il passo lungo comporta la caduta. Poggiare tutta la pianta del piede anticipando l’appoggio di tallone. La tenuta del passo sfrutta l’intera suola e aumenta l’aderenza.

Un adagio ingannevole dice che in discesa vanno pure i sassi. Certo, ma bisogna evitare di andare come loro, i sassi.

3) Fa bene imparare i nomi degli alberi del bosco che si sta attraversando. Distinguerli fa percepire il luogo con maggiore definizione. Lo stesso vale per i fiori, gli animali e i nomi delle montagne intorno. La geografia è parola greca che significa scrittura della terra. È bene percorrerla da lettori.

4) Non guardare quanto manca alla cima, al rifugio o al termine della tappa. Conta il passo seguente non il traguardo.

5) Ridurre al minimo il carico infilato nello zaino. Protezione dalla pioggia, dal freddo, il resto è zavorra. Una gita non è un trasloco. Informarsi sulle previsioni meteo, sapendo che si tratta di probabilità e non di oracoli.

Alcuni di questi accorgimenti si possono estendere al di là dell’escursione in montagna.

 

Erri De Luca - Accorgimenti alpestri

 

Gli piacciono queste cose a Giangio, le trova romantiche eppure tecnicamente efficaci, è facile con il suo entusiasmo, in pratica tutto quello che io non so apprezzare, per lui è prezioso.

 

 

 

 

 XX) CATELLO 

 

Forse l’uomo è troppo intelligente, magari è stata proprio la sua eccessiva intelligenza che lo ha fregato, qui si tratta di una donna, ma non ha importanza.

L’intelligenza umana spesso viene usata a sproposito, quella pura, quella che non ha bisogno di risultati per affermarsi come tale. Coloro che si definiscono assai intelligenti fanno degli sbagli catastrofici, e non nonostante la loro intelligenza, no, contrariamente a quanto pare logico, proprio a causa della loro stessa intelligenza.

 

Non avevo capito niente, pensavo che mio cugino e sua moglie facessero dei fuffigni (espressione toscana), ma di queste cose mostruose non mi sfiorava nemmeno il pensiero. Lei ha ragione, sono un ingenuo, ma appena mi sono accorto dei misfatti li ho denunciati.

Questi ultimi capitoli insomma li ho dovuti scrivere io, Maurizio Catelli, da Nara chiamato Catello, forse per motivi di scarsa considerazione.

Nara e Ginulfo improvvisamente non c’erano più e la storia aveva avuto un cambiamento significativo, ma rimaneva un mistero, almeno dalla parte di chi voleva sapere la verità.

Anch’io sono un pensionato, vivo a Reggio Emilia, per Nara lavoravo ogni tanto, mi faceva fare, ( pagate non in denaro, ma con un pratico scambio di favori, piuttosto sul mafioso) piccole e - forse - innocenti commissioni. Specialmente se erano cose da fare lontano da casa sua. Qualche spionaggio con registrazioni e foto di Giangio, eventuali personaggi limitrofi.

Ero un ingranaggio tra i tanti, che però non aveva idea della macchina di cui faceva parte. Sapevo che quella sua impresa avrebbe dovuto sembrare un’import-export, e per essere tale faceva anche dei movimenti di cellulosa dal Brasile principalmente, merce che andava poi alle cartiere lucchesi, tra cui la Principessa, sempre di Nara Rana e di altri tre soci, tra cui suo marito Ginulfo, mio cugino.

Qualche sospetto in più mi era venuto dopo la registrazione della cena da Bollo. Ginulfo mi ha detto di non preoccuparmi, ma da come me lo ha detto mi sono preoccupato di più.

La nostra storia è precipitata due settimane fa, di martedì. Le versioni del fatto in sé sono molteplici, ma l’assenza di testimoni fa credere che sia avvenuto così: l’ex capitano Severino De Nittis è entrato da solo alla Cartaebasta e senza avere precise intenzioni, forse ha minacciato il La Porta, magari gli ha detto che sapeva tutto e che lo avrebbe incastrato.

Gli ha dato qualche assaggio di verità per fargli capire che era ormai questione di tempo, l’arma è comparsa nella mano del bandito forse solo per intimargli di andarsene, un fatto è che Severino era disarmato e che lo era sempre stato anche quando era in servizio.

C’è stata una colluttazione e il colpo è partito, proprio in faccia a Geraldinho. La testa è esplosa come un melone maturo.

Trattavasi di una Colt calibro 45 a canna lunga. Peace-maker, come viene assurdamente chiamata. Il piombo inciso a croce, che puoi ammazzarci un rinoceronte, se spari a una persona da cinque passi gli fai una ferita di 25 cm di diametro e lo butti a una decina di metri più in là.

Severino è morto d’infarto, nel giro di venti minuti circa. Era già arrivato qualcuno degli uffici vicini, lui era pieno di sangue in faccia e sul torace, non hanno capito cosa gli stava succedendo, cercavano di tamponargli ferite che non aveva, se non internamente.

 La timidezza spesso è collegata alla sensibilità, Severino sembrava sicuro di sé: un duro, quasi un insensibile, almeno per chi non lo conosceva.

È un fatto paradossale che la professione del poliziotto richiederebbe grande intelligenza e qualità psichiche, fisiche e morali eccezionali, purtroppo non ha nulla che possa attirare persone con queste stesse caratteristiche.

I topi non avevano ancora nipoti, ma Severino ne aveva alcuni, figli dei figli emigrati in Belgio, bambini che da lontano sono stati informati del suo coraggio, forse anche della sua insensata quanto determinata testardaggine, della sua sempre più anacronistica idea dell’onestà. Però erano confusi, non sapevano se vergognarsi o esserne orgogliosi.

Giangio ha pianto, forse si è anche arrabbiato con sé stesso, avrebbe magari potuto impedire a Severino di andare là a fare quella morte che invece ha fatto. Insomma quando succede qualcosa del genere i più innocenti si sentono colpevoli e i veri colpevoli si sentono innocenti.

Si era cominciato a parlare di serial killer perché almeno quattro imprenditori falliti, uccisi nel raggio di pochi chilometri, erano provenienti da due regioni differenti, a cavallo degli Appennini, Toscana ed Emilia Romagna e due province confinanti, Modena e Pistoia,  la comunicazione tra i capi territorio non teneva conto di un fattore del genere. I vari esecutori erano andati dietro alle vittime, ma erano di gruppi differenti.

Un serial killer colpisce una determinata categoria, qualcuno che fa parte di un folle disegno, spesso dalla logica complessa e distorta, ma alla fine, col senno di poi, comprensibile. Tecnicamente però qui non si tratta di un serial killer, non si capisce se è una cosa ancora più assurda o no.

La morte dei quattro, che ancora dovrà essere catalogata insieme a tante altre di diverse regioni italiane, rimasta misteriosa per un po’ di tempo, aveva a che fare con le polizze assicurative che non pagano morti assassinati.

 Quando ho saputo che per tutti loro la causa dei decessi era infarto, che con i semi di grano cozzava un po’, anche a livello di una logica elementare, allora mi sono documentato e penso di aver capito. Anche Marchigno dice che potrebbe essere.

Si tratta di un’arma di alluminio con silenziatore azionata da una pila da 1,5 volt. Spara proiettili formati da piccole fiale contenenti un veleno a base di cianuro che, dopo 5 minuti, non lascia alcuna traccia nell’organismo umano. È formata da tre cilindri, l’uno dentro l’altro. Il primo cilindro contiene una molla e un pistone. La molla mossa da una leva spinge il pistone nel secondo cilindro. A quel momento la fialetta contenente il liquido si spezza e il veleno viene spruzzato verso il volto del nemico. La morte sopravviene in pochi istanti. Sostanza letale a effetto rapido e sicuro usato da agenti dei servizi segreti militari per assassinare i nemici. Quando il medico effettua l’autopsia constata l’arresto cardiaco e diagnostica una crisi cardiaca.

 


XXI) ULTIMO

 

 

Troppo spesso le persone hanno una sicurezza patetica, con cui quindi non fanno altro che sciocchezze. È meglio essere insicuri, perché così si diventa più modesti e più umili.

Indubbiamente il complesso di inferiorità comporta sempre il rischio di diventare eccessivo e di compensare il presunto difetto con una fuga nel suo contrario.

Un complesso di inferiorità ha sempre la sua ragione; c’è sempre realmente qualcosa di “inferiore”, ma non là dove ci si mette in testa che sia.

Modestia e umiltà non implicano alcun complesso di inferiorità. Sono virtù preziose, anzi ammirevoli, e non dei complessi. Esse dimostrano che il loro possessore non è un pazzo presuntuoso, ma conosce i propri limiti e non si avventurerà mai alla cieca oltre i confini della sua natura abbagliato ed ebbro della sua presunta grandezza.

Le persone che si credono sicure sono quelle veramente insicure.

La nostra vita è insicura, e perciò un certo senso di insicurezza corrisponde al vero molto più dell’illusione e del bluff della sicurezza.

Nel lungo periodo vince chi ha raggiunto il migliore adattamento, e non colui che presume di essere sicuro di sé e si espone a ogni sorta di pericolo, interno ed esterno.

Non ci si misura solo col denaro o col potere!

La pace dell’anima conta di più»

Da «Un colloquio con C. G. Jung sulla psicologia del profondo e la conoscenza di sé»

 

«È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia un cretino. [...] e dunque una certa malinconia, un certo rimpianto, tutte le volte ci assalgono che ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genuini, integrali. Come il pane di casa. Come l'olio e il vino dei contadini».

Leonardo Sciascia, “Nero su nero”

 

Bice è andata a vivere con la sorella. Suo malgrado Lia aveva capito tutto. Pur non intendendo esattamente cosa, in pratica ha fatto il collegamento principale tra fatti e contro-fatti.

Lia magari da grande sarebbe diventata una poliziotta, ma non lo sapeva ancora, prima ancora una hacker intera, forse anche una e mezzo, la polizia aveva estremo bisogno di questa gente.

Tanto per cominciare i computer dei genitori di Lia venivano regolarmente monitorati e quando erano da soli li spiava anche per sentire se parlavano di cose losche.

I genitori non c’entravano e questa era la cosa più importante, ma erano a conoscenza di particolari che forse avrebbero potuto denunciare, ma non avevano prove, solo cose sentite dire.

 Quella bambina era un fulmine a ciel sereno, un’indagine parallela alle due già esistenti la aveva portata avanti Lia, che avendo in casa i suoi genitori trafficoni internettivi (o internettuali) aveva un potenziale vantaggio su tutti. Un esempio per me, che invece credevo di credere, invece no.

Se non fosse stato per Lia, forse Nara se la sarebbe scampata, ma la bambina che aveva sorpreso più volte i genitori a parlare, direttamente o indirettamente, di lei e dopo averla vista nelle foto del nonnetto Giangio, l’aveva notata aggirarsi intorno alla casa di lui e ai due luoghi dei delitti alla Doganaccia.

I genitori le hanno detto che si era sbagliata, che non poteva essere lei, ma Lia invece era convinta e determinata, è andata a dirlo a Giangio. Il quale poi ne ha parlato a Severino. Il Piccinini ha contattato il De Santi, il quale aveva trovato piuttosto strano che una tale Vedova Bianca su Facebook si fosse dimostrata oltremodo curiosa delle sue indagini sullo strozzino brasiliano, dei morti ammazzati in maniera misteriosa e non avesse mai accettato di incontrarlo.

Insomma alla fine hanno avuto il sospirato mandato di perquisizione, sembra impossibile ma succede spesso che proprio i dirigenti a volte tardano a capire le cose, quando tutti gli altri le sospettano da tempo. In casa comunque non hanno trovato niente, la cassaforte era stata svuotata dei gioielli e di altre cose preziose, documenti eccetera. De Santi era contento, la sua Vedova Bianca non c’entrava niente!

Qui sono entrato io: i documenti decisivi erano nel computer di Nara? Ci voleva un robusto hacker, diciamo pure cazzuto.

 Ricollegando le due parti, recuperate da Tore attraverso l’e-mail di Nara, ma soprattutto attraverso quello di Ginulfo, che io conoscevo, oltre al memoriale da lei scritto, che separatamente parlava dello spionaggio di Giangio ben diviso dalla sua ramificata storia di malvivente, che però risultavano legate con doppio filo invisibile da quella nostra indagine parallela e quella di Lia, che poi si è rivelata determinante.

C’erano i numeri degli incassi e i particolari di tutto il complicato marchingegno, schemi e grafici inclusi.

Nara Rana però era scomparsa, non è stata più ritrovata e neanche il marito Ginulfo.

Una psicopatica in genere vede il suo lavoro solo come mezzo per arrivare a risultati in denaro e/o potere. Invece Nara amava in qualche modo distorto e abnorme il suo lavoro, tanto che lo proteggeva anche da sé stessa, eliminando ogni notizia che venisse da fuori e che potesse danneggiarlo o solo influenzarlo. Non erano solo i soldi che le interessavano.

Apparentemente era una normale - se solo la normalità esistesse - intelligente e tutto, arguta e affabile, forse un po’ troppo solitaria, ma quello non è un crimine.

Recitava a memoria, meravigliosamente bene e senza ridere, le battute dette dagli altri, ma non era tanto per divertirsi, le usava piuttosto per far credere che lei fosse quello che voleva che gli altri pensassero.

Magari il fatto che avesse un codice di comportamento assai logico e pieno di buonsenso, nei limiti del possibile, le aveva permesso di agire indisturbata per anni. Le direttive non erano mai scritte, né i documenti più scabrosi, tutto per cellulare o personalmente. Il cellulare non è stato mai ritrovato, ma doveva essere intestato a qualcun altro, insomma di inghippi lì se ne possono fare diversi.

Nara diceva sempre che la realtà non aveva temperatura, quando qualcuno la accusava di interpretarla con una certa freddezza.

Alla fine si è scoperto che quella di Chiesina era solo una succursale, che ce ne erano dodici in tutta Italia e forse anche all’estero, ma è ancora da dimostrarsi. Nel sud non c’era niente perché la mafia non glielo avrebbe permesso e lei lo sapeva. Non si sa ancora quale fosse la centrale, ma probabilmente era a casa di Nara stessa.

La facciata della Cartaebasta non era solo una facciata, si è constatato, importavano veramente e cose di vario tipo. Erano principalmente import ed export di cellulosa, che poi vendevano alle cartiere lucchesi, compravano e distribuivano prodotti alimentari scaduti o vicini alla scadenza, poi contraffatte le date e venduti ai supermercati. In seguito alcune ditte sospette e legate a loro all’estero sono risultate fantasma, solo per distribuire clandestinamente funzioni, direttive e materiale senza essere direttamente scoperti.

I capi filiale erano stati tutti scelti personalmente da lei, diversi erano brasiliani, più altri sudamericani, qualche polacco e russo, un albanese. Tutti uomini.

A capo di tutto c’erano Nara Rana e il suo non marito Ginulfo Biancucci, che da solo era un uomo innocuo, ma di scarsa morale, facilmente manipolabile. La mente era solo lei, lui era un parziale braccio e nemmeno tanto buono, a quanto pare. Un burattino specializzato, scelto per fare quello che voleva lei, uno che teneva l’ordinaria amministrazione, la contabilità e i collegamenti con i vari capi agenzia, ma non si prendeva mai un’iniziativa. Ogni filiale aveva un capo che guadagnava anche assai, ma in base alla produzione. La storia dei morti Ginulfo la sapeva, non poteva ignorarla, eppure la negava anche a sé stesso.

 Fisicamente Nara non aveva paura di niente, solo l’irragionevole paura di aver paura l’angosciava e la faceva soffrire tutti i giorni, il non riuscire a controllare tutto quello che le succedeva attorno.

Nella vita il sapersi adattare alle situazioni è una delle virtù più importanti, ma c’è gente che non ne è capace. Giangio sapeva fare buon viso a cattivo gioco e quel gioco, piano-piano diventava buono veramente.

Nara ad alcune cose si adattava anche troppo bene, ma non le possedeva, perché saltava delle fasi essenziali, a cominciare dai sentimenti. Forse il suo difetto maggiore era che affezionarsi non le sembrava importante, le interessava solo perché piaceva agli altri, e sapeva fingere bene, ma non tanto da crederci.

Aveva trovato un nuovo compagno che la assecondava in tutto e lei non amava essere contraddetta, faticava troppo a seguire e a sfruttare i desideri altrui.

Perché di propri non ne aveva.

La colpa era della sua educazione, probabilmente, Nara era assai intelligente, ma incapace di usare positivamente la sua capacità. La sua aggressività era sfociata in una ricerca di denaro e potere, a tutti i costi, pur avendone già abbastanza per vivere negli agi, insomma, indirettamente anche ammazzando la gente, perché no? Alla fine la gente era importante in senso generale, ma consistere in quattro individui in meno, o anche cento, per lei non faceva alcuna differenza.

Che cosa era successo a Nara Rana, per diventare quella che era? Non poteva essere troppo differente da quello che era accaduto a tanti altri, che però avevano sfogato le loro magagne in modo diverso.

Alla luce di quello che è venuto fuori, certo si poteva dire che Nara fosse una psicopatica, ma di un tipo abbastanza complesso, perché non era una che inseguiva solo il traguardo, ma si godeva, in una certa qual maniera, un po’ anche il percorso, quasi senza accorgersene, il suo cammino verso il successo, la sua vittoria senza pietà per i vinti.

Nara scriveva quello che pensava e diceva cose che nella vita non avrebbe avuto mai occasione di dire, specie al suo ex marito o a proposito di lui.

Di lei hanno fatto una diagnosi mista, a distanza, con l’aiuto dei suoi tanti o troppi terapeuti, nel senso che le sue malattie mentali erano varie e incrociate. Io lo so che alla fine nessuno è normale, ma ci sono vari livelli e classificazioni. Spesso anche tirando un po’ a indovinare, a cercare di spiegare con la logica cose che a livello di scienza sono poco dimostrabili, o per niente.

Bice ha finalmente ricollegato il suo crescente interesse per le notizie su Giangio. Quando ha saputo dei fatti si è sentita in colpa per aver rivelato tante cose a Nara, indirettamente le è sembrato di aver contribuito alla morte di suo marito.

Un’ingenuità, certo, ma forse non determinante. Certo appare che attraverso Bice lei abbia capito per tempo che era meglio scappare, ma anche con quello che Ilio De Santi, non volendo, le aveva confidato.

Ho discusso con Giangio e gli altri del perché lei avesse occultato, anche attraverso un codice, quelle cose che poteva facilmente portare con sé, oppure distruggerle. Ne ha avuto certo l’occasione e il tempo necessari.

“Dentro di sé una logica ce l’aveva di sicuro… io non ce l’ho mai fatta a capirla, Nara, a volte sembrava che volesse complicare le cose di proposito, forse solo per nascondere la verità.” Ha detto Giangio triste e pensieroso.

“Forse voleva che tutti la considerassero intelligente, ha sempre avuto questa fissazione, di credere allocchi tutti gli altri e di dover dimostrare che lei invece no… lei era diversa, lei era l’unica veramente intelligente. Farci tutti fessi e poi andarsene tranquillamente via.” Ha detto Mauro.

Mi sono immaginato una spiaggia brasiliana e lei lì a rimuginare, forse pensando a una feroce vendetta, a bocce ferme, magari bevendosi un cocktail insieme a Ginulfo, addormentatosi nel frattempo sulla sdraio sotto l’ombrellone, con il cappello sugli occhi e una camicia hawaiana sgargiante.

Per lei la vita era come giocare a flipper, alla fine ha spinto troppo e ha fatto tilt, ma non si sentiva per niente sconfitta. 

 

 

 

 


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