L’uomo si
identifica con il ruolo che è costretto a vivere: padre, figlio, padrone,
operaio, dirigente, impiegato, intellettuale, guru, furbo, tonto, forte,
debole, ecc. Per ognuno di questi ruoli esistono comportamenti sociali,
abbigliamenti, modi di pensare e di esprimersi cui ciascuno si adegua
inconsapevolmente.
E quindi non
siamo mai individui autentici, ma veri e propri imitatori: imitiamo modelli e
stereotipi prodotti dalla società in cui viviamo. Persino nei comportamenti più
intimi recitiamo in realtà dei ruoli precostituiti. L’inquinamento della nostra
mente è troppo esteso. Bisogna imparare a dire la verità, ma per dire la
verità, bisogna essere diventati capaci di conoscere che cos’è la verità e che
cos’è la menzogna, soprattutto in sé stessi.
Georges Ivanovič Gurdjieff
Adailton e Odair
Rocinha era un quartiere della
Zona Sud della città di Rio de Janeiro in Brasile. È ancora una della 700
favelas che fanno parte della città di Rio. In più è la favela più grande
del mondo e conta oltre 150.000 abitanti ufficiali.
Ada stava cominciando alla non più verde età di
cinquant’anni a soffrire di solitudine, sebbene avesse passato ogni giorno
della sua vita in mezzo a un formicaio di persone. Da un poco di tempo aveva
perso la voglia di vivere, e ne aveva sempre avuta poca. Ada non aveva amici,
né una donna, nemmeno un cane, aveva solo una tartarughina: Ninja. Cioè Ninja
era il suo nome e si ricordava di lei una volta al giorno, quando gli dava il
mangime. Un povero animaletto inespressivo ma testardo, che insisteva
caparbiamente nel sopravvivere e che, a volte, gli sembrava che gli
assomigliasse, non solo fisicamente.
Adailton era sempre sorridente, ma dentro era un’altra cosa, in Brasile nessuno sembrava triste, tutti scherzavano e parlavano assai, a volte erano veramente felici, o almeno si sentivano vivi, perché sapevano che non potevano abbandonarsi troppo alla malinconia, come nei paesi più sviluppati nei quali la gente andava dallo psicologo e si lamentava - senza accorgersene - di avere pochi autentici problemi.
D’accordo, poi con la crisi mondiale sorsero dei problemi veri, ma non
li sapevano affrontare serenamente, proprio perché avevano vissuto degli anni
inventandosi i loro stessi guai.
In Brasile invece le persone si divertivano con poco, il giorno per
giorno le spingeva, lavoravano tanto e non guadagnavano quasi niente, la vita
non era facile, ma era pur sempre la cosa migliore che avevano, insomma:
l’unica. Chissà, invece, che cosa sarebbe successo dopo.
Ecco che una domenica mattina qualcosa convinse Adailton che doveva
proprio andare a visitare suo cugino Odair. Da anni non lo vedeva, l’ultima
volta avevano fatto un churrasco da lui, una tradizionale
grigliata, una grande riunione di famiglia e di amici. perché Oda si stava per
sposare e voleva far conoscere la sua fidanzata francese Chantal a tutti i
parenti.
Nell’euforia alcolica, alla quale non era nemmeno troppo abituato, Ada
si era dimenticato di riportare a casa i suoi spiedi nuovi. Fu proprio quel pensiero che
lo fece decidere di smuoversi dalla sua solita apatia. Quegli spiedi di
Ada abbandonati a casa di Odair detto Oda, da anni. Ada doveva proprio andare a
riprenderseli.
Oda e Ada erano di origine meridionale, la loro cultura era quella
Gaúcha, le loro famiglie avevano stazionato alcune generazioni nella terra
del churrasco, e questo fatto fu decisivo, affinché Ada si
decidesse a fare quei chilometri che lo separavano da Oda e da un grande
cambiamento della sua vita. Non sapeva il vero motivo di quel viaggio
attraverso le favelas di Rio de Janeiro, credeva di andarci per via degli
spiedi. Insomma il destino è sempre stato una roba sottile ma insinuante, a
volte impercettibile, ma forte, a volte, specialmente quando non sembra
proprio.
Detto fatto, dopo una sommaria colazione con caffè, pane e margarina,
scese verso la strada attraverso i vicoli cementati della favela. Era una
giornata di sole incerto, sulla strada al di sotto il transito era caotico,
come sempre, il rumore assordante era un misto di centinaia di suoni. C’era
la feira de rua (mercatino di strada), tirava un
venticello fresco che veniva dal mare, dalla Baia di Guanabara.
La favela Urubu (Avvoltoio) era lontana, Ada cambiò due autobus e la
vide finalmente su una collina che, da lontano, pareva perfettamente ovale, le
casupole attaccate con la forza dell’ostinazione sulla curva ripidissima del
pendio. Adailton dovette attraversarla
dal basso verso l’alto e gli ci volle quasi un’ora, anche perché si perse più
volte e finì per chiedere informazioni in giro.
Quando chiese di Oda, gli domandarono se quello che cercava era Oda il
Distante di Responsabilità, (Oda o Distante de Responsa), lui
disse di no, insomma che non lo sapeva, ma loro replicarono che era l’unico Oda
che conoscevano e allora che abitava lassù in alto, dove finiva la favela e
cominciava il boschetto sullo strapiombo detto il cimitero dei giustiziati.
La casupola di Oda era l’ultima, sassi e pietroni, più i grandi alberi
rendevano difficili gli ultimi cento metri della collina, prima del grande
roccione, luogo di esecuzioni dei trafficanti traditori o presunti tali e alla
base del quale, sull’altro versante, in mezzo ai cespugli e alla spazzatura più
resistente ai fattori atmosferici, i cadaveri, in mezzo ai cespugli, senza
fretta diventavano scheletri.
Favela
Con il termine favela si indicano le baraccopoli
brasiliane,
costruite generalmente alla periferia delle maggiori città. Le abitazioni sono
costruite con diversi materiali, da semplici mattoni a scarti recuperati
dall'immondizia e molto spesso le coperture sono in Eternit.
Problemi comuni in questi quartieri sono il degrado, la criminalità diffusa e
gravi problemi di igiene pubblica dovuti alla mancanza di idonei sistemi di
fognatura e acqua potabile. Sebbene le più famose fra esse siano localizzate nei sobborghi di Rio de
Janeiro, vi sono favelas in tutte le principali città del
paese.
Il nome favela deriva da un fatto storico: rifugiati ed ex
soldati reduci della sanguinosa guerra di Canudos (1895
- 1896), nello stato di Bahia,
occuparono un terreno collinare libero presso Rio de Janeiro, poiché il governo
che alla fine della guerra aveva smesso di pagarli, non diede loro delle
abitazioni in cui vivere. Questa collina, chiamata in precedenza Morro da
Providência, fu da loro denominata Morro da Favela come il luogo sede
del principale accampamento militare nella guerra di Canudos (essi crearono in
questo modo il loro accampamento nei pressi dell'allora capitale). La favela o
faveleira (Cnidoscolus quercifolius)
è una pianta che cresce prosperosa nel semi-arido sertão brasiliano
dove ebbero luogo le battaglie contro i ribelli di Antônio Conselheiro.
Nel corso degli anni la maggior parte della popolazione povera,
costituita per lo più da ex schiavi liberati in seguito alla legge Aurea del
1888, si trasferì lì rimpiazzando gli originali rifugiati e divenendo il gruppo
etnico maggioritario. Tuttavia, molto prima che il primo insediamento chiamato
"favela" diventasse una realtà, i neri liberati venivano allontanati
dal centro della città verso i sobborghi. Le Favelas erano abitativamente
vantaggiose per loro poiché gli permettevano di essere vicini al lavoro, e
nello stesso tempo di tenersi lontani da luoghi nei quali non erano benvenuti.
La maggior parte degli abitanti di una favela (chiamati in senso
dispregiativo favelados) sono poveri e vivono con meno di 100 dollari al
mese. Le abitazioni sviluppate in maniera irregolare e con materiali di bassa
qualità sono spesso costruite sui fianchi delle colline (in portoghese morros)
su un terreno franabile in precedenza ricoperto da vegetazione. Le piogge
torrenziali tipiche di queste zone causano numerosi crolli e anche un elevato
numero di vittime. Il degrado sociale e la povertà favoriscono anche il sorgere
di attività criminali. Nelle recenti decadi, le favelas sono state disturbate
dai crimini legati alla droga e alla guerra tra gang. Secondo alcuni un codice sociale comune
proibisce ai residenti delle favelas di essere coinvolti in attività criminali
all'interno della loro stessa favela e l'ordine viene mantenuto dalle
organizzazioni criminali che si sostituiscono al potere dello Stato. Le Favelas
sono spesso considerate una disgrazia e una vergogna dai brasiliani, ma possono
essere viste come una conseguenza della distribuzione ineguale della ricchezza
nel paese e alla mancanza di politiche a sostegno della popolazione più povera.
La maggior parte delle attuali favelas carioca crebbero
negli anni settanta, quando il boom dell'edilizia dei quartieri più ricchi
spinse un gran numero di lavoratori a una sorta di esodo dagli stati più poveri
del Brasile verso Rio de Janeiro in cerca di fortuna. Vasti allagamenti nelle
aree povere a bassa quota di Rio contribuirono inoltre a far muovere la gente
verso le favelas, le quali si trovano sui versanti collinosi della città.
Secondo una ricerca del 2011 fatta dal Istituto brasiliano di
geografia e statistica, IBGE, oltre 11,4 milioni di cittadini brasiliani, ovvero circa
il 6% della popolazione, vivono nelle favelas.
https://it.wikipedia.org/wiki/Favela
Chantal e Odair
Ma quante cose devono accadere a un uomo prima che egli si renda conto che il successo esteriore visibile, che si può toccare con mano, è una via sbagliata! Quali sofferenze devono colpire gli uomini prima che essi rinuncino a saziare sul prossimo la loro brama di potere e volere che tocchi sempre all'Altro! Quanto sangue deve ancora scorrere prima che agli uomini si aprano gli occhi per vedere la loro personale via e il proprio nemico, finché non si rendano conto di quali siano i loro veri successi! Tu devi poter vivere con te stesso, non a spese del tuo vicino!
C. G. Jung, Il Libro Rosso, pag. 310
Le donne, il sesso e l’amore sono robe problematiche, per noi uomini,
dal nostro punto di vista. Certo lo sono anche per le femmine, dall’altro lato,
gli uomini il sesso e l’amore, ma io comprendo già poco il mio, per occuparmi
anche del loro.
Per esempio, quando entrai in casa di Chantal rimasi subito conquistato
dal gusto sobrio dell’arredamento, dalla vista meravigliosa sul fiume, poi
dalla sua simpatia, dalla sua calma, dalla sua maniera di guardare, di toccare
le cose, ma prima ancora dalla sua bellezza fisica.
Finalmente una creatura francese di sesso femminile che sapeva ascoltare
e che parlava solo quando aveva qualcosa da dire, non che gli uomini moderni si
comportino meglio, in generale, ma le donne m’interessano di più.
Mi fece strada tra le stanze arredate con gusto e le varie sfumature del
beige contrapposte ai marroni di legni chiari, scuri e intermedi, sfumati e
misti, dalle vetrate la vista sotto, su quel favoloso mondo circostante, la
natura senza tracce dell’opera degli esseri umani, era da togliere il fiato.
Certo che anche i suoi movimenti non favorivano la mia più serena
respirazione, ma dopo poche sue parole non la vedevo già più come un oggetto
sessuale, ma come una magnifica compagna, una donna completa, simpatica,
affabile, sicura di sé ma non interessata a dominare, piuttosto a condividere.
Ovviamente mi sbagliavo, come tutte le altre volte, ma non lo sapevo e
mi volevo illudere, perché quell’illusione mi dava una voglia di vivere che in
altre maniere non riuscivo a ottenere.
La lezione in sé era diventata un particolare insignificante per me. Ero un professore competente, le regole e la didattica erano diventate poi routine, dal punto di vista tecnico, quello che cambiava era come venivano ricevute, con tutte le vibrazioni, le piccole cose che avvenivano quasi di nascosto e che si capivano tra le righe, anche se non sempre, poi i derivanti pensieri
del professore di lezioni private, i miei.
Ammettiamolo: per un modesto professionista del mio genere la vita poteva essere interessante, bastava saper stare al
proprio posto, ma era proprio quello che
era difficile.
Si conoscevano persone di vario tipo, antropologicamente
parlando, ma anche di classe e livello culturale assai differenti, e poi
se c’erano persone moleste si poteva inventare una scusa e sparire subito dal loro
libro paga e conseguentemente dalla loro vita. Si guadagnava né poco né tanto, ma si lavorava quando e quanto si voleva, insomma era una meraviglia.
Bastava non confondere l’amicizia con il lavoro, e se c’era qualche
bella ragazza, non si doveva fare troppo i lumaconi e invadere la sfera della
loro vita privata.
Riassumendo non si doveva prendere l’iniziativa, e se dall’altra parte
chi la prendeva non era ben accetta, bisognava farglielo capire senza
offenderla, magari senza perderla come cliente.
Se si vive da soli, se da sempre si è sognato di trovare una donna come
quelle dei film, che non esistono, ma quando se ne trova una, cioè si crede che
sia una di quelle, il difficile è rimanere imperturbabili.
Per farla breve mi trovai innamorato, a quasi cinquant’anni, di una
donna di trenta che ne dimostrava meno di venticinque, in più ricca e
tremendamente differente da tutto quello a cui ero abituato.
Con l’andar del tempo notai che la sua intelligenza era diversa da come
mi ero immaginato idealizzandola, era molto meno arguta e intellettuale di
quello che voleva far credere, ma riusciva a darla a bere in diversi tipi di
occasione. Il suo forte era il modo di fare, era molto soave e gradevole in
tutto quello che faceva e anche quando non faceva niente insomma, non lo faceva
nel modo giusto.
Mi accorsi ben presto che avrebbe potuto ottenere da me quello che
voleva, ma non m’importava, anzi ero contento.
Quello che mi rovinò però era che non stava funzionando come le altre
volte, perché questa pareva starci, pareva apprezzarmi, cosa che di solito non
mi succedeva, con le donne veramente belle e quando mi capitava me ne accorgevo
sempre in ritardo.
Comunque tenevo costantemente presente il principio di agire di rimessa,
cosa che facevo istintivamente da sempre, non riuscendo a prendere mai
l’iniziativa con le donne, ma anche in generale nella vita.
Aspettavo la sua mossa che non arrivava mai e mi piaceva quasi, una
volta tanto, quel cammino d’incertezza, per arrivare a un qualcosa che forse
non sarebbe mai giunto, ma proprio questa insicurezza mi faceva sentire assai
interessante la mia routine.
Mentre aspettavamo chissà cosa e chissà per quanto tempo, oltre alle
lezioni per me in automatico, ci scambiavamo, libri, dischi, consigli,
barzellette, impressioni frizzanti sul mondo e sui loro personaggi.
Ho sempre pensato che le donne formose e angeliche allo stesso tempo
sono le più disgraziate, insieme agli uomini molto ricchi, perché tutti
vogliono da loro quello che loro non hanno nessuna intenzione di sganciare,
anche se ovviamente sono cose differenti tra di loro, si assomigliano nella
sostanza.
Nella mia riflessione da curioso esterno, sono arrivato alla conclusione
che la loro vita diventa un tira e molla noioso e ripetitivo, per loro e
finiscono per considerare che vorrebbero magari essere apprezzati per
qualcos’altro. Intanto, sempre in modo del tutto istintivo, avevo sempre
trovato irrimediabilmente antipatici tutti i facenti parte di queste due
categorie.
Con lei era differente però, perché il suo modo di comportarsi non era
per niente comune, per una bellezza viva e tridimensionale di quel genere.
In buona sostanza Chantal non era eccessivamente falsa, non si dava
delle arie e non faceva cadere dal cielo ogni suo gesto o frase.
I libri, le musiche, i film scaricati in internet diventarono la nostra
merce di scambio ripetuta, i nostri gusti erano diversi e le cose che mi dava
lei non mi piacevano, in genere, ma le studiavo sia per capire come era di
carattere, (cosa pensava, come viveva,) sia per non doverglielo dire, che non
mi avevano affatto entusiasmato, fingevo che mi fossero invece risultate
gradite.
Ogni tanto qualcosa m’acchiappava, qualcosa di successo, un film recente
o qualcosa sui cui gusti più superficiali e universali era più facile
incontrarsi.
Lei invece diceva sempre bene delle cose che gli mandavo per internet, o
le consegnavo personalmente e non mi pareva che mentisse, come invece io facevo
regolarmente.
Lei era più aperta di me, o sapeva mentire bene, oppure io ero più fesso
in senso generale e questa è l’unica cosa sicura.
Tutto scorreva bene, dopo quattro mesi di lezione io ero praticamente
cotto, quando gli mandai un libro on-line che avevo scaricato e che stavo
leggendo con estremo interesse, sia perché seguiva alcuni miei principi
fondamentali della vita, sia perché aveva un dialogo interessante, in un
francese attuale e perfino ironico e divertente, in più seguiva un ritmo
incalzante. Da aggiungersi anche che ne era stato tratto un film di successo,
in Francia.
Insomma la trama del nostro romanzo d’amore iniziò così: un’allieva
ricca e bellissima, piena del suo gioco di potere. Un professore atipico,
sognatore ma coi piedi per terra, gli mandò un libro on-line che non aveva
ancora completamente letto.
Poi lo finì di leggere e scoprì che nel finale c’era una scena quasi
porno. Si domandò se doveva avvertirla, di non leggerlo, ma pensò che lei
ugualmente non lo avrebbe fatto. Però rimase in dubbio per dei mesi, a volte
gli parve che qualche frase detta, qualche cenno rimasto a metà, alludessero a
qualche cosa…
Potrebbe essere stata una dichiarazione di pessimo gusto, sul sesso
spinto e magari da considerarsi volgare… ma forse lei non leggeva mai un libro
intero, e poi in un idioma che stava imparando. No, no.
Lei era francese di padre e di madre brasiliana, nata e cresciuta qui,
per questo faceva lezioni di lingua con me, che a quel tempo portavo anche in
giro i cani dei ricchi a pagamento. E poi non mi ha mai fatto pesare il
fatto che vivevo in una favela, anzi questo fatto la incuriosiva.
Alla fine ci sposammo e andammo in Francia, a spese di suo padre.
All’inizio quella vita era troppo bella, ma durò poco, insomma cinque anni non
sono tanti, ma non furono inutili, almeno per me.
In Brasile c’è un certo preconcetto per chi proviene dalla favela, ma
fuori, nel mondo esterno, invece no.
Qua si crede, sulla base di esperienze vissute, che uno che è nato e
cresciuto in queste baraccopoli non sarà mai capace di uscire dal guscio, non
diventerà mai una persona normale.
In effetti non è facile, ma è possibile.
La realtà delle favelas
"Não quero
ser mais, e nem menos que ninguém. E o que você quer pra mim, eu quero em dobro
pra você também."
“Non voglio essere di più, e neanche meno di nessuno. E quello che tu mi
auguri, lo auguro raddoppiato anche per te.”
(Dina Di – Cantautrice Rap)
In Brasile il fenomeno di degrado di molte città è ben conosciuto. Negli interstizi o nelle periferie delle metropoli sorgono e crescono spontaneamente agglomerati di baracche o case di fortuna, un fenomeno conosciuto in loco come favelizzazione, ovvero la trasformazione dello spazio urbano in favela. Le favelas sono agglomerati di abitazioni e baracche sorti spontaneamente dalla fine del diciannovesimo secolo in tutto il centro e Sudamerica. Dal secondo dopoguerra in avanti, soprattutto a partire dagli anni cinquanta, la favelizzazione ha avuto un incremento esponenziale. Oggi è una realtà enorme in continua crescita ed espansione che interessa tutto il mondo e coinvolge l’intero pianeta sia per le dimensioni del fenomeno, sia perché agglomerati urbani che soffrono di carenze e problematiche economiche e materiali sono presenti ovunque. Le favelas nascono, esemplificando estremamente, come necessità di trovare un tetto e una sistemazione, anche di fortuna, da parte di persone che dalle campagne e dalle foreste emigrano verso i grossi centri urbani. In realtà lo sviluppo del fenomeno è notevolmente complesso e coinvolge numerosi fattori. Allo stato attuale le favelas sono in parte situazioni urbane non ufficialmente riconosciute, dove violenza, narcotraffico e altre attività illegali prosperano e si diffondono rapidamente, in parte comunità di persone alla ricerca di identità e dignità, nonché portatrici di un grandissimo potenziale.
L’atteggiamento nei confronti di questi agglomerati di persone è
contraddittorio. Le istituzioni sono costrette a prenderle in considerazione,
sia sul piano della sicurezza che su quello dello sviluppo urbano. I cittadini
che non ci vivono, che siano più o meno benestanti hanno diversi approcci.
Chi le ignora tranquillamente rimuovendole persino sul piano della
coscienza psicologica, chi le disprezza e ne è infastidito, chi cerca di
operare sul piano dell’aiuto umanitario, spesso con risultati poco incoraggianti
o a volte disastrosi, chi le sfrutta come bacini di mano d’opera a basso costo
per attività sia lecite che illecite. Oggi è in via di sviluppo un fenomeno
detto pacificazione che in realtà è una sorta di accordo tra narcotrafficanti e
istituzioni per mantenere una situazione vivibile. In Rio de Janeiro si trovano
circa 700 favelas.
In questa città in particolare, paradossalmente, le favelas sono anche
un terreno culturale particolarmente attivo e fertile. Basti pensare che il
famoso Carnevale, insieme al Samba, trae in buona parte la propria origine da
questi ambienti, che talvolta videro al proprio interno, all’inizio del XXº
secolo, la fondazione di scuole di Samba rinomate.
I rapporti tra Carnevale, Samba, cittadini comuni, favelados,
delinquenza e istituzioni è altamente complesso, ma sta di fatto che si tratta
di una realtà culturale molto profonda con radici antiche e che influenza gran
parte della cultura del mondo odierno.
Chi è nato e cresciuto in questi ambienti avrà una grande
difficoltà a inserirsi in una società, che per quanto flessibile e tollerante,
molto di più di quella europea per esempio, è molto diversa e lontana dalla
loro realtà originaria.
Però anche la cosiddetta società ha i suoi difetti, tra
cui rifiutare tutto ciò che è differente, paradossalmente tutti quegli individui che sono diventati così
per responsabilità indiretta della società stessa.
E pensare che ho perso il mio tempo con un passato che non è mai stato
presente
(Internet)
Oda, seduto sotto un grande salice, leggeva pigramente gli ingredienti di una scatola di cioccolatini. Vide arrivare Ada, sudato e incurvato dalla lunga camminata in salita, sulla stradina di cemento, tra le casette di materiale misto. Capì in un attimo che era meglio dire addio agli spiedi, al cui saltuario usufrutto si era ormai piacevolmente abituato. Ogni tanto Oda faceva un churrasco per i suoi clienti più affezionati, secondo le sue tradizioni gaúche. Ricordò, pur senza essersene mai veramente scordato, che la visita precedente di Ada era stata prima del suo matrimonio, approssimativi cinque anni prima.
Visto che ne aveva pochi, Oda gli aveva chiesto in prestito gli spiedi,
assurdamente Ada non poteva confessare di non averne, era stato pronto a sacrificarsi,
se li era andati a comprare, i più economici possibile, è chiaro, ma erano
spiedi da churrasco, magari indovinava che in futuro, per lui, avrebbero
avuto un significato simbolico e gaúcho. Poi, abbastanza ubriaco, con la mente
placida di chi non ne aveva mai posseduti, a notte fatta se ne era tornato a
casa dimenticandoseli là da Oda.
Dopo aver abbassato la testa, concentrato nel suo sforzo, nell’ultimo
tratto di salita ripida, entrava dal cancellino, attorno al quale lo steccato
era stato abbattuto dai fattori atmosferici e dal Cupim, minuscolo
animaletto che divora il legno. Ada salutò con la mano in direzione del salice
piangente, ma Oda era sparito.
Mentre Ada si guardava intorno recuperando il fiato, stanco e sudato,
Oda ricomparve con gli spiedi che spuntavano da un grande involto di panno
nero, decorato da realistiche bianche ragnatele e polvere, che trasportava con
entrambe le mani mentre andava incontro a Ada, che gli strinse la mano, poi si
abbracciarono, si sedettero sotto il salice, su due fresche e originali
poltrone di cemento e mattoni ricoperte di muschio soffice.
“Passavo di qua e mi sono detto, vado a trovare Oda, che mi fa sempre
piacere vederlo, che poi sono anni che non lo vedo, a proposito, come va la
vita dell’uomo sposato?”
Oda lo guardò serio e calmo, ma lo sguardo lo sorpassò, volò oltre, si
perse a valle, in direzione del mare.
Poi, finalmente disse:
“La vita dell’uomo sposato andava anche bene, almeno dal mio punto di
vista, però per lei no, ora potrei dirti come va la vita dell’uomo divorziato,
se ti interessa, che è abbastanza differente da quella dello scapolo... a
proposito, come va la vita dello scapolo?”
“Bene, anzi male, sono stanco di stare solo e di fare questa merda di
lavoro che faccio, ma non sapevo che ti eri separato... divorziato hai detto?”
“Divorziato, divorziato, è una maniera di dire, per la sua stessa forza
d’espressione, ma senza fare i documenti, anche per sposarci non c’eravamo mica
sposati in comune, solo in chiesa. Comunque, invece di divorziato, sarebbe più
appropriato dire abbandonato.”
“Ah, è scappata? E ora dove è?”
“Non lo so, qui non c’è, di questo sono sicuro, ho guardato bene... e
poi non c’è molto spazio per nascondersi, ma tu forse volevi sapere se lei ha
qualcun altro?”
“No, solo che cosa fa, dove si trova, non l’hai più vista o sentita?”
“Certo. Sentita dentro al cuore, vista nei sogni... che però ora si
chiamano incubi... ma non esageriamo, ormai sto bene, anzi benissimo... ”
“Ho capito, cambiamo argomento...”
“Non ti preoccupare, cugino, stavo scherzando, sto bene, di nuovo e la
mia vita è già cambiata molto da quei tempi, ho avuto un salto di qualità. ”
“Da quei tempi? È già così tanto che se ne è andata?”
“Circa due anni fa, dopo tre di convivenza, proprio in questa epoca
estiva, ma credo che la mia vita sia migliorata, ti dico la verità...”
“Perché? Stai facendo qualcosa di nuovo?”
“Ecco, a proposito e per esempio, questo è il salto di qualità che ti
dicevo: da qualche tempo, ho scoperto che sono più abile ad aiutare gli altri
che me stesso, anzi, che aiutando gli altri aiuto anche me stesso, e chissà che
non sia proprio questo il senso della mia vita?”
“Come sarebbe a dire? Che cosa è che stai facendo ora?”
“Sarebbe a dire che lavoro come aiuto psicologico per i viventi in
difficoltà di qua intorno, ma già mi arriva gente anche da Niteroi, figurati...
dalla Barra da Tijuca, anche gente ricca, sto quasi diventando un professionista
di moda, e non sono nemmeno due anni che ho cominciato, ho già bisogno di un
aiutante, se tu fossi un poco più colto e intelligente...”
Risero insieme, ma poi Ada disse:
“Non ho capito tanto bene.”
“Insomma è un aiuto per la testa, se non lo sai, dovresti saperlo: la
testa, ce l’hanno data nascendo, ma non ci hanno dato il libretto delle
istruzioni, né tantomeno ci hanno insegnato a usarla, in maniera di favorirci
invece di ostacolarci, e poi non è così facile come sembra. Qui entro io, per
aiutare le persone a capire la propria testa, che anche per loro, che ce
l’hanno sempre avuta attaccata al collo, è sempre stata un oggetto misterioso.”
“Ma tu non hai studiato lingue?”
“Sì, sono professore di francese. Questa è stata la prima, ma anche
unica questione che mi sono posto.”
“E allora?”
“Allora che cosa?”
“Allora, come hai risposto a questa domanda?”
“Ah già. Guarda, è stato troppo facile. Vedi io non ho studiato,
tecnicamente parlando, questa roba a scuola, quando ero più giovane, perciò non
ho diplomi e carte timbrate, ma frequento, anche da prima di conoscere Chantal,
vari tipi di scuole, prima superiori e poi università, negli ultimi anni,
alcuni corsi privati, o pubblici, anche se sempre in qualità di clandestino,
cioè senza dare esami e soprattutto senza spendere un soldo.”
“Ah! Questa è nuova, e non se ne accorge nessuno?”
“Quando se ne accorgono mi scuso e non ci vado più, almeno per un poco
di tempo, poi ci ritorno con la faccia camuffata, occhiali, baffetti, capelli
differenti...
Ma non succede spesso, perché io non vado là per avere abilitazioni
scritte o voti o lauree, solo per rendermi conto e imparare, almeno
l’essenziale, quello che mi può essere utile e non di più.”
Alternandosi passaggi di nuvole e raggi di sole nel cielo, sopra di
loro, le facce si illuminavano e scurivano, i due erano mulatti e anche
abbastanza somiglianti, ma Ada aveva i capelli più corti, Oda con la sua
barbetta e i piccoli occhiali da vista rotondi che gli davano un’aria quasi da
intellettuale.
“Lo sai che sei
cambiato Oda? Sei molto più magro, poi quella barbetta da capra, mi sembri
anche più chiaro di pelle, non lo so. Ma, quell’altro discorso che stavamo
facendo?”
“Sì, un poco di marketing, l’immagine è importante, il saggio non può
avere l’apparenza di un ladro e la povertà del look deve essere ben
studiata. Scusa, sono un po’ distratto,
ma di quale discorso stai parlando?”
“Hai parlato di psicologia...”
“Ah! Una parolaccia, eh? Ah sì, a proposito e non per caso, stavo
dicendo che frequentando varie facoltà, per poco ma abbastanza, ho visto
insegnare vari tipi di professori.
Ho capito che pochi hanno la vocazione, insegnano per guadagnare i
soldi, che anche quelli servono, per carità, ma insegnare è una cosa
completamente diversa dagli altri lavori, ci vuole entusiasmo, didattica e
competenza della materia, soprattutto psicologia, ci si deve saper comportare
con le persone, tutte cose che tu non puoi capire… e non c’è niente da fare.”
Adailton rise, Odair anche, si alzarono e si dettero delle pacche sulle
spalle, poi si abbracciarono.
“Gli studenti, poi, i giovani, sono lì perché ce li hanno mandati, la
maggioranza non ha la minima idea di che cosa ci sta a fare lì, guarda, come
possono si distraggono, scappano sia mentalmente che, quando possono,
materialmente. Ma anche quando ci stanno e si sforzano, non hanno la nozione
dello spazio e del tempo, faticano solo per tentare di concentrarsi, gli manca
la motivazione, invece io sto lì solo per quello, mi riesce facile e bene, e mi
piace anche, ma pagare non pago. No. Sono un uomo di principi solidi io.”
Ada rise di nuovo e Oda lo guardò fintamente offeso, al che Ada rise di
più, si sganasciò.
“Ma come ti è venuto in mente di fare carriera in questa maniera?
L’ultima volta che ti ho visto eri un negrão ignorante, molto
più colto di me, va bene, ma sempre ignorante, non mi dire di no.”
“Ignorante lo sono sempre di più, se è per questo, più studio e più mi
accorgo che non so niente, ma questa è già una saggezza, un’altra parolaccia
per te, è ovvio che non sai cosa sia e, anche se lo sapessi, applicarla alla
vita sarebbe tutto un altro discorso.
Aspetta che ti spiego, allora, uno dei punti fermi della mia vita è
diventato questo: fai quello che ti piace e ti riesce bene, se ti piace poi ti
riuscirà, qualsiasi cosa, anche se all’inizio avrai difficoltà. Cioè se hai
entusiasmo, la competenza verrà col tempo e poi farai contenti tutti e, in più,
sarai contento anche tu, non è questo quello che conta?”
“È vero, ma tu parli come uno che ha studiato, io non ce la farei, poi
tu cosa racconti alla gente di veramente efficace e che cosa significa
esattamente questa psicologia in parole povere?”
“Stai usando parole difficili, hai letto qualcosetta negli ultimi anni? E
quante domande, bravo, le domande sono fondamentali, a volte più delle
risposte.
E l’ultima è una signora domanda, questa è importante, allora: la
psicologia è lo studio del nostro cervello, in pratica e in teoria, che cosa
facciamo nella nostra vita e perché lo facciamo, che meccanismi si formano
dentro la testaccia di un vivente come te, per esempio, perché te ne stai da
solo e non vuoi nessuno intorno.
Ci sarà un perché, no?
Questo perché è la psicologia.
Un altro disgraziato, per esempio mio fratello Duda, invece, ama la
compagnia della gente, ma non riesce a dormire la notte, soffre quando qualcuno
spara un fuoco di artificio e odia i cani.
Perché?
La psicologia spiega che la storia personale di questo particolare
Eduardo, detto Duda, con una testa piccola e un cuore grande, con i suoi
genitori ignoranti come capre e nell’ambiente dove è cresciuto, che è lo stesso
nostro, per coincidenza: il mondo, hanno formato il carattere
di questo essere nella maniera in cui questo umano è, quello che gli
piace, quello che non gli piace, il suo comportamento e i suoi tanti perché
nascosti. Sembra uguale a tanti altri,
ma è differente da tutti gli altri.
Un esempio insomma, tra gli altri possibili.
Che cosa racconto alla gente? Mi sono documentato, ho letto e sto
leggendo vari libri presi in prestito nelle varie biblioteche, non costano
niente, basta restituirli poi, dopo averli letti. Se non li leggi il prezzo è
lo stesso. È gratis. Ora poi c’è l’internet che è anche meglio.
La cosa più importante per poter progredire è l’intelligenza, va bene,
ma non l’intelligenza pura, quella emozionale, e per poter approfittare di
quello che impari devi poter fare dei confronti, per quello serve la memoria
buona, sennò tutto cade nel vuoto.
Per esempio ho sempre pensato che a parte il tuo insuccesso nella vita
tu fossi un tipo intelligente, magari un po’ troppo introverso, ma con una
buona memoria, ti sei ricordato degli spiedi infatti, ma non solo questo.
Ovviamente.
Scherzo dai.
Nella vita basta mettersi d’accordo, assumersi i propri compromessi, ma dare anche soddisfazione agli altri, perché dentro la loro soddisfazione si nasconde parte della nostra, non si può vivere da soli... cioè, va bene, si potrebbe anche, ma invece siamo abituati a stare con gli altri, per questo dobbiamo imparare a farlo nel miglior modo possibile.
Fare tesoro di quello che hai vissuto, non necessariamente quello che è
stato un errore in passato lo sarà nel futuro, se la situazione pur anche
simile è un’altra.
I libri poi li scelgo in base alle domande che mi fanno i miei cosiddetti
pazienti o che io stesso mi faccio nel cervello, cervello che ora sto usando
più e meglio di quanto facevo quando ci siamo visti l’ultima volta, per questo
dici che sono cambiato.
E meno male, dico io.
Sia riguardo i libri che le informazioni teoriche che devo insegnare e
anche insegnare a mettere in pratica, prima devo capire ciò che vale la pena e
ciò che non vale nemmeno l’emozione, tra quello che è la letteratura
specializzata e tra quello che è la spazzatura commercializzata.
Lascia perdere quest’ultimo discorso, fai conto che sono stato zitto,
non serve a niente e non so nemmeno perché te l’ho detto.”
“Invece ho capito, io ho capito tutto, che cosa credi?”
“Va bene, scusa, meglio ancora. Stavo dicendo, inoltre, che la mia
esperienza di vita è stata molto varia e sono uno che fa macinare bene la
logica... anche se sono un poco distratto, a volte penso troppo, ma il mio
ragionamento fila che è una bellezza, non è forse vero?”
“A dire la verità non ci avevo mai pensato, ma ora che me lo dici mi
pare di sì, però se sei molto distratto e perdi il filo del discorso, questo
non ti ostacola?”
“Il filo del discorso? E chi se ne importa? Me lo ridanno loro quando lo perdo, basta non
preoccuparsi, tanti non se ne accorgono nemmeno… o sennò dopo lo ritrovo, senza
cercarlo, viene da sé, lasciando scorrere le parole su se stesse, facendo
rotolare i ragionamenti sulle cause, i loro effetti se ne escono da soli, le
conseguenze cioè... insomma, il popolo è confuso, molto più confuso di me, in
più è anche stressato e questo è un altro privilegio che ho, mi capisci?
Figurati se notano che io perdo il filo del discorso, la maggior parte
non sa nemmeno che cosa sia il filo del discorso...
Tu Ada magari sei uno che una logica la sa sviluppare, sei uno che pensa
tanto, forse anche troppo, ma il popolo pensa poco, la maggior parte di quelli
che vengono qui, se sapessero pensare non avrebbero bisogno di me, dammi retta!
Anche io dico delle cretinate, a volte, chi è che non ne dice? Ma dopo
me ne rendo conto, sono anche capace di correggermi, accetto critiche e
consigli, dove lo trovi un saggio più saggio di me?”
“Sì, va bene, ma che gli dici alla gente?”
“Io? Quasi niente, in pratica ascoltano la loro stessa storia... però,
tieni conto che - se non ci fossi io - non avrebbero occasione di raccontare la
loro storia a sé stessi, e tutti gli altri non hanno tempo di starli ad
ascoltare.
Finalmente sentono il suono di quello che la conchiglia magica, chiamata
Oda, gli dice che è il mare, non avevano mai avuto la calma per farlo, le loro
facce rimangono meravigliate, come se io gli avessi detto una grande verità, ma
lo sforzo lo hanno fatto loro... io gli ho aperto una finestra che avevano da
sempre davanti a loro, ma non se ne rendevano conto, così, dopo, pieni di
gratitudine nei miei confronti, decidono autonomamente...”
“Ma, allora, non potrebbero farlo da soli?”
“Sì, ma non lo sanno. E poi se lo sapessero non ci crederebbero. E se ci credessero non
sarebbero capaci di farci niente lo stesso, perché gli manca la struttura, la
sistematica, la competenza, il senso della misura e potrei dirti tante altre
cose che gli mancano, ma tutto questo si riassume in un’unica parola, una cosa
che hanno tutti, in grande quantità, che rende inutili tutte le altre:
l’ignoranza.
Dalla faccia mi pare che tu mi stia seguendo, mi sbaglio?
Quelli che hanno risolto il problema della sopravvivenza, nel farlo, si
sono creati un insieme di altre piccole e grandi malattie mentali, che il
povero non conosce... lo sai che cosa significa aver paura di perdere milioni
di dollari?
È una questione che ti piacerebbe risolvere, lo so, ma non credere di
dormire tranquillo, quando hai qualcosa da perdere, più grande è e meno ti
senti tranquillo, ma è inutile che te ne parli, tu non ne avrai mai bisogno.”
Risero di nuovo insieme, a lungo, poi ci ripensarono e risero di nuovo.
“Ritornando a me, quello che mi permette di essere al di sopra della
mischia dello stress è la mia attitudine greca, di ozio contemplativo, come
potrei essere così tranquillo se lavorassi insieme a te nel centro infernale di
Rio?”
“Eh già. Ma che cosa è l’ozio?”
“L’ozio è il non far niente, contemplativo perché non facendo niente ho
il tempo di contemplare, cioè di ammirare i dettagli delle cose. Sia le
bellezze che le bruttezze.
A volte la bruttezza è tanto brutta da diventare bella, per esempio il
viso scavato dal mare di un vecchio marinaio di Santos, ma
forse è più facile per te capire il contrario, hai mai visto una di quelle
modelle alla televisione, che sono tanto belle che danno noia agli occhi?”
Ada ci pensò un poco, ma l’espressione della sua faccia non indicò
nessun tipo di variazione.
Per capire meglio cosa era successo al cugino Oda, ma la faccenda
cominciava a interessargli anche personalmente, domandò:
“Insomma, i tuoi clienti, ricchi e poveri, vengono qui, raccontano i
loro guai e capiscono che cosa devono fare per cambiare la loro vita, senza che
tu faccia o dica quasi niente?”
“Beh, non esattamente, a proposito io gli dico delle piccole cose, le
più logiche conseguenze delle loro esagerazioni...”
“Per esempio, cosa gli dici?
“Per esempio, se loro dicono che fumano tanto, dico che devono fumare
meno...”
“Mi sembra troppo facile.”
“Difficile non è, la maggior difficoltà è fargli credere che io sia
qualificato per farlo, ma se loro hanno una referenza di una persona che
conoscono e che gli parla bene di me, allora l’ostacolo è già aggirato e
dimenticato.
Quello che conta veramente, poi, è che li faccio riflettere, li obbligo
a fermarsi e ad analizzare le cose senza ingannarsi... come sono abituati a
fare normalmente, da soli o seguendo consigli degli altri che ne sanno ancora
meno e che non hanno voglia di perdere tempo dietro ai problemi di
chicchessia... vedi che molte persone sono convinte di pensare, ma invece non
fanno altro che rincorrersi la coda, il popolo è confuso, perché il mondo è
confuso e lo diventa sempre di più, almeno per chi non ha mai avuto tempo di
fermarsi e di riflettere...
Io li metto semplicemente con le spalle al muro, li obbligo, ma con la
massima calma e determinazione, a guardarsi dentro e attorno, gli do la
sicurezza di un’ora a seduta, ascoltandoli e consigliandoli.
Li faccio respirare profondamente, perché la maggior parte della gente
non sa nemmeno respirare, voglio dire in maniera corretta...
Non ci credi?
Fammi vedere tu come respiri, per esempio, respira normalmente, come fai sempre...
Ecco, lo vedi?
Anche tu respiri troppo rapidamente, prenditi la tua calma, Ada, il
respiro deve essere profondo ed è una cosa che puoi fare sempre e bene, che ti
da’ sollievo, ma che nessuno ci pensa che sia una cosa importante, anzi
decisiva.
Prova.
Così... profondo e leggero... leggero e profondo... profondo e
leggero... su e giù... giù e su, con calma, regolarmente... prova a respirare
bene e vedrai che già tutto migliora.
Perché ossigenare il cervello e il corpo intero significa farli stare
meglio, allora anche la nostra povera mente si sente differente, più disposta e
in forma, tutto è legato e in contatto, tieni conto che il corpo e la mente
sono una cosa sola.
Hai capito o no?
Io li ascolto i clienti, anche se le loro parole dicono cose che i fatti
dimostrano essere false, sono solo bugie, ma bugie alle quali loro credono
automaticamente, senza fare ragionamenti, senza usare una logica qualsiasi.
Perciò sono importanti per capire il loro mondo, la loro giornata, la
loro vita.
E poi guarda che già trovare qualcuno che ti ascolta, veramente, dico,
senza fingere, non è facile.
Gli faccio delle domande, questo è importante, per comprendere come
vivono, quello che dico dopo è facile e soprattutto logico, vedi che la gente
di qua è molto confusa, non so se è la stessa cosa dovunque, ma qua è così, e
poi anche se la gente sapesse le cose, ha bisogno di sentirsele dire da
qualcuno, ci vuole una persona autorevole, che loro non sanno bene come deve
essere, ma io, seduto qua placidamente sotto l’albero simbolico del pianto, il
salice, io sono l’ideale, un mistico, un saggio, un amico disponibile, che
tutti si possono permettere di consultare, anche perché accetto qualsiasi tipo
di pagamento.”
“Qualsiasi cosa? Stai scherzando!”
“L’ho detto e lo ripeto: qualsiasi cosa.
Uova, galline, anatre, chiodi, meloni, legna, televisioni vecchie... hai
visto quella scatola di cioccolatini che mi sono spolpato orora? È il pagamento
di una visita a domicilio, qua sotto, al bar di Caio.
Insomma, accetto quello che loro possono darmi, uno ieri mi ha dato una
scarpa già un po’ usata, mi ha detto che l’altra me la darà se e quando sarà
guarito. Io gli ho chiesto di non camminarci troppo nel frattempo, lui ha riso,
è chiaro che il suo problema più grave è la diffidenza, non so se riuscirò a
guarirlo, ma sono sicuro che migliorerà.
Chi può pagarmi meglio, mi paga in denaro e poi non importa, perché io
non ho bisogno di molto per vivere, ho il mio orto, la mia casetta, senza
rimpianti ho rinunciato al ben che minimo consumismo, non avendoci mai vermente
partecipato, non guardo la televisione, (solo qualche partita del Botafogo) e
non mi vengono più certe idee storte nella testa, insomma ho la mia disciplina
di vita...”
Parlando e parlando si fece
tardi e Adailton doveva tornare a casa, ma per la strada ci pensava e gli pareva
strano che Odair gli avesse fatto tutti quei discorsi.
Visto che il viaggio era lungo, Ada pensava anche a come era diverso
Oda, a come era cambiato dall’ultima volta che si erano visti.
Pochi anni prima, quando si era sposato, il cugino gli sembrava un ragazzotto
normale come lui, forse amava la compagnia, certo più di lui, parlava di più e
meglio... ma ora si sentiva la enorme differenza tra di loro, in pochi anni
c’era stata una trasformazione totale.
Forse Oda era più intelligente degli altri, questo si vedeva, ma anche
lui, Ada, era intelligente, anche se non si vedeva, gli altri non lo sapevano,
ma lui sì, aveva solo bisogno di un’occasione, ma non ne aveva mai avuta una, o
forse non se ne era accorto.
Oltre a questo si sentiva che era passato attraverso dei libri, delle
lezioni, Odair, diceva parole difficili, in più spiegava bene assai cosa voleva
dire. Anche lui, che era rimasto ignorante e limitato al suo lavoro di
venditore per strada, capiva tutto quello che Oda gli spiegava. Però non sapeva
ancora se ci credeva o no, forse gli piaceva crederci, sarebbe stata una porta
nuova, per un mondo che gli pareva già tutto chiuso e senza mai essere stato
effettivamente aperto.
Odair e sue certe annotazioni (un giorno poi pubblicate sul primo libro
di Adailton)
I primi profeti che hanno
dichiarato, rischiando di essere lapidati, che gli uomini erano tutti uguali,
sono stati Siddartha Gautama e Cristo. Infatti si sbagliavano di grosso.
(Iraq Falabela)
C’è da dire che gli dei all’inizio erano poco tolleranti, piuttosto
antipatici con gli uomini. Prima si pensava a un dio come un essere celeste,
sì, ma più che altro autoritario, poi, coll’andar del tempo le varie divinità
si sono un poco addolcite, almeno in teoria.
Forse una questione di marketing.
Però in pratica la religione si dimostra da un lato ancora assai rigida,
o troppo, per i tempi attuali, dall’altro troppo teorica e distante dai
problemi nuovi e reali.
Per questo gli uomini hanno cercato sempre più spesso e con maggiore
convinzione, qualcosa di alternativo.
L’uomo, inteso come singolo ma anche come umanità, può anche tacitamente
riconoscere di avere sempre più bisogno di sonori calci nel deretano, ma ha
bisogno di sentirselo dire da qualcuno che sia specializzato nel ramo.
Un aiuto per cercare e rintracciare la retta via, spesso persa e
difficilmente ritrovabile senza l’aiuto di una voce che almeno abbia autorità,
che pretenda di venire dall’alto, insomma, qualcuno qualificato, che gli possa
dire quello che lui sa già.
Se la religione pare ormai una roba arcaica, la chiesa e i sacerdoti
sono ancora peggio.
Le nuove religioni brasiliane inventate mischiando gli ingredienti e
agitando le teste dei fedeli-pazienti, che devono pagare per vedersi fregati
prima, durante e dopo, sono un patetico e assurdo - ma comprensibile - esempio
di movimento collettivo, definibile anche come circonvenzione d’incapace.
C’è una massiccia decadenza dei valori, mentre se ne stanno lentamente
sostituendo dei nuovi, almeno questo è quello che si cerca ancora di sperare,
perché quelli intanto sono in palese ritardo.
Per cui, tra le altre cose, si mette in dubbio l’esistenza di un dio o
di più di uno, ma anche ammettendone l’occulta presenza, se quest’ultimi
possano ancora essere veramente buoni consiglieri, per questi nuovi tempi che
corrono come forsennati e non si sa nemmeno in quale direzione.
In Brasile, molti futuri terapeuti non escono ben preparati dalla
facoltà. Essendo abbastanza vaga la scientificità, non ancora riconosciuta, il
metodo si giustifica con i risultati, difficilmente quantificabili, perché la
colpa si può facilmente accollare al già abbastanza disgraziato
paziente. Alcune correnti si distanziano ulteriormente dalla scienza, man
mano che passa il tempo e si identificano di più con la filosofia.
Risultano veritiere storie pittoresche di sedicenti cliniche dove i
disperati pazienti (che le avevano già tentate tutte, prima di approdare lì,)
sono trattati con ogni genere di cura alternativa che esuli dalle classiche.
Per esempio si usa il film Matrix come discussione della realtà e medicine
esoteriche di vario tipo come ausilio chimico. I pazienti si sentono
risucchiati dagli specchi e tentano di passare attraverso le pareti, ma alcuni sono quasi contenti.
(Penso che Oda mi abbia insegnato varie cose utili per la mia vita, tra cui la scarsa utilità di una disciplina che si faccia applicare agli altri, ma che si metta poco in discussione su noi stessi.)
Noto un certo tipo di comportamento del genere negli specialisti del
ramo, intendo quelli qualificati da scuole e università, che spesso sanno
perfettamente cosa fare e sanno anche spiegarlo bene a chi deve farlo, ma, per
praticità, non si includono mai in quel gruppo.
Naturalmente questa è una tendenza comune un po’ a tutti, forse si
sbaglia a pretendere che lo specialista delle cure per la mente, debba, voglia
o possa usarle anche su sé stesso. I terapeuti, essendo persone, purtroppo o
per fortuna hanno i loro problemi e dovrebbero sempre fare terapia, a loro
volta, con altri terapeuti, ma non tutti lo fanno. Scavare dentro il proprio io
è un processo faticoso e doloroso, a volte, o quasi sempre, porta fuori delle
puzze romantiche, sì, che possono risultare particolarmente sgradevoli però,
non solo al naso.
Tre domande regolano la vita delle persone, le loro relazioni con gli
altri e con sé stessi: voglio?
Posso?
Devo?
Ci sono cose che vogliamo e possiamo, ma sappiamo che non dobbiamo. Esistono
quelle che vogliamo e dobbiamo, ma non possiamo. E quelle che possiamo e
dobbiamo, ma che semplicemente non vogliamo.
Tre questioni che apparentemente stanno dietro a tutto quello che
facciamo, noi non ce ne rendiamo conto, che invece sono piuttosto davanti alla
totalità del nostro limitato modo di interpretare l’esistenza.
Tre portali che non sempre ci conducono dove vogliamo in maniera tranquilla
e indolore, passarci attraverso non richiede solo buone intenzioni o solida
formazione morale, ma anche maturità psichica e neurologica.
Questa discussione che per molto tempo è rimasta esclusivamente
ristretta al campo della filosofia, si estende sempre di più alla psicologia e
alle cosiddette neuroscienze.
La Neuroimaging Funzionale (Neuroimmagine Funzionale) serve per provare se la
terapia funziona, se questo parlarne è veramente costruttivo e se dà effetti
permanenti nel nostro sistema di imparare, nella memoria e nel processo delle
emozioni.
La NF fotografa il flusso del sangue al cervello, si vede allora
che la terapia funziona, anzi, non ci si aspettava che il trattamento fosse
tanto efficace e durevole.
Attraverso esperienze fatte in Brasile, Germania, Olanda e Giappone si
sono confermati in pratica questi dati, più o meno con gli stessi risultati.
Si hanno indizi che le psicoterapie promuovono un rafforzamento delle
funzioni esecutive, legate alla corteccia pre-frontale, in pratica conducono a
pensare meglio.
Insomma, chi fa la terapia, nell’80% dei casi migliora, il valore
iniziale del trattamento con antidepressivi è inferiore a quello della
psicoterapia.
La Neuroimmagine però mostra che, nella maggior parte dei casi, non
importa quale sia la terapia, i risultati sono assai simili.
Nell’università di Leeds si sono confrontati per anni i risultati
su 5500 pazienti sottoposti a 3 tipi di terapia: Terapia Cognitivo Comportamentale, Psicodinamica e Centrata
sulla Persona. Risultati di nuovo equivalenti.
Si parla quindi di effetti placebo, se quello che conta è più che altro
la convinzione del paziente che sta ricevendo un aiuto medico in buona fede.
Nel ramo della salute mentale è già difficile sapere qual è il disturbo
che il paziente presenta e se la cura funzionerà, stiamo ancora attraversando
un periodo empirico e non scientifico.
Non si sa esattamente perché i pazienti migliorano e forse esistono
trattamenti migliori di quelli esistenti che non sono ancora stati scoperti.
Un esempio è la genetica, per molto tempo si è creduto che la
schizofrenia fosse un male psicologico e che si poteva migliorare con la
terapia.
Quando però si sono scoperte le sue origini genetiche e chimiche, la
psicoterapia per trattare la schizofrenia è diventata una cosa del passato.
Si considera sempre più connesso ai geni il problema della depressione.
Una ricerca di biologi evolutivi degli USA mostra che l’iperattività ha
cause genetiche mentre gli psicologi dicono che è una strategia dei figli per attirare
l’attenzione dei padri, i biologi dichiarano che invece c’è un motivo
evolutivo. Quando gli esseri umani vivevano in gruppi nomadi, non riuscire a
fermarsi era un vantaggio competitivo per cacciatori e pastori. Con la vita
sedentaria di oggi invece si trova che questo sia un problema.
Non solo nei paesi industrializzati migliaia di persone insoddisfatte
della loro vita cercano piuttosto affannosamente una maniera di stare meglio,
di essere migliori.
Si vogliono liberare di fobie, manie ossessive, vogliono dormire meglio,
avere forze positive per scendere dal letto la mattina, lasciarsi indietro
difficoltà sessuali o semplicemente trovare la vita un po’ più interessante.
Nelle società più moderne, negli ultimi tempi, chi frequenta lo
psicologo non è più considerato problematico, è diventato perfino un nuovo e
interessante argomento per conversare con gli amici.
Oggi si contano più di 400 tecniche differenti.
Il numero degli psicologi in Brasile è aumentato del 48% dal 2000,
da 123.000 a 182.000, ne escono dalla facoltà 17.000 ogni anno, senza
contare l’aumento di altri professionisti nel ramo come psicanalisti,
psichiatri e filosofi clinici.
Se all’epoca di Freud c’erano più casi di isteria era per via della repressione sessuale del diciannovesimo secolo, nella società attuale invece c’è più narcisismo, competizione e ansia di ottenere il piacere.
Si vive in una società per niente solidale e molto competitiva, dove le
posizioni conquistate sono sempre incerte.
Tutto ciò è in forte relazione con casi sempre più comuni di panico,
insonnia, ansia, stress e depressione.
Gli psicologi, da parte loro, dicono che il nostro passato cambia ogni
giorno, nella nostra memoria, mentre l’archeologia dell’anima mostra che i
desideri dei nostri genitori influenzano ancor oggi la nostra vita.
Gli eventi dell’infanzia sono importanti, perché quello che stiamo
facendo oggi ne è la conseguenza.
Il paziente in genere è condotto, a piccoli passi, a scoprire che cosa
sta facendo della sua vita, a rendersi conto del suo stesso comportamento,
successivamente a responsabilizzarsi, intanto gli si fa capire che - però - non
è il caso di sentirsene colpevoli.
La persona deve rendersi conto di quello che vuole e del fatto che
spesso è essa stessa che sabota i suoi desideri nel metterli in pratica in
maniera impropria, facendo come Penelope di Ulisse, tessendo una tela di giorno
e sfilacciandola di notte.
Se lei lo faceva per via dei Proci, quindi a ragion veduta, almeno per
quella situazione, nella vita in generale, oltre che un’azione faticosa, questa
porta a una certa destabilizzazione e conseguente confusione nella vita del vivente
in questione.
Quindi le tecniche che si usano sono in genere pensate per riuscire a
far ragionare di nuovo e con più possibile completezza il paziente, che spesso nel
frattempo è già diventato impaziente.
Il problema, però, è che tutte queste tecniche, in costante
perfezionamento, non sono ancora considerate scientificamente provate.
Pare addirittura che all’inizio lo stesso Freud abbia esagerato nel
raccontare le sue esperienze a maggior supporto delle sue teorie, anche lui era
un essere umano, per quanto in alcune manifestazioni mezzo disumano.
L’attuale neuroscienza dice che i sogni hanno più a che fare con la
memoria del giorno precedente che con i desideri repressi.
Con il mio mestiere di pseudoterapeuta non qualificato, in Brasile ho
avuto occasione di conoscere vari esponenti di queste scienze poco
scientifiche, tra psicologi e psichiatri, più alcuni imbroglioni di differente
tipo e livello.
La maggior parte delle 400 e più tecniche sono sorte durante gli anni
60, quando la rivoluzione sessuale portò a scoprire l’importanza del benestare
del corpo e della mente.
Una delle correnti più forti è la TCC, Terapia Cognitiva
Comportamentale, raccomandata a chi soffre di fobie come la paura di guidare
l’automobile, disturbi ossessivi come l’abitudine di lavarsi le mani
troppo frequentemente.
Diversamente dalle teorie di Freud, la TCC non ha bisogno di
sapere molto del passato e dei desideri repressi del paziente, è più corta e
parte dal concetto che “i sintomi depressivi vengono da pensieri e
convinzioni negativi su noi stessi e sul mondo”.
Odair e l’incontro con IV
Chi ha perso l’anima e dove? Magari
hanno scelto semplicemente di fare senza: non è più pratico?
(Adailton Machado da Silva)
Se e quando ho iniziato a pensare alla filosofia e alle sue innumerevoli applicazioni, non solo teoriche, anzi principalmente pratiche, è stato anche e soprattutto perché ho conosciuto IV.
Indio Velho, chiamava se stesso con la corta e pratica sigla IV. Insegnando
il francese, io all’inizio pensavo che fosse scritto Ives, ma questo non ha
molta importanza. Lui ci tenne a chiarire e poi leggermente si corresse subito,
dichiarando che nessuno avrebbe mai avuto motivo di scriverlo e qui si
sbagliava, ma non poteva saperlo e nemmeno io, a quell’altezza del campionato.
(Parentesi: a quell’altezza del
campionato è una frase tipicamente brasiliana, significa a quel punto della
storia, per dire che le condizioni generali di quel momento erano diverse da
quelle attuali, o da quelle di altri periodi storici.)
Secondo i concetti del
mondo occidentale, gli indios sudamericani non sono affatto un buon esempio di
apertura mentale, né di cultura globalizzata, ma rappresentano, un po’ per
tutti, un ritardo incredibile sull’orologio della macchina del tempo. C’è da notare, altresì, che loro non hanno la pretesa di essere qualcosa
di somigliante ai nostri gusti.
IV era uno che aveva viaggiato in diagonale per i cinque continenti
conosciuti, studiato sempre da autodidatta un po’ di tutto e vissuto con i
bianchi e altri popoli di vario tipo e colore, prima di ritirarsi, come diceva
lui, a vita privata.
Il mio comportamento da autodidatta era
già iniziato, è vero, avevo già fatto migliaia di chilometri, non solo
virtuali, ma IV mi convinse che ero sulla giusta strada, fu una conferma
importante.
Lo conobbi lassù nel suo boschetto, sulla collina più alta, di fronte
alla favela. Ero andato a fare un giro con il cane di un mio cliente e lui,
Argo, l’aveva scovato, seduto su un sasso, con gli occhi chiusi e le mani sulle
ginocchia.
Dopo avergli abbaiato per un po’, quando IV lentamente aprì gli occhi,
Argo si chetò miracolosamente, poi si lasciò accarezzare da lui e io mi
avvicinai, sembrava un rugoso indiano apache di un film americano,
aveva anche la regolamentare fascia sulla fronte.
Dopo, quando lo incontravo, pensavo alle condizioni, spesso penose, in
cui si trovava la sua gente. Eppure vedevo in lui quasi l’opposto, c’era
qualcosa che li univa e che li divideva, che mi affascinava troppo: la
ribellione tranquilla e pacifica a tutto ciò che gli accadeva intorno, da
secoli, forse anche da sempre.
Usurpato e massacrato, ripetutamente violentato sul suo stesso
territorio, l’indio brasiliano ha rifiutato di mischiarsi al popolo invasore e
ultimamente - amara ironia della fine del nostro secondo millennio - ci si è
perfino stupiti se ha protestato per i festeggiamenti dei 500 anni della
scoperta del Brasile, dichiarando che lui era qua da prima e che è stato
scoperto, sì, solo nel senso che gli hanno tolto la coperta.
Insomma, essere un indio non è mai stato facile, in Brasile come in
tutta l’America Latina, ora come prima.
Però IV aveva deciso di essere prima di tutto un essere umano e una
persona, vincendo la resistenza di secoli di mentalità completamente estratta
da quelle classiche occidentali o anche di altri tipi di popoli. Secondo lui un
indio era solo un indio ed era diverso da tutto e da tutti, questo almeno nella
gran maggior parte dei casi. IV aveva scelto la sua strada senza protestare, non avevo mai conosciuto
nessuno più soddisfatto di lui, eppure sapeva benissimo tutto ciò che era
successo prima, quello che stava succedendo in quel momento, anche meglio di
me, quello che sarebbe successo poi.
La logica per lui risolveva tutto, filtrata dalla sua filosofia, certo,
a sua volta derivante dalla sua esperienza di vita.
“Come va l’esistenza?” Mi disse con uno sguardo indescrivibilmente
pacifico e serio. O meglio: forse sorrideva o forse no, la sua espressione per
me era nuova.
“Bene, bene… stavo facendo un giretto.”
“Bravo. Ti piace la natura, eh?”
“Mi piace sì, vivo in quella casa là nella favela, sull’altra collina,
vede?”
“Ah sì, ma non c’è bisogno di darmi del Lei, uomo, non che me ne
offenda, via… insomma fai come vuoi.”
“D’accordo.”
Indio Velho, autonominatosi senza cerimonie Sceriffo della
palude collinosa, viveva lì, in una baracchetta di legno che aveva appena
lo spazio per stare sdraiati su una brandina e per un rudimentale fornello a
legna che si era fatto con le pietre.
In Amazzonia l’indio continua a campare alla stessa maniera di migliaia
di anni fa e questo in generale viene detto con disprezzo, ma certo là in mezzo
alla foresta, non si sa nemmeno cosa è lo stress, come non si conoscono, parimenti,
altre malattie moderne.
Dopo, quando potevo, mi trasferivo volentieri nello spazio e nel tempo,
in quel luogo ideale e calmo, insieme al cane Argo o da solo, verso quella
piccola palude puzzolente, ma in modo romantico, che era sulla collina di
fronte alla mia favela.
C’ero stato spesso, anche prima di conoscere IV, ma ora avevo un motivo
in più per andarci, almeno una volta alla settimana, a fare un giro, era un
boschetto incontaminato in mezzo a un banhado, una specie di palude
periodica del Brasile, dove l’umidità e la putrefazione si alternano a periodi
di secca.
Lassù dove i tramonti mandavano una luce primitiva e autentica, piena di
bellezza incantatrice, i rumori delle automobili e sirene della polizia e di
ambulanze parevano lontani, il vento fischiava un poco di più, insetti e
uccelli dialogavano intrecciando i loro rispettivi ronzii e cinguettii sotto il
sole che andava e veniva, tra le nuvole basse. Mai viste nuvole così basse,
bianche e gonfie come in Brasile.
Argo, il cane, si godeva la libertà della natura e correva soddisfatto
di qua e di là, con la lingua penzoloni.
Nelle periferie delle grandi metropoli vive in capanne di nylon nero
(quello dei sacchi della spazzatura) e il suo stato è di miseria e abbandono,
ai margini più sporchi e insalubri, l’indio intreccia e vende cestini di
vimini.
Anche da prima che me ne andassi in Europa avevo sempre sentito il
bisogno di uno come lui, cioè mi mancava e non lo sapevo, lo scoprii appena lo
trovai.
Per esempio perché potevo chiedergli cose e ricevere in cambio delle
signore risposte articolate, IV addirittura mi ascoltava quando parlavo e non
m’interrompeva. Se gli chiedevo qualcosa pensava bene alle parole che stava per
dire, ci metteva un bel po’, a volte pareva che non avesse nemmeno udito la mia
domanda.
Poi gli uscivano delle robe magari utili e illuminanti, riguardo i miei
recenti interrogativi, oppure anche semplicemente per intavolare una
conversazione interessante, o solo piacevole. Era già difficile trovare
qualcuno che avesse tempo, in più lui ci metteva una serie di altre qualità
entusiasmanti.
Indio Velho aveva una grande esperienza in conversioni, si era sempre
dato, anima e corpo, a quel che credeva. Quello che aveva imparato, di
conseguenza, era forse il contrario di quello che la gente normalmente faceva.
IV diceva che era bello capire e riconoscere di aver sbagliato tutto fino a
quel momento, perché ricominciare ci faceva sentire vivi. L’umiltà di ammettere
il proprio errore era fondamentale per riuscire a imparare qualcosa di utile,
per l’immediato futuro. Trincerarsi sulla propria posizione era quanto di più
idiota poteva esistere, era come tapparsi gli occhi, infilare la testa in un
buco, come gli struzzi, di fronte al pericolo. Spesso la gente agiva così, per
debolezza, per non affrontare la necessaria rivoluzione che ne sarebbe sortita
fuori.
Questo vecchio saggio rappresentava un’essenza atavica e filosofica, per
la cui esistenza nessuno avrebbe mosso un dito, là in basso, dove io passavo le
mie giornate di lavoro. Era un esperto attraversatore del mondo, uno che poteva
dare regole e mostrarne addirittura l’applicazione, non c’erano in giro molti
esseri umani del genere e, disgraziatamente, non se ne sentiva affatto la
mancanza, perché non si aveva nemmeno il tempo di pensarci.
IV chiamava le persone che vivevano là sotto i Valligiani, mentre io,
che abitavo in collina, ma lavoravo soprattutto in città, ero un Collinare, il
mio vicino, di cui gli parlavo spesso, era un Valligiano, perché abitava in
collina, sì, ma gli sarebbe piaciuto abitare in città. Lui, Indio Velho, era un
Montanaro. Nessuno pensava alla saggezza, tra i Valligiani, i Collinari forse
ci riflettevano un poco di più, per motivi puramente geografici e per certe
necessarie conseguenze. In montagna ecco che avevamo i pochi casi conosciuti di
umani persi in un mondo in cui non si faceva male a nessuno e si ragionava del
più e del meno, senza pestare i piedi al proprio prossimo, non perché ci
piacesse, il prossimo, non necessariamente, ma perché faceva parte di una certa
maniera di essere.
Indio Velho parlava un portoghese perfetto, con grande varietà di
vocaboli, ma conservava un tipico accento indio. Aveva la faccia liscia, senza
rughe, gli occhi diagonali, non era un selvaggio, ma aveva scelto di vivere nei
boschi del Morro Teresinha, perché la sua idea di vita, in progressivo
cambiamento, glielo aveva suggerito e per questo era un esempio refrigerante e
rigenerante per me, che passavo le ore perso per le rumorosissime vie della
capitale, in mezzo a gente anche piacevole, simpatica e tutto, ma un po’ troppo
agitata e che faceva agitare anche me. IV diceva che in genere, la gente non
sceglieva, s’infilava in un tunnel di situazioni concatenate e usciva, viva o
più frequentemente morta, molto tempo dopo, dall’altra parte.
Nelle loro comunità, nelle foreste pluviali, l’indio pratica caccia e
pesca, un po’ di agricoltura e nel rapporto uomo e donna non prestabilisce
limiti o canoni, di nessun tipo: esistono nuclei di due uomini e una donna,
come di tre donne e un uomo, a differenza della maggior parte delle civiltà
occidentali e orientali, tranne poche eccezioni e tutte a vantaggio dei maschi.
Indio Velho era un indio vecchio, lo diceva il suo nome stesso, saggio
come un diavolo di angelo bonario, che viveva di non so quali alimenti, giacché
non me ne voleva parlare mai, anche se glielo chiedevo sempre, su una
collina ai limiti della grande città.
Mi piaceva vederlo mentre si cibava di valori veri e dimenticati nella
corsa al denaro, nel giorno per giorno dell’uomo comune che, secondo lui, era
una specie in estinzione, che veniva progressivamente sostituita dall’uomo
banale, l’uomo che non sapeva quello che voleva, ma lo voleva fino in fondo,
perché credeva di non avere alternative. Per IV, vivere male significava non
concedere a se stessi più di una opzione possibile.
Per andare a trovarlo dovevamo risalire la collina a piedi, il cane
ansava e bilanciava la lingua verso il basso, io avevo una lingua più corta e i
miei polmoni faticavano a mantenere il ritmo, ma a differenza di Argo, potevo
sudare e già che c’ero, sudavo a volontà.
Arrivati sul falso piano, usciti dal bosco grande, dovevamo attraversare
la palude, di acqua non ce n’era molta, ma era seminascosta da questa specie di
giunchi, era sufficiente per bagnarsi fino ai ginocchi, se si incappava nella
pozza giusta… o sbagliata. Ecco che dovevo studiare meticolosamente ogni mio
passo, Argo invece ci s’infilava dentro, per lui pareva una goduria, che in un
certo senso gli invidiavo. Lui superava le punte vegetali di una testa, ma la
sua era una testona triangolare e in più le sue orecchie ritte sfidavano ancora
di più il cielo. Entrati nel boschetto lui sapeva già dove andare e lo seguivo,
perché io invece mi sarei perso, non c’erano viottoli, certo quell’uomo non
amava fare due volte lo stesso percorso… ma lui sentiva l’odore di Indio Velho,
mentre io non lo distinguevo dall’odore caratteristico che c’era in giro, di
natura più meno selvaggia.
L’umidità era forte e odorosa di muschi e acque ferme, c’erano degli
avvoltoi che volteggiavano nel cielo, li vedevo apparire e scomparire tra i
rami, mi pareva di sentire dei tamburi, ma forse era il mio cuore che batteva
troppo forte. Mi fermai a riposare un momento. Quando il mio respiro ritornò alla
normalità, sentivo un improbabile rumore alla mia sinistra e girandomi scoprii
Indio Velho che stava placidamente voltando la pagina di un libro, seduto su
una pietra larga e piatta e disegnata dai licheni di vari colori e consistenza,
in una minuscola radura dove il sole, fuggito per un attimo dalle nuvole,
riusciva a battere su pochi metri quadrati di terra erbosa, forse solo per
qualche minuto.
C’era una pace liquida e sonnolenta, la luce scendeva dorata, a fette
tra i rami. Indio Velho mi guardava come se non mi avesse visto, chiuse il
libro lentamente, accarezzò il cane, i suoi occhi come due fessure.
“Olà professore di lingua e cultura francese.”
La sua voce pareva adattarsi bene alla natura circostante, la mia invece
era meno armonica, spezzava la qualità di quel silenzio fatto di mille piccoli
rumori, sarà stata colpa dei miei polmoni stanchi:
“Olà Indio Velho, come va la vita in mezzo alle frasche?” Gli dissi
avvicinandomi.
“In mezzo alle frasche niente di nuovo, perciò la vita va bene, si
riesce a leggere e anche a meditare, a fare un’osservazione minuziosa e
piacevole della natura, la respirazione funziona a dovere anche perché la
facciamo quasi esclusivamente col naso, le orecchie filtrano i sussurri della
boscaglia e da lontano si sentono gli infernali rumori che fate voi laggiù,
scoreggioni, che dite di correre dietro alla felicità…”
“Sì, lo so, siamo gente abituata non solo ai rumori forti, vogliamo
emozioni violente, la televisione sempre accesa e a tutto volume, e se te li
portassi qui, i Valligiani, il tuo silenzio li farebbe impazzire…”
“Il silenzio non è mio, è alla portata di tutti, almeno in teoria… anche
se nessuno lo vuole, ma tu dici che non resisterebbero, a questo fragoroso
silenzio?”
“Non lo so, non ci sono abituati, di sicuro non gli piacerebbe. Magari
gli spaccherebbe i timpani…”
“Beh, allora è meglio che non ci vengano qui, pazienza.”
“Pazienza, sì, sì, ci vuole pazienza, ma tu di pazienza ne hai da
vendere, mi pare…”
“Ma la pazienza nessuno la compra…”
“Hai provato a offrirne in giro?”
“Sì, ma per quanto sia preziosa, non è quotata in mercato. Ne ho
immagazzinata un bel po’, l’ho mostrata alla gente e gliene ho decantato le
proprietà miracolose, ma sembrano considerarla senza valore, allora sono
costretto a tenermela.”
“Per me ha un grande valore, invece, potresti darmene un poco, te la
pago, ne ho un gran bisogno io, con il mio lavoro…”
“Prendine quanta ne vuoi, io ne ho di avanzo, non voglio niente in
cambio.”
Disse con aria solenne e poi sorrise.
Stavo pensando seriamente a come fare per prendere e portarmi via un
carico della preziosa pazienza di Indio Velho, ma la soluzione si trovava già
in questa pausa del dialogo, solo a vederlo mi veniva naturale e automatico
essere più paziente e tollerante, esattamente come a vedere certe persone
stressate mi stressavo anch’io, queste cose magari erano trasmissibili o forse
anche contagiose…
Quando mi sentii di aver immagazzinato abbastanza pace e serenità, poi
gli domandai:
“Ma tu, piuttosto, non ti senti solo, qui?”
“Mi sono già sentito solo, all’inizio, ma per fortuna avevo avuto tanta
compagnia, prima, ora è stivata in deposito, tu non lo sai, ma io ho
attraversato il mondo, in lungo e in largo, ne ho conosciuta di gente, sono un
po’ stanco di tutto quel parlare, sì… parlare è bene ma stare zitti ha anche il
suo fascino… quelli che parlano di più sono quelli che hanno meno da dire, la
conversazione è un’arte, ma la gente ha bisogno di fare tutto alla svelta, non
ha tempo e poi, quando ne ha, pensa ad altro… comunicare è importante e
necessario, ma dovrebbe essere anche un piacere. Invece è diventata
esclusivamente una necessità. Ed ecco che il suo fascino è diminuito, almeno
per me.”
La sua presenza era rassicurante, per me, non come quella di una guardia
del corpo, cosa da Valligiani, ma piuttosto come quella di una guardia della
mente, che era invece roba da Montanari.
Uno che sapeva attraversare ogni quesito con il suo ragionamento, la sua
filosofia personale, senza pretendere di risolverlo, senza dover credere che
tutto avesse necessariamente una risposta urgente o definitiva.
Insieme a lui non mi sentivo in dovere di parlare, riusciva a
trasmettermi la sua energia quieta a sguardi, a gesti, anche nella sua
immobilità in mezzo al cinema esotico della natura circostante.
Usciti dal boschetto, attraversata la salita coperta da erbe basse,
certo spuntate da poco e di un verde chiaro vivissimo, arrivammo su un
altopiano più largo, vicini al crinale, il vento era aumentato.
Ci sedemmo su una pietra, dove il vento sembrava più caldo, nella
boscaglia invece l’aria era ferma e umida.
I suoi occhi si spostavano lentamente attorno e il suo naso sembrava
fiutare a lungo, come quello di un cane:
“Hai sentito qualche odore, o qualche variazione nello spazio e nel
tempo?” Gli domandai ironicamente.
“Sì. Domani pioverà, o forse stasera, o stanotte.”
“Come fai a saperlo?”
“Aria di pioggia, dal lato della laguna, di là gli odori arrivano in
anticipo.”
Non mi sorpresi, in città non ci riuscivamo più a sentire gli odori
della natura, ma una volta la gente era più legata a queste cose. Indio Velho
era come un vecchio cane selvatico della boscaglia, sentiva tutto e tutto aveva
il suo bravo significato, là in mezzo, per lui.
Là sotto, nella grande città, invece noi barcollavamo nel buio, non
capivamo la metà di quel che ci succedeva, eravamo barchette in mezzo alla tempesta.
Indio Velho fiutava e vedeva e ascoltava, era sempre padrone del suo
presente e non pensava troppo al passato e al futuro.
“I cani lo fanno ancora. Fiutano. Loro non perderanno mai il loro
contatto con la campagna, il loro bagaglio di memoria gli viene trasmesso,
istintivamente e spontaneamente. Noi da piccoli dobbiamo imparare tutto, gli
animali invece hanno tante nozioni acquisite dai loro predecessori, che sono
praticamente autosufficienti da subito, noi invece, senza i nostri genitori
moriremmo, nei primi giorni.”
“E allora?”
“Allora la nostra scarsa attitudine fisica, ai primordi, ci ha fatto
sviluppare l’intelligenza.”
“Secondo te eravamo predestinati?”
“Non lo so, ma se fossimo stati ugualmente abili a procacciarci il cibo,
come gli altri animali, forse ora non saremmo così complessi.”
“Questo sarebbe il famoso elogio all’inferiorità?”
“Esatto, ma se ora abbiamo sviluppato tutto questo progresso attorno a
noi, ci siamo distanziati da loro, gli animali, e dalla natura e siamo
diventati di nuovo inferiori, è perché non stiamo bene…”
“In che senso?”’
“Non capiamo più qual è il senso della vita.”
“Ma come, non è il denaro?” Chiesi con uno stupido sorriso
indagatore.
Indio Velho sorrise, guardò lontano, dietro alle mie spalle, diventò
serio e pensieroso, forse perché laggiù il denaro dettava la sua inesorabile
legge. Era proprio per quello, per le sue dannate e ramificate conseguenze, che
lui aveva scelto di vivere lassù.
“Il denaro è il prezzo della vita, non mi ricordo chi lo ha detto, ma
credo che sia vero. Io però, credo che il senso della vita sia da cercarsi
nella natura, più ce ne allontaniamo e meno ci sentiamo bene.”
“Allora tu cosa suggeriresti?”
“Di cambiare argomento.”
Tre giorni dopo, nella mia visita seguente, iniziammo a parlare dei giovani.
A proposito dei giovani, lui voleva che gli raccontassi i dialoghi che sentivo
in giro per la città, lo facevano ridere, si divertiva e diceva che imparava
tante cose nuove, specie quando riuscivo a trovargli qualche storia inedita.
Quel giorno ne avevo una che forse gli sarebbe piaciuta:
“L’altro giorno ho sentito una conversazione interessante per strada.”
Proposi, con sguardo intrigante.
“Tra giovani?” M’incalzò avido Indio Velho.
“Giovanissimi.” Dissi orgoglioso di me e del mio ruolo di testimone
della società moderna brasiliana.
“E com’è stata?”
“Rapida, ma simpatica e indicativa.”
“Sono pronto. Raccontamela allora. Che diavolo aspetti?” Disse
preparandosi seduto Indio Velho.
“Sì, va bene, ma non c’è bisogno di sedersi, è velocissima.
Dunque: ieri pomeriggio c’erano due ragazzine che passavano camminando
davanti a me, avevano forse quattordici o quindici anni, non lo so, siccome
avevano quasi la mia stessa velocità di passi, prima che attraversassero la
strada, le ho sentite raccontarsi le loro cose… e qui devo dirti che, per loro,
quello che dicevi, qualche giorno fa, della necessità del comunicare e dello
scarso piacere nel farlo, non vale, sembravano veramente contente di parlare
tra di loro…”
“E che dicevano, che dicevano?” Domandò lui.
“Bene, una di loro, quella che parlava di più, ha iniziato: ieri ho
incontrato Mello, e lui mi ha detto: Perché non facciamo non so cosa,
non so quando, uno di questi giorni, magari, insieme? ”
“Ah, bello, e lei che cosa ha risposto?” Chiese Indio Velho.
“ Ma quanto tempo ci vuole? Ha domandato. Già che la
seconda ragazzina glielo aveva chiesto immediatamente, come te. ”
“E l’altra, e l’altra?” Domandò IV.
“Ah, questo non lo so! Ha risposto la prima ragazzina.”
IV rise, lo sguardo alto oltre di me, come se si immaginasse la scena,
per qualche secondo. Poi disse entusiasta:
“Meraviglioso, piccola-grande storia, sei un grande osservatore Odair,
questo è uno stupendo esempio di stringata banalizzazione moderna, pieno di
mancanza di significato e perciò autenticamente significativo e significante,
ma… a proposito: cosa diavolo significa?
Magari ti dico la mia interpretazione: i giovani non specificano più le
situazioni che già appartengono a schemi standardizzati e conosciuti da tutti e
si riferiscono a essi con parole e frasi cortissime e convenzionali.
(Un po’ come la barzelletta del club dei raccontatori di barzellette,
che ormai le raccontavano citandole e ridendo usando i loro relativi numeri di
riferimento dopo averle catalogate…)
Insomma, le persone nel mondo globalizzato pensano di non avere tempo
per stare a conversare e allora usano i nomi per le situazioni, avendole da
tempo catalogate e divise in categorie… la totale assenza di specificità
appiattisce e semplifica tutto, senza doversi dilungare in descrizioni noiose e
fuori moda, dato che il tempo corre… Fenomenale.” Aggiunse lui cercando forse
in me una qualche reazione.
“Fantastico.” Dichiarai io, con malcelato poco entusiasmo.
“Incantevole.” Terminò Indio Velho con autentica e grande gioia
bambina.
“Ma questo non è anche un poco triste?” Rincarai allora, da mezzo
avvocato del diavolo, per capire meglio cosa ne pensava Indio Velho e perché
pensavo, in fondo in fondo, che fosse triste veramente.
“Non lo so se è triste.” Disse lui. “Ma la gente è così, specialmente
quella giovane che studia e quella che lavora, mi pare che veramente non abbia
tempo, per conversare come vorrebbe e comunque non ci è più abituata. Non si
sente più piacere nella conversazione, nella modernità tutto si frammenta,
tutto diventa rapido e necessario, allora si va al passo con i tempi, oppure si
viene dimenticati. Basta pensare ai computer, all’economia virtuale, ai
dialoghi tra persone che lavorano, ai cellulari e ai messaggi di testo o di
voce, agli incontri rapidi e in più interrotti da continue telefonate, la
comunicazione sta correndo come impazzita, per forza diventa uno stereotipo,
perché la descrizione sarebbe molto più lenta, no, no, si deve sintetizzare al
massimo, per mantenere il ritmo…” Aggiunse lui, con entusiasmo, come se fosse
una catena di cose positive.
“E questa non è malinconia?” Domandai io.
“Forse sì o forse no, ma quello che noi dobbiamo pensare è che la natura
stessa non si fa questa domanda, va avanti e non pensa alle soluzioni, ma vive
la sua realtà dolorosa o meravigliosa che sia, dipende dai punti di vista, la
natura non ha punti di vista è qualcosa di enorme e mischiato, e in movimento.
Io cerco di ragionare in questa maniera, essendo io stesso poco ragionevole ma
assai pratico, le soluzioni per me sono diventate automatiche, da qualche anno
a questa parte non ne ho più, di decisioni, tutto si muove da solo. Come la mia
maniera di isolarmi, che non è stata cosciente né improvvisa, ma il risultato
di tutto quello che ho vissuto prima, sommato al mio carattere, alle condizioni
di vita che stavo attraversando…”
“Ma per fare così bisogna un po’ disumanizzarsi…”
“Certo, ma non fa così male come si pensa, animalizzarsi un poco, perché
è il ritorno alle nostre origini, io sto meglio ora di prima, certo non posso consigliarlo
a tutti, ma chi se ne importa?”
“E allora non ti rattrista per niente questo processo di diminuzione del
valore della cultura? L’appiattimento del dialogo, la morte della piacevole
conversazione?”
“Forse sì, ma solo se fossero cose prese separatamente.”
“Che cosa vuoi dire?”
“Voglio dire che tutta questo progressivo peggiorare è solo una
sensazione di gente che è abituata a cercare i difetti e non i pregi, a
separare e non a associare, ma questa tristezza la maggior parte della gente
non la sente, secondo me, perché si è abituata a vivere in questa maniera…”
“Certo che l’ignoranza e la povertà, almeno qui, fanno parte della vita
di tutti i giorni…”
“Non solo qui, la storia si ripete come la geografia, la religione e la
storia dell’arte, sì, sì, anche come la matematica… ridi? Ma è la pura verità,
amico caro, tutto è copia di tutto, io non so immaginare un mondo differente, è
sempre stato così e lo sarà ancora, nei secoli dei secoli…”
“Ma noi, però, dovremmo sperare che il mondo migliori, non è vero?
Magari anche fare qualcosa affinché questo possa succedere.”
“Certo sarebbe bene, ma non tutti lo possono fare.”
“Non sono d’accordo. Secondo me tutti quelli che se ne rendono conto
dovrebbero fare qualcosa, attivamente, non solo parlare.” Dissi io con una
certa convinzione.
“Il difficile è non guastare la propria vita, nella ricerca di un
qualcosa del quale probabilmente non vedremo risultato.
Beh, il mondo è stato infelice sempre, più o meno come ora, anche se in
maniera differente, si può scegliere un’epoca preferita del passato, ma non si
sa se le persone erano più felici di ora. Si potranno sempre migliorare alcune
parti, ma allo stesso tempo altre peggioreranno, almeno dal nostro punto di
vista. Dal punto di vista di altre persone, invece, proprio le cose che per noi
saranno peggiorate, per loro sembreranno migliorate e ogni cosa e il suo
contrario si avvereranno puntualmente, insieme alle mezze misure, nelle minuzie
come nelle cose importanti, ci sarà eternamente una mistura confusa, sarà sempre
difficile trovare la verità, ognuno ne avrà sempre un’idea differente, in un
momento, e in un altro sarà già cambiato.
Per esempio: siamo abituati a dire come nostre le parole di un
commentatore televisivo, a crederci veramente come se fossero nostri pensieri,
le frasi udite in giro e che ci sono piaciute, ma il nostro pensiero sarebbe
assai differente se veramente conoscessimo i fatti e non le notizie… perché i
fatti sono già stati presi e filtrati, mangiati e digeriti da quel giornalista,
che magari parla così per un suo interesse personale, per proteggere o
promuovere qualcosa o qualcuno. ”
Rimanemmo zitti per qualche attimo, gli uccelli cantavano forte, erano
in tanti, mi pareva che ci fosse in loro una particolare agitazione. Me ne
accorgo solo ora, che Indio Velho mi aveva aperto una nuova porta, come sempre.
Insistere nel mio punto di vista però mi portava a capire meglio, a sviscerare
più completamente possibile l’argomento, come se immaginassi il punto di vista
di chi sta di fronte a me e come se le parole di IV fossero le mie. La pausa
finì quando io gli dissi:
“Ma quella maniera di parlare, se ho ben capito, non ti piace, così
rapida, disturbata, frammentata, sintetizzata, senza personalità. Se la gente vive in
questa maniera, non è peggio anche per noi?”
“No, o almeno solo in parte, quella è la loro vita, come potremmo fare
per uniformare il nostro pensiero a quello di loro? E anche se potessimo, non può essere che in alcune
cose loro abbiamo ragione e noi torto? E poi noi chi siamo? Tu sei diverso da
me, siamo tutti diversi… anche se ci sforziamo di apparire uguali.”
“Va bene, va bene, ma vedere gli altri che stanno male non fa stare male
anche noi?”
“Sì, in un certo senso, ma è la condizione dell’uomo, se anche tutti gli
uomini stessero bene, non sentiremmo pena per gli animali? Se potessimo anche
risolvere tutti i problemi animaleschi, poi le piante e le pietre ci parrebbero
sfruttate e mal retribuite della necessaria e dovuta gratitudine… la pietà,
insomma, nel senso classico, la compassione, certo, è bene avercela… ma non
dobbiamo esagerare, prima di tutto perché non siamo per niente onnipotenti.
Come fanno gli stessi animali? Il tuo cane, per esempio - sì, lo so che
non è tuo - pensa a se stesso, o forse nemmeno a quello: cammina, abbaia,
mangia, poi dorme, se glielo lasci fare si procrea e non pensa mai, tanto per
dire, a come sta male il cane del vicino che invece è legato e non può nemmeno
farsi un giretto per il terreno recintato, e che nessuno lo accarezza mai…
Ecco: la pluralità porta la diversità e la diversità è più da accettare
che da capire, il senso della vita è godersi la bellezza che c’è in giro,
approfittare di quello che abbiamo e non stare a riflettere troppo su quello
che non abbiamo noi o che gli altri non hanno. In sintesi, se noi stiamo male per gli altri, è
solo perché non sappiamo dare, a loro o alla situazione, la opportuna
collocazione nell’ordine delle cose. Invece, se le dedichiamo un po’ del
nostro prezioso tempo, formiamo la nostra filosofia personale e solo allora
possiamo accettare, perché allora non è più una cosa passiva, ma attiva. Ecco
che possiamo aiutare gli altri, non dico materialmente, ma anche solo con la
nostra presenza, una frase, una parola… cosa che non possiamo certo fare se
stiamo in pena, se soffriamo, se la vita ci pare ingiusta e penosa, il bene che
potremmo fare si tramuterà in dolore, questo sarebbe ciò che doneremmo agli
altri, solo che di questo nessuno ne ha bisogno, però.”
Zico e le favelas di Rio
"Vou
com fé, vou na fé porque a fé não costuma falhar. Eu aprendi que só Deus pode
julgar..."
“Ci vado con la fede, ci vado
con la fede perché la fede non ha l’abitudine di sbagliare. Ho imparato che
solo Dio può giudicare...”
(Realidade Cruel – Realtà
Crudele - gruppo rap)
A Rio de Janeiro la divisione è nitida. Le tante volte che sono stato a RdJ questa divisione l’ho assorbita. Fatta mia mentalmente. Un muro invisibile spacca in due la metropoli carioca.
Le favelas isolate sulla collina (morro) e gli abitanti “per bene” che
vivono nei quartieri dove ci sono le strade (asfalto).
La spiaggia è l’unico luogo d’incontro tra questi “due mondi” dove la
diversità non emerge. Come un frullatore, la spiaggia detronizza le diversità
di chi vive nei palazzi rinomati d’inizio novecento (con prezzi al metro quadro
uguali a quelli di Londra) con chi invece sopravvive tutti i giorni nelle
favelas come la Rocinha.
Domenica mattina, spiaggia di Copacabana. Mi chiedo come posso capire se
il palleggio perfetto, a piedi nudi di quel ragazzino di dieci anni (non di
più) e la sua velocità nel dribblare la squadra avversaria siano o no Made in
Favelas.
Magnetizzato a guardare il pallone che resta incollato ai piedi del
riccioluto, ambrato ragazzino che tutti chiamano Zico. Anche i più grandi di
lui usano quel soprannome. Con grande rispetto. E il ”piccolo Zico”, come una
vera star, finita la partita, non si lascia coccolare da complimenti o
richieste di foto dei turisti che, come me, sono rimasti sbalorditi. Da
giornalista sportivo, mi chiedo se ho veramente visto in anteprima un nuovo “fenomeno”.
Tornano alla mente le immagini in bianco e nero di Maradona, a dieci anni che
palleggia in un campetto di un quartiere malfamato di Buenos Aires.
Accostamento esagerato. Forse sì. Il piccolo Zico fugge via dalla spiaggia
solo. Nessun genitore ad aspettarlo nonostante ormai sia buio e le strade del
centro di Rio siano pericolose. “Meninos de rua”? Chi lo sa.
Povertà e irregolarità sono la normalità per Rio. Sono censite
ufficialmente tra le 600 e le 700 favelas. Droga, miseria e armi. Ma anche
sfruttamento e violenze sui minori. Ognuna di queste favelas possiede una sua
storia che la distingue in termini sociali, culturali ed etnografici. La
metropoli carioca, basta guardarla per capire. Costruita nel mezzo di alcuni
complessi montuosi ricoperti di foresta. Le sue favelas adagiate su costoni
rocciosi, per tutti zona franca, distanti e differenti dal resto della città.
La favela è un fenomeno antico. A Rio, la prima risale addirittura al
1897 quando i soldati di ritorno dalla campagna di Canudos si trovarono senza
casa e occuparono l’area dell’attuale Morro da Providencia nella zona nord
della città. Negli anni trenta si assistette al dilagare del fenomeno, che fu
alimentato dalla crisi economica e dal crollo del prezzo del caffè, che mandò
in rovina una buona parte della classe media carioca.
In vista dei campionati del Mondo, Rio è alle prese con il tentativo di
urbanizzare e bonificare queste aree franche dove ancora una parte della
popolazione non è censita.
Le immagini della diretta televisiva di O Globo del dicembre 2010, con i
soldati e che guerreggiavano con le bande di narcotrafficanti delle favelas è
stato il punto di svolta per Rio. A distanza di dieci mesi, oggi, in molte
favelas la polizia può entrare senza essere attaccata a colpi di bazooka. La
violenza, dicono le statistiche, si è drasticamente ridotta.
Un primo passo per abbattere quell’ancora imponente muro invisibile tra
morro e asfalto. E sperare che non sia solo la spiaggia luogo d’incontro tra
questi due mondi. E non doverci più chiedere se le magie sulla spiaggia del “piccolo Zico”
siano o no “Made in favelas”.
http://www.24emilia.com/Sezione.jsp?titolo=Zico+e+le+favelas+di+Rio&idSezione=29343
Ada
Nel mio modesto angoletto
sto studiando da sempre, anche se non me ne accorgevo, dove va a finire questo
mondo.
Una cosuccia che già non
so dove comincia e dove finisce.
Insomma la civiltà che
direzione sta prendendo, forse la civiltà stessa fa parte di un disegno più
grosso, di un movimento perpetuo tracciato da non so chi, forse da un Dio, o
magari dall’uomo stesso, inteso come umanità. O – chi lo sa? - è tutto a caso?
(Odair Ribeiro Diaz)
Il giorno dopo Adailton, per strada andando verso il quartiere
Cinelandia, poi mentre lavorava, pensava e ripensava a Oda e agli spiedi.
Se li era dimenticati di nuovo.
A sera, stanco e incuriosito decise che non aveva niente da perdere, (a
parte quei diavoli di spiedi) e telefonò a Odair che aveva un cellulare, gli
aveva dato il numero il giorno prima.
“Tutto bene Oda? Qui è Ada...”
“Olà Ada, come va l’esistenza? Senti, sono in seduta, dimmi rapidamente, magari ti
chiamo dopo...”
“Niente, volevo provare a fare una... seduta anch’io, come pagamento accetteresti
anche il prestito retroattivo di spiedi di churrasco?”
“Certamente! Visto anche che ho in mente una certa cosa per te... poi ti
spiego. Va bene!”
“Ottimo, a che ora vengo?”
“Stasera, domani, ti va bene la sera? Così non perdi il lavoro, alle otto
di domani sera va bene per te?”
“Sì... ma ci vuole un poco di tempo per arrivare lì, può essere
alle otto e mezzo?”
“A posto! Otto e mezzo qui sulle poltrone di Napoleone!”
E riattaccò senza aspettare risposta. Ada rimase soddisfatto e andò a
dormire, si addormentò subito, ma la solita sparatoria tra trafficanti lo
svegliò verso le quattro di notte. Dopo si sognò Oda vestito da indiano
dell’India, che gli faceva un sermone dalla roccia del Cristo Redentore, lui,
là in basso, sdraiato sulla spiaggia di Copacabana lo ascoltava perfettamente
concentrato, Oda diceva cose incredibili e che gli pareva che non avessero
niente a che fare con lui, ma dopo, da sveglio, non se le ricordava più.
Alle otto e quindici minuti Oda gli aprì la porta, prima che lui bussasse,
sul fornello c’era una pentola fumante che mandava odore di fagioli neri
fumanti, con spezie e carne grassa per insaporire: la feijoada.
“Ah, sei in anticipo, pensavo che fosse Jorginho da Cruz, il mio
amico-cliente-macellaio, sto aspettando i pezzi di maiale per la feijoada...”
Ada si guardò intorno e si sedette sulle poltrone di Napoleone, così
chiamate perché vecchie e di panno blu, con i bottoni che una volta dovevano
essere stati dorati.
“Allora quando comincia la seduta?”
“Può cominciare da questo momento.”
“E quanto dura?”
“Il tempo necessario, che generalmente è un’ora, ma qui non ci sono
orologi e non ce ne saranno mai, o meglio: mai più. Dopo un’ora più o meno
esatta di discorsi, il gatto, Soneca de Ouro (Pisolino d’Oro),
che puoi vedere lì sdraiato nella penombra di una terza poltrona napoleonica,
quella più sfondata, comincia a diventare annoiato e miagola, questa è la fine
della seduta. Non c’è da sbagliarsi.”
“Bene. Cominciamo subito, allora.”
“Aspetta, vado a scaldare l’acqua per il chimarrão.”
“La feijoada è inclusa nel prezzo?”
“Sì, ma dobbiamo aspettare Jorginho, per i pezzi di maiale... doveva
essere già qua, si sarà fermato a bere... quello beve che sembra pagato...
spesso con i soldi miei, infatti, ma è un bravo ragazzo, ogni tanto una bella
bastonata lo rimette sui binari, ne ha un bisogno fisiologico e a quello ci
pensa sua moglie, per fortuna, che sennò è faticoso.”
Dopo pochi minuti Oda ritornò con il termos e la cuja già
preparata, (recipiente ricavato da un tipo di zucca seccato, dove si beve il
chimarrão), davanti a un’enorme televisione a valvole spenta, con sopra un vaso
di folte felci ornamentali, che sembravano i capelli dell’apparecchio antidiluviano,
ecco che sprofondati entrambi nelle poltrone antiche, sorseggiavano a turno
l’infuso caldo dell’erba mate, il famoso chimarrão gaúcho,
un bastoncino d’incenso bruciava attaccato al lampadario di gocce di vetro, in
lontananza una musica strana, strumentale, forse qualcosa d’indiano...
“Vogliamo iniziare?” Disse Oda.
“Sì, sono pronto, o quasi.” Rispose Ada.
“Allora, come stai vivendo all’epoca attuale?”
“Male.”
“Tutto quello che vedi è negativo?”
“No, ci sono anche cose positive...”
“E quali sono?”
“Non dovrei dirti quello che non va?”
“Chi è qui il saggio paziente, e chi l’avaro cliente del disgraziato
saggio?”
“Hai ragione, ma ora non mi viene in mente niente di positivo...”
“Ah, ecco. Però è importante che tu sappia che c’è qualcosa di buono, è
già importante che tu dica che esiste qualcosa di positivo... da questo capisco
già un bel po’ di cose...
Comunque pensaci bene e poi dimmi che cosa vedi di bello.
Solo le cose più importanti.”
Adailton pensò per qualche minuto. Poi disse:
“Gli spiedi, oggi me li posso finalmente riportare a casa...” Sottolineò con un sorriso
ironico.
“Questa è già una cosa positiva, non mi pare molto importante, ma forse
per te gli spiedi lo sono... dimmene un’altra, qualcosa di meno materiale...”
“Che non sono rimasto a casa a rimuginare come al solito, la domenica
sera mi sento più solo del normale...”
“Questa mi è già piaciuta di più. Qualcos’altro?”
“Forse che fra poco ci mangiamo una bella feijoada che è tanto tempo che
non ne mangio una decente?”
“Vedi qual’è il nostro problema?
Non offenderti cugino, ma il nostro problema è l’opposto di quello dei
ricchi, da questo si capisce che siamo poveri, lo sapevamo già, va bene, ma
quello che è più brutto è che abbiamo la mentalità da poveri. Pensiamo solo a quello che
stiamo vivendo al momento, il che sarebbe una cosa buona, ma il fatto è che
siamo incapaci di astrarci, voglio dire, di uscire immaginariamente da noi
stessi, dall’ora di questo momento, per poter guardare noi stessi dal fuori,
per capire che tipo di cetrioloni sgocciolanti abbiamo piantati dentro gli
orecchi, che ci impediscono di intendere quello che succede fuori dalla nostra
testona grande e vuota, ma che sorprendentemente non smette di rimuginare un
secondo su cose inutili. No, non ti offendere, anch’io ho provato questa
sensazione d’impotenza: tutto difficile, tutto lontano, tutto complicato, tutto
fuori portata, tutto quello che conta veramente è irraggiungibile.
Perché?
Solo per mancanza di competenza, poi di conseguenza di mancanza di
occasioni, quindi conseguenza di mancanza di soldi, semplicemente nascere nel
luogo sbagliato, con la famiglia sbagliata, al momento sbagliato?
Purtroppo sì.
Non te la prendere, succede a tanti ed è successo anche a me, se ti
racconto come ho messo in carreggiata la mia automobilina, nella confusione del
transito di tutto quello che mi era successo, non ci crederesti nemmeno...
Sì, ammettiamolo, la vita non è troppo difficile, in fondo, ma siamo noi
che siamo stati buttati qua in mezzo, da chi ci capiva meno di noi, i nostri
ignoranti genitori e per questo noi stiamo qui a piangere senza la possibilità
di capirla.
I ricchi?
I ricchi invece pensano troppo al domani, a conservare e in un futuro
prossimo ad aumentare la loro proprietà e tu, che invece non hai niente, puoi
solo pensare agli spiedi e alla feijoada? Certo, sono le cose più piacevoli che
puoi trovare in giro. Cerca di sforzarti un poco ancora, che cosa è veramente
importante, che fase sta attraversando la tua vita, oppure quali sono le tue
prospettive?”
“Ma tu non sei povero, almeno la tua famiglia non lo è, sei tu che hai
scelto di venire a vivere qui, o no?”
“No, ma questo è un altro discorso, questa povertà mi è stata utile,
prima di tutto per abbandonare la protezione dei miei genitori che mi avevano
fatto diventare un inutile totale e mia moglie ha fatto proprio bene a
lasciarmi, detto tra noi. Poi mi è servita per trovare la mia strada. Ora
lascia perdere la mia storia e pensa a te stesso, a qualche cosa di positivo.”
Silenzio, Oda ne aveva dette tante e la testa di Ada ci stava pensando,
dopo una decina di secondi disse:
“Una cosa positiva è anche che, se tu mi dai una mano, posso sentirmi
meglio in futuro...”
Lo dichiarò sorridendo con quell’espressione tagliata nell’ironia che
nasceva automaticamente sulla sua faccia scettica, che la vita di favela aveva
abituato a diffidare anche dei fatti più sicuri, perché se nella vita niente
era sicuro, beh, in una favela ancora meno.
“Molto bene. Stiamo migliorando, a parte quel sorrisino ironico, che fa
parte della nostra cultura irriverente, quello è più difficile da estirpare, lo
so. Continuiamo: dimmi ancora una cosa positiva.”
“Lo sai che sei cambiato tantissimo da quando ti ho visto l’ultima
volta?”
“Si, lo so, lo sapevo anche prima e poi tu me lo hai già detto. Questa
ti pare una cosa positiva?”
“Sì, perché prima eri diverso... eri un negrone come tanti...”
“Come esattamente?”
“Ignorante. Stupidotto come me. Più attaccato ai soldi forse, ne avevi
di più e allora ne volevi di più.”
“Bravo. I miei genitori hanno fatto il possibile per educarmi a credere
che il mondo girasse intorno al mio ombelico. Alla convinzione che i soldi sono
l’unica cosa veramente interessante. Certo avere una certa cifra sviluppa il
pensiero di aumentarla, se non hai niente o poco, ecco che pensi alle piccole
porzioni di tempo, alla giornata, magari anche con meno ansietà. La tua
filosofia è tirare a far notte.”
“Beh, non esageriamo.”
“No, meglio di no. I soldi per te sono un problema, oppure l’ideale
soluzione? Sono o non sono il motivo del tuo star male?”
“No, almeno non credo. È solo la loro mancanza a volte che mi obbliga a
fare una vita che non mi soddisfa troppo...”
Ne risero insieme, un poco amaramente, si potrebbe aver pensato, ma non
c’era amarezza nelle loro espressioni. Il modo di comportarsi di un brasiliano
è rotondo, inafferrabile, per abitudine non si infila mai nelle pieghe della
sua tristezza, prende in giro sé stesso, le sue stesse tragedie, perché la vita
è tragicomica e dentro una favela lo è anche di più.
“Vuoi guadagnare dei soldi o no?”
“No, è il lavoro che non mi piace, certo qualche Real in
più mi aiuterebbe, ma non è questo il problema, sono abituato a vivere con
poco.”
“E allora che cosa vorresti da questa vita meravigliosa e stupenda, ma a
volte un po’ feroce?”
“Non lo so... vorrei vincere a una lotteria milionaria, per esempio.”
“Stai giocando alla Super-Sena o no?” (Lotteria miliardaria brasiliana).
“No, non credo che potrei vincere.”
“Ada, non ti offendere, sei un ragazzo intelligente, ma quello che stai
facendo è rinunciare a sognare, la differenza tra il Brasile e la Germania, per
esempio, è che loro non sognano molto, la loro vita è molto razionale. Loro
hanno una permanenza più regolare su questa terra, più condizioni economiche,
miglior livello di vita, ma noi abbiamo un clima migliore, siamo più ingenui e
questa è una fortuna, perché crediamo di più nel domani, in sostanza sogniamo
di più. Siamo anche più ignoranti e questo forse non è bello, né utile. Siamo
più aperti a quello che è l’esterno, i tedeschi sono più chiusi, ma studiano di
più. È anche una questione di clima, là sono più chiusi perché è freddo.
Allora, se tu prendi ciò che abbiamo di migliore e lo mettiamo insieme
ai lati più positivi dei tedeschi otteniamo esattamente il contrario di quello
che sei tu. Hai capito? Ridi eh?
Bene, quello che volevo dire era questo... e credo che tu lo abbia capito,
almeno la tua faccia, si mostra ironica e divertita. Non ci sei rimasto
male? Molto bene. Quello che volevo dire era che nella tua persona tu
unisci il lati peggiori della cultura europea e di quella brasiliana,
l'esagerata e colta introspezione tedesca con l'aperta ignoranza brasiliana,
per questo ho pensato che saresti la persona giusta, quella che fa per me.”
“Come sarebbe a dire?”
“Ti ho già detto che gli affari vanno bene, che io sto pensando
d’ingrandirmi, insomma un aumento di capitale e qui il materiale umano è
l’unico capitale che abbiamo, lo sai, è solo la nostra abilità mentale e
pratica, non abbiamo qualifiche e dobbiamo studiare più degli altri, tu sai
leggere e scrivere no?”
“Sì, ma perché me lo domandi, vuoi dire che dovrei lavorare con te?”
“Perché? Non ti piacerebbe?”
“Sì, ma sono ignorante come una capra, l’hai detto anche tu, non ho
speranza di capire tutto questo.”
“Quello chi lo deve stabilire sono io, cugino mio, ho visto che sei
molto più intelligente di quello che vuoi mostrare, sei introverso, cioè ti
interessa capire meglio come sei dentro, sei povero, hai voglia di guadagnare
di più, anche se non lo ammetti a te stesso è normale, (anzi
normalissimo,) e ti piacerebbe fare qualcosa di gratificante, che significa di
livello più alto e di maggiori soddisfazioni, non solo finanziarie ma anche a
livello di piacere personale nel farlo.”
“Stai scherzando? Vuoi mettermi a studiare?”
“Sì, ma noi abbiamo un grande vantaggio, il cammino che farai tu io l’ho
già fatto, sto cominciando a coglierne i frutti, io lo conosco già. Adailton
Machado Da Silva: noi abbiamo giocato insieme da bambini, se c’è una decina di
persone al mondo, tra quelle poche ancora vive, che fanno parte della mia
infanzia, quella sei tu e altre nove, più o meno, che me ne dici?
Ti ho già spiegato che ho scoperto che la mia vocazione è quella di
aiutare gli altri, ma potrei aiutare più gente e sentirmi anche più in pace con
me stesso se aumento il mio esercito, ti sto chiedendo di farne parte, che ne
pensi? ”
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