Un
giorno costruiranno della bombe talmente intelligenti che non scoppieranno più.
(Anonimo)
Adailton e Odair
Adailton detto Ada viveva nella favela Rocinha di Rio de Janeiro, faceva
il camelô, cioè vendeva cose per
strada, su un tappeto di velluto bordeaux al quale era piuttosto affezionato e
che cercava di tenere più pulito possibile, ma la polvere era troppa.
Rocinha era un
quartiere della Zona Sud della città di Rio de Janeiro in Brasile. È ancora una
della 700 favelas che fanno parte della città di Rio de Janeiro. È la favela
più grande del mondo e conta più di 150 000 abitanti ufficiali.
Ada stava cominciando alla non più
verde età di cinquant’anni a soffrire di solitudine, sebbene avesse passato ogni
giorno della sua vita in mezzo a un formicaio di persone. Da un poco di tempo aveva perso la voglia di vivere,
e ne aveva sempre avuta poca. Ada non aveva amici, né una donna, nemmeno un
cane, aveva solo una tartarughina Ninja, cioè Ninja era il suo nome e si
ricordava di lei una volta al giorno, quando gli dava il mangime. Un povero
animaletto inespressivo ma testardo, che insisteva caparbiamente nel
sopravvivere e che, a volte, gli sembrava che gli assomigliasse, non solo
fisicamente.
Adailton era sempre sorridente, ma dentro era un’altra cosa, in Brasile nessuno sembrava triste, tutti scherzavano e parlavano assai, a volte erano veramente felici, o almeno si sentivano vivi, perché sapevano che non potevano abbandonarsi troppo alla malinconia, come nei paesi più sviluppati nei quali la gente andava dallo psicologo e si lamentava - senza accorgersene - di avere pochi autentici problemi.
D’accordo, poi con la crisi mondiale sorsero
dei problemi veri, ma non li sapevano affrontare serenamente, proprio perché avevano
vissuto degli anni inventandosi i loro stessi guai.
In Brasile invece le persone si divertivano
con poco, il giorno per giorno le spingeva, lavoravano tanto e non guadagnavano
quasi niente, la vita non era facile, ma era pur sempre la cosa migliore che avevano,
insomma: l’unica. Chissà, invece, che cosa sarebbe successo dopo.
Ecco che una domenica mattina qualcosa convinse
Adailton che doveva proprio andare a visitare suo cugino Odair. Da anni non lo
vedeva, l’ultima volta avevano fatto un churrasco
da lui, una tradizionale grigliata, una grande riunione di famiglia e di amici.
perché Oda si stava per sposare e voleva far conoscere la sua fidanzata
francese Chantal a tutti i parenti.
Nell’euforia alcolica, alla quale non era nemmeno
troppo abituato, Ada si era dimenticato di riportare a casa i suoi spiedi
nuovi. Fu proprio quel pensiero che lo fece decidere di
smuoversi dalla sua solita apatia. Quegli spiedi di Ada abbandonati a casa di Odair
detto Oda, da anni, Ada doveva proprio andare a riprenderseli.
Oda e Ada erano di origine
meridionale, la loro cultura era quella Gaúcha, le loro famiglie avevano
stazionato alcune generazioni nella terra del churrasco, e questo fatto fu decisivo, affinché Ada si decidesse a
fare quei chilometri che lo separavano da Oda e da un grande cambiamento della
sua vita. Non sapeva il vero motivo di quel viaggio attraverso le favelas di
Rio de Janeiro, credeva di andarci per via degli spiedi. Insomma il destino è sempre
stato una roba sottile ma insinuante, a volte impercettibile, ma forte, a
volte, specialmente quando non sembra proprio.
Detto fatto, dopo una
sommaria colazione con caffè, pane e margarina, scese verso la strada
attraverso i vicoli cementati della favela. Era una giornata di sole incerto,
sulla strada al di sotto il transito era caotico, come sempre, il rumore
assordante era un misto di centinaia di suoni. C’era la feira de rua (mercatino di
strada), tirava un venticello fresco che veniva dal mare, dalla Baia di
Guanabara.
La favela Urubu
(Avvoltoio) era lontana, Ada cambiò due autobus e la vide finalmente su una
collina che, da lontano, pareva perfettamente ovale, le casupole attaccate con
la forza dell’ostinazione sulla curva ripidissima del pendio. Adailton dovette attraversarla dal basso verso l’alto
e gli ci volle quasi un’ora, anche perché si perse più volte e finì per
chiedere informazioni in giro.
Quando chiese di Oda, gli
domandarono se quello che cercava era Oda il Distante di Responsabilità, (Oda o Distante de Responsa), lui disse
di no, insomma che non lo sapeva, ma loro replicarono che era l’unico Oda che
conoscevano e allora che abitava lassù in alto, dove finiva la favela e
cominciava il boschetto sullo strapiombo detto cimitero dei giustiziati.
La casupola di Oda era l’ultima, le rocce e i grandi alberi rendevano
difficili gli ultimi cento metri della collina, prima del grande roccione,
luogo di esecuzioni dei trafficanti traditori o presunti tali e alla base del
quale, in mezzo ai cespugli e alla spazzatura più resistente ai fattori
atmosferici, i cadaveri, in mezzo ai cespugli, senza fretta diventavano
scheletri.
"Il timore di essere
sopraffatti e distrutti da orde barbariche è vecchio come la storia della
civiltà. Immagini di desertificazione, di giardini saccheggiati da nomadi e di
palazzi in sfacelo, nei quali pascolano le greggi, sono ricorrenti nella
letteratura della decadenza dall'antichità fino ai giorni nostri."
(W.
Schivelbush)
Favela
Con il termine favela (in portoghese; al
plurale: favelas) si indicano le baraccopoli brasiliane, costruite
generalmente alla periferia delle maggiori città. Le abitazioni sono costruite con diversi
materiali, da semplici mattoni a scarti recuperati dall'immondizia e molto
spesso le coperture sono in Eternit. Problemi comuni in questi quartieri sono il degrado,
la criminalità diffusa e gravi problemi di igiene pubblica dovuti alla mancanza
di idonei sistemi di fognatura e acqua potabile. Sebbene le più
famose fra esse siano localizzate nei sobborghi di Rio de Janeiro, vi
sono favelas in tutte le principali città del paese.
Il nome favela deriva da un fatto storico:
rifugiati ed ex soldati reduci della sanguinosa guerra di Canudos (1895 -
1896), nello stato di Bahia,
occuparono un terreno collinare libero presso Rio de Janeiro, poiché il governo
che alla fine della guerra aveva smesso di pagarli, non diede loro delle
abitazioni in cui vivere. Questa collina, chiamata in precedenza Morro da
Providência, fu da loro denominata Morro da Favela come il luogo sede
del principale accampamento militare nella guerra di Canudos (essi crearono in
questo modo il loro accampamento nei pressi dell'allora capitale). La favela o faveleira (Cnidoscolus quercifolius) è una
pianta che cresce prosperosa nel semi-arido sertão brasiliano
dove ebbero luogo le battaglie contro i ribelli di Antônio
Conselheiro.
Nel corso degli anni la maggior parte della
popolazione povera, costituita per lo più da ex schiavi liberati in seguito
alla legge Aurea del
1888, si trasferì lì rimpiazzando gli originali rifugiati e divenendo il gruppo
etnico maggioritario. Tuttavia, molto prima che il primo insediamento chiamato
"favela" diventasse una realtà, i neri liberati venivano allontanati
dal centro della città verso i sobborghi. Le Favelas erano abitativamente vantaggiose
per loro poiché gli permettevano di essere vicini al lavoro, e nello stesso
tempo di tenersi lontani da luoghi nei quali non erano benvenuti.
La maggior parte degli abitanti di una favela
(chiamati in senso dispregiativo favelados) sono poveri e vivono con meno
di 100 dollari al mese. Le abitazioni sviluppate in maniera irregolare e con
materiali di bassa qualità sono spesso costruite sui fianchi delle colline (in
portoghese morros) su un terreno franabile in precedenza ricoperto da
vegetazione. Le piogge torrenziali tipiche di queste zone causano numerosi
crolli e anche un elevato numero di vittime. Il degrado sociale e la povertà
favoriscono anche il sorgere di attività criminali. Nelle recenti decadi, le
favelas sono state disturbate dai crimini legati alla droga e alla guerra
tra gang.
Secondo alcuni un codice sociale comune proibisce ai residenti delle favelas di
essere coinvolti in attività criminali all'interno della loro stessa favela e
l'ordine viene mantenuto dalle organizzazioni criminali che si sostituiscono al
potere dello Stato. Le Favelas sono spesso considerate una disgrazia e una
vergogna dai brasiliani, ma possono essere viste come una conseguenza della
distribuzione ineguale della ricchezza nel paese e alla mancanza di politiche a
sostegno della popolazione più povera.
La maggior parte delle attuali favelas carioca crebbero
negli anni settanta, quando il boom dell'edilizia dei quartieri più ricchi
spinse un gran numero di lavoratori a una sorta di esodo dagli stati più poveri
del Brasile verso Rio de Janeiro in cerca di fortuna. Vasti allagamenti nelle
aree povere a bassa quota di Rio contribuirono inoltre a far muovere la gente
verso le favelas, le quali si trovano sui versanti collinosi della città.
Secondo una ricerca del 2011 fatta dal Istituto
brasiliano di geografia e statistica, IBGE, oltre
11,4 milioni di cittadini brasiliani, ovvero circa il 6% della popolazione,
vivono nelle favelas.
https://it.wikipedia.org/wiki/Favela
Non disperare la tua anima gemella è lì fuori! Tra 7 miliardi di
persone. In 5 continenti diversi. Supponendo che sia viva e che sia
single.
(Iddio, Twitter)
Chantal
e Odair
Le
donne, il sesso e l’amore sono robe problematiche, per noi uomini, dal nostro
punto di vista. Certo lo sono anche per le femmine, dall’altro lato, gli uomini
il sesso e l’amore, ma io comprendo già poco il mio, per occuparmi anche del
loro.
Per
esempio, quando entrai in casa di Chantal rimasi subito conquistato dal gusto
sobrio dell’arredamento, dalla vista meravigliosa sul fiume, poi dalla sua
simpatia, dalla sua calma, dalla sua maniera di guardare, di toccare le cose,
ma prima ancora dalla sua bellezza fisica.
Finalmente
una creatura francese di sesso femminile che sapeva ascoltare e che parlava
solo quando aveva qualcosa da dire, non che gli uomini moderni lo facciano
meglio, in genere, ma le donne m’interessano di più.
Mi fece
strada tra le stanze arredate con gusto e le varie sfumature del beige
contrapposte ai marroni di legni chiari, scuri e intermedi, sfumati e misti,
dalle vetrate la vista sotto, su quel favoloso circostante era da togliere il
fiato.
Certo
che anche i suoi movimenti non favorivano la mia più serena respirazione, ma
dopo poche sue parole non la vedevo già più come un oggetto sessuale, ma come
una magnifica compagna, una donna completa, simpatica, affabile, sicura di sé
ma non interessata a dominare, piuttosto a condividere.
Ovviamente
mi sbagliavo, come tutte le altre volte, ma non lo sapevo e mi volevo illudere,
perché quell’illusione mi dava una voglia di vivere che in altre maniere non
riuscivo a ottenere.
La
lezione in sé era
diventata
un particolare insignificante per me, un professore
veterano, le regole e la didattica divennero poi routine,
dal punto di vista tecnico, quello che cambiava era
come venivano ricevute, con
tutte
le vibrazioni, le piccole cose che avvenivano quasi di
nascosto e che si capivano tra le
righe, poi i derivanti pensieri del professore di lezioni private, cioè io.
Ammettiamolo:
per un modesto professionista del mio genere la vita poteva
essere interessante, bastava saper stare
al proprio posto.
Si
conoscevano persone di vario tipo, antropologicamente
parlando, ma anche di classe e livello culturale assai differenti, e poi se c’erano persone moleste si poteva inventare una
scusa e sparire subito dal loro libro paga e conseguentemente dalla loro vita. Si
guadagnava né poco né tanto, ma si lavorava
quando e quanto si voleva, insomma era una
meraviglia. Bastava non confondere
l’amicizia col lavoro e se c’era qualche bella ragazza non si doveva fare
troppo i lumaconi e invadere la sfera della loro vita privata.
Riassumendo
non si doveva prendere l’iniziativa e se dall’altra parte chi la prendeva non era
ben accetta, bisognava farglielo capire senza offenderla, magari senza perderla
come cliente.
Se si
vive da soli, se da sempre si è sognato di trovare una donna come quelle dei
film, che non esistono, ma quando se ne trova una, cioè si crede che sia una di
quelle, il difficile è rimanere imperturbabili.
Per
farla breve mi trovai innamorato, a quasi cinquant’anni, di una donna di trenta
che ne dimostrava venticinque, in più ricca e tremendamente differente da tutto
quello a cui ero abituato.
Coll’andar
del tempo notai che la sua intelligenza era diversa da come mi ero immaginato
idealizzandola, era molto meno arguta e intellettuale di quello che voleva far
credere, ma riusciva a darla a bere in diversi tipi di occasione, il suo forte
era il modo di fare, era molto soave e gradevole in tutto quello che faceva e
anche quando non faceva niente non lo faceva nel modo giusto.
Mi
accorsi ben presto che avrebbe potuto ottenere da me quello che voleva.
Quello
che mi rovinò però era che non stava funzionando come le altre volte, perché questa
pareva starci, pareva apprezzarmi, cosa che di solito non mi succedeva e quando
mi capitava me ne accorgevo sempre in ritardo.
Comunque
tenevo sempre presente il principio di agire di rimessa, cosa che facevo
naturalmente da sempre, non riuscendo a prendere mai l’iniziativa con le donne.
Aspettavo
la sua mossa che non arrivava mai e mi piaceva quasi, una volta tanto, quel
cammino d’incertezza, per arrivare a un qualcosa che forse non sarebbe mai
giunto, ma proprio questa insicurezza mi faceva sentire assai interessante la
mia routine.
Mentre
aspettavamo chissà cosa e chissà per quanto tempo, ci scambiavamo, libri,
dischi, consigli, barzellette, impressioni frizzanti sul mondo e sui loro
personaggi.
Ho
sempre pensato che le donne assai belle sono le più disgraziate, insieme agli
uomini molto ricchi, perché tutti vogliono da loro quello che loro non hanno
nessuna intenzione di sganciare, anche se ovviamente sono cose differenti tra di
loro. Nella mia riflessione da curioso esterno, sono arrivato alla conclusione
che la loro vita diventa un tira e molla noioso e ripetitivo e finiscono per
considerare che vorrebbero magari essere apprezzati per qualcos’altro. Intanto
ho sempre trovato irrimediabilmente antipatici tutti i facenti parte di queste
due categorie.
Con lei
era differente, però, perché il suo modo di comportarsi non era per niente
comune, per una bellezza tridimensionale di quel genere.
I libri,
le musiche, i film scaricati in internet diventarono la nostra merce di scambio
ripetuta, i nostri gusti erano diversi e le cose che mi dava lei non mi
piacevano, in genere, ma le studiavo sia per capire come era di carattere,
(cosa pensava, come viveva,) sia per non doverglielo dire, che non mi avevano
affatto entusiasmato, fingevo che mi fossero invece risultate gradite.
Ogni
tanto qualcosa m’acchiappava, qualcosa di successo, un film recente o qualcosa
sui cui gusti più superficiali e universali era più facile incontrarsi.
Lei
invece diceva sempre bene delle cose che gli mandavo per internet o le
consegnavo personalmente e non mi pareva che mentisse, come invece io facevo
regolarmente.
Lei era
più aperta di me, o sapeva mentire bene, oppure io ero più fesso in senso
generale e questa è l’unica cosa sicura.
Tutto
scorreva bene, dopo quattro mesi di lezione io ero praticamente cotto, quando
gli mandai un libro on-line che avevo scaricato e che stavo leggendo con
estremo interesse, sia perché seguiva alcuni miei principi fondamentali della
vita, sia perché aveva un dialogo interessante, in un francese attuale e
perfino ironico e divertente, in più seguiva un ritmo incalzante. Da
aggiungersi anche che ne era stato tratto un film di successo, in Francia.
Insomma
la trama del nostro romanzo d’amore iniziò così: un’allieva ricca e bellissima,
piena del suo gioco di potere. Un professore atipico, sognatore ma coi piedi
per terra, gli mandò un libro on-line che non aveva ancora completamente letto.
Poi lo
finì di leggere e scoprì che nel finale c’era una scena quasi porno. Si domandò
se doveva avvertirla, di non leggerlo, ma pensò che lei ugualmente non lo avrebbe
fatto. Però rimase in dubbio per dei mesi, a volte gli parve che qualche frase
detta, qualche cenno rimasto a metà, alludessero a qualche cosa…
Potrebbe
essere stata una dichiarazione di pessimo gusto, sul sesso spinto e magari da
considerarsi volgare… ma forse lei non leggeva mai un libro intero, e poi in un
idioma che stava imparando. No, no.
Lei era francese di famiglia ma nata e cresciuta in
Brasile, per questo faceva lezioni di lingua con me, che a quel tempo portavo
anche in giro i cani dei ricchi a pagamento. E poi non mi ha mai fatto pesare il fatto che
vivevo in una favela, anzi questo fatto la incuriosiva.
Alla fine ci sposammo e andammo in Francia, a spese di
suo padre. All’inizio quella vita era troppo bella, ma durò poco, insomma
cinque anni non sono tanti, ma non furono inutili, almeno per me.
"Não quero ser mais, e
nem menos que ninguém. E o que você quer pra mim, eu quero em dobro pra você
também."
“Non voglio essere di più,
e neanche meno di nessuno. E quello che tu mi auguri, lo auguro raddoppiato
anche per te.”
(Dina Di – Cantautrice
Rap)
La realtà delle favelas
In
Brasile il fenomeno di degrado di molte città è ben conosciuto. Negli
interstizi o nelle periferie delle metropoli sorgono e crescono spontaneamente
agglomerati di baracche o case di fortuna, un fenomeno conosciuto in loco come
favelizzazione, ovvero la trasformazione dello spazio urbano in favela. Le
favelas sono agglomerati di abitazioni e baracche sorti spontaneamente dalla
fine del diciannovesimo secolo in tutto il centro e Sudamerica. Dal secondo
dopoguerra in avanti, soprattutto a partire dagli anni cinquanta, la favelizzazione
ha avuto un incremento esponenziale. Oggi è una realtà enorme in continua
crescita ed espansione che interessa tutto il mondo e coinvolge l’intero
pianeta sia per le dimensioni del fenomeno, sia perché agglomerati urbani che
soffrono di carenze e problematiche economiche e materiali sono presenti
ovunque. Le favelas nascono, esemplificando estremamente, come necessità di
trovare un tetto e una sistemazione, anche di fortuna, da parte di persone che
dalle campagne e dalle foreste emigrano verso i grossi centri urbani. In realtà
lo sviluppo del fenomeno è notevolmente complesso e coinvolge numerosi fattori.
Allo stato attuale le favelas sono in parte situazioni urbane non ufficialmente
riconosciute, dove violenza, narcotraffico e altre attività illegali prosperano
e si diffondono rapidamente, in parte comunità di persone alla ricerca di
identità e dignità, nonché portatrici di un grandissimo potenziale.
L’atteggiamento nei confronti di questi agglomerati di persone è
contraddittorio. Le istituzioni sono costrette a prenderle in considerazione,
sia sul piano della sicurezza che su quello dello sviluppo urbano. I cittadini
che non ci vivono, che siano più o meno benestanti hanno diversi approcci. Chi
le ignora tranquillamente rimuovendole persino sul piano della coscienza
psicologica, chi le disprezza e ne è infastidito, chi cerca di operare sul
piano dell’aiuto umanitario, spesso con risultati poco incoraggianti o a volte
disastrosi, chi le sfrutta come bacini di mano d’opera a basso costo per
attività sia lecite che illecite. Oggi è in via di sviluppo un fenomeno detto
pacificazione che in realtà è una sorta di accordo tra narcotrafficanti e
istituzioni per mantenere una situazione vivibile. In Rio de Janeiro si trovano
circa 700 favelas. In questa città in particolare, paradossalmente, le favelas
sono anche un terreno culturale particolarmente attivo e fertile. Basti pensare
che il famoso Carnevale, insieme al Samba, trae in buona parte la propria
origine da questi ambienti, che talvolta videro al proprio interno, all’inizio
del XXº secolo, la fondazione di scuole di Samba rinomate. I rapporti tra
Carnevale, Samba, cittadini comuni, favelados, delinquenza e istituzioni è
altamente complesso, ma sta di fatto che si tratta di una realtà culturale
molto profonda con radici antiche e che influenza gran parte della cultura del
mondo odierno. In tale contesto, molto sinteticamente descritto, si trovano
favelas grandi e piccole. Tra queste ultime si trova Vila Canoas. Agglomerato
di case nel quale vivono circa 3.000 persone. Si trova nel quartiere di San
Conrado, sulle pendici di rilievi poco sopra la spiaggia nella zona Sud di Rio.
Sopra l’agglomerato urbano svettano le montagne di Pedra da Gàvea e Pedra
Bonita che arrivano a ottocento metri di altitudine. I monti sono ricoperti di
foresta pluviale che si estende per molti chilometri quadrati a costituire il
bellissimo Parco Nazionale della Tijuca. È difficile rendersi conto di trovarsi
in una metropoli e non in un piccolo paese. Inoltre le ville della zona residenziale
insieme al Campo da Golf adiacente sono a ridosso della favela creando, come
accade di consueto a Rio, il fronteggiarsi di mondi sostanzialmente diversi.
Nell’agglomerato di abitazioni si trovano diverse attività commerciali e
artigianali. A 300 metri si trova la bellissima spiaggia di San Conrado. Da
Pedra Bonita gli appassionati possono praticare il volo libero con deltaplano e
parapendio. Nei pressi si trova la favela della Rocinha, la più grande del
Sudamerica. Da San Conrado si possono raggiungere con diversi mezzi le spiagge
di Ipanema e Copacabana e di Barra. Il centro città è facilmente raggiungibile
in bus, metrò e taxi.
http://www.parationg.org/it/la-realta-delle-favelas
E pensare che ho perso il
mio tempo con un passato che non è mai stato presente
(Internet)
Oda e Ada
Oda, seduto sotto un grande salice, leggeva pigramente gli ingredienti
di una scatola di cioccolatini che aveva appena finito di massacrare senza
pietà, ma con calma tibetana. Vide arrivare Ada, sudato e incurvato dalla lunga
camminata in salita, sulla stradina di cemento, tra le casette di materiale
misto. Capì in un attimo che era meglio dire addio agli spiedi, al cui
saltuario usufrutto si era ormai piacevolmente abituato. Ogni tanto Oda faceva
un churrasco per i suoi clienti più affezionati, secondo le sue tradizioni
gaúche. Ricordò, pur senza essersene mai veramente scordato, che la visita
precedente di Ada era stata prima del suo matrimonio, approssimativi cinque
anni prima.
Visto che ne aveva pochi,
Oda gli aveva chiesto in prestito gli spiedi, assurdamente Ada non poteva
confessare di non averne, era stato pronto a sacrificarsi, se li era andati a
comprare, i più economici possibile, è chiaro, ma erano spiedi da churrasco, magari
indovinava che in futuro, per lui,
avrebbero avuto un significato simbolico e gaúcho. Poi, abbastanza
ubriaco, con la mente placida di chi non ne aveva mai posseduti, a notte fatta
se ne era tornato a casa dimenticandoseli là da Oda.
Dopo aver abbassato la
testa, concentrato nel suo sforzo, nell’ultimo tratto di salita ripida, entrava
dal cancellino, attorno al quale lo steccato era stato abbattuto dai fattori
atmosferici e dal Cupim, minuscolo
animaletto che divora il legno. Ada salutò con la mano in direzione del salice
piangente, ma Oda era sparito.
Mentre Ada si guardava
intorno recuperando il fiato, stanco e sudato, Oda ricomparve con gli spiedi
che spuntavano da un grande involto di panno nero, decorato da realistiche
bianche ragnatele e polvere, che trasportava con entrambe le mani mentre andava
incontro a Ada, che gli strinse la mano, poi si abbracciarono, si sedettero
sotto il salice, su due fresche e originali poltrone di cemento e mattoni
ricoperte di muschio soffice.
“Passavo di qua e mi sono
detto, vado a trovare Oda, che mi fa sempre piacere vederlo, che poi sono anni
che non lo vedo, a proposito, come va la vita dell’uomo sposato?”
Oda lo guardò serio e
calmo, ma lo sguardo lo sorpassò, volò oltre, si perse a valle, in direzione
del mare.
Poi, finalmente disse:
“La vita dell’uomo
sposato andava anche bene, almeno dal mio punto di vista, però per lei no, ora
potrei dirti come va la vita dell’uomo divorziato, se ti interessa, che è
abbastanza differente da quella dello scapolo... a proposito, come va la vita
dello scapolo?”
“Bene, anzi male, sono
stanco di stare solo e di fare questa merda di lavoro che faccio, ma non sapevo
che ti eri separato... divorziato hai detto?”
“Divorziato, divorziato,
è una maniera di dire, per la sua stessa forza d’espressione, ma senza fare i
documenti, anche sposarci non c’eravamo mica sposati in comune, solo in chiesa.
Comunque, invece di divorziato, sarebbe più appropriato dire abbandonato.”
“Ah, è scappata? E ora
dove è?”
“Non lo so, qui non c’è,
di questo sono sicuro, ho guardato bene... e poi non c’è molto spazio per
nascondersi, ma tu forse volevi sapere se lei ha qualcun altro?”
“No, solo che cosa fa,
dove si trova, non l’hai più vista o sentita?”
“Certo. Sentita dentro al
cuore, vista nei sogni... che però ora si chiamano incubi... ma non esageriamo,
ormai sto bene, anzi benissimo... ”
“Ho capito, cambiamo
argomento...”
“Non ti preoccupare,
cugino, stavo scherzando, sto bene, di nuovo e la mia vita è già cambiata molto
da quei tempi, ho avuto un salto di qualità. ”
“Da quei tempi? È già
così tanto che se ne è andata?”
“Circa due anni fa, dopo
tre di convivenza, proprio in questa epoca estiva, ma credo che la mia vita sia
migliorata, ti dico la verità...”
“Perché? Stai facendo
qualcosa di nuovo?”
“Ecco, a proposito e per
esempio, questo è il salto di qualità che ti dicevo: da qualche tempo, ho
scoperto che sono più abile ad aiutare gli altri che me stesso, anzi, che
aiutando gli altri aiuto anche me stesso, e chissà che non sia proprio questo
il senso della mia vita?”
“Come sarebbe a dire? Che
cosa è che stai facendo ora?”
“Sarebbe a dire che
lavoro come aiuto psicologico per i viventi in difficoltà di qua intorno, ma
già mi arriva gente anche da Niteroi, figurati... dalla Barra da Tijuca, anche
gente ricca, sto quasi diventando un professionista di moda, e non sono nemmeno
due anni che ho cominciato, ho già bisogno di un aiutante, se tu fossi un poco
più colto e intelligente...”
Risero insieme, ma poi Ada
disse:
“Non ho capito tanto bene.”
“Insomma è un aiuto per
la testa, se non lo sai, dovresti saperlo: la testa, ce l’hanno data nascendo,
ma non ci hanno dato il libretto delle istruzioni, né tantomeno ci hanno
insegnato a usarla, in maniera di favorirci invece di ostacolarci, e poi non è
così facile come sembra. Qui entro io, per aiutare le persone a capire la
propria testa, che anche per loro che ce l’hanno sempre avuta attaccata al
collo, è sempre stata un oggetto misterioso.”
“Ma tu non hai studiato
lingue?”
“Sì, sono professore di
francese. Questa è stata la prima, ma anche unica questione che mi sono posto.”
“E allora?”
“Allora che cosa?”
“Allora, come hai
risposto a questa domanda?”
“Ah già. Guarda, è stato
troppo facile. Vedi io non ho studiato, tecnicamente parlando, questa roba a
scuola, quando ero più giovane, perciò non ho diplomi e carte timbrate, ma
frequento, anche da prima di conoscere Chantal, vari tipi di scuole, prima
superiori e poi università, negli ultimi anni, alcuni corsi privati, o
pubblici, anche se sempre in qualità di clandestino, cioè senza dare esami e
soprattutto senza spendere un soldo.”
“Ah! Questa è nuova, e non se ne accorge nessuno?”
“Quando se ne accorgono
mi scuso e non ci vado più, almeno per un poco di tempo, poi ci ritorno con la
faccia camuffata, occhiali, baffetti, capelli differenti, ma non succede
spesso, perché io non vado là per avere abilitazioni scritte o voti o lauree,
solo per rendermi conto e imparare, almeno l’essenziale, quello che mi può
essere utile e non di più.”
Alternandosi passaggi di
nuvole e raggi di sole nel cielo, sopra di loro, le facce si illuminavano e
scurivano, i due erano mulatti e anche abbastanza somiglianti, ma Ada aveva i
capelli più corti, Oda con la sua barbetta e i piccoli occhiali da vista
rotondi che gli davano un’aria quasi da intellettuale.
“Lo sai che sei cambiato
Oda? Sei molto più magro, poi quella barbetta da capra, mi sembri anche più
chiaro di pelle, non lo so. Ma, quell’altro discorso che stavamo facendo?”
“Sì, un poco di
marketing, l’immagine è importante, il saggio non può avere l’apparenza di un
ladro e la povertà del look deve essere ben studiata. Scusa, sono un po’ distratto, ma di quale discorso stai parlando?”
“Hai parlato di psicologia...”
“Una parolaccia, eh? Ah
sì, a proposito e non per caso, stavo dicendo che frequentando varie facoltà,
per un poco ho visto insegnare vari tipi di professori.
Ho capito che pochi
hanno la vocazione, insegnano per guadagnare i soldi, che anche quelli servono,
per carità, ma insegnare è una cosa completamente diversa dagli altri lavori,
ci vuole entusiasmo, didattica e competenza della materia, soprattutto
psicologia, ci si deve saper comportare con le persone, tutte cose che tu non
puoi capire, non c’è niente da fare.”
Adailton rise, Odair
anche, si alzarono e si dettero delle pacche sulle spalle, poi si abbracciarono.
“Gli studenti, poi, i
giovani, sono lì perché ce li hanno mandati, la maggioranza non ha la minima
idea di che cosa ci sta a fare lì, guarda, come possono si distraggono,
scappano sia mentalmente che, quando possono, materialmente. Ma anche quando ci
stanno e si sforzano, non hanno la nozione dello spazio e del tempo, faticano
solo per tentare di concentrarsi, gli manca la motivazione, invece io sto lì
solo per quello, mi riesce facile e bene, e mi piace anche, ma pagare non pago.
No. Sono un uomo di principi solidi io.”
Ada rise e Oda lo guardò
fintamente offeso, al che Ada rise di più, si sganasciò.
“Ma come ti è venuto in
mente di fare carriera in questa maniera? L’ultima volta che ti ho visto eri un
negrão ignorante, molto più colto di
me, va bene, ma sempre ignorante, non mi dire di no.”
“Ignorante lo sono
sempre di più, se è per questo, più studio e più mi accorgo che non so niente,
ma questa è già una saggezza, un’altra parolaccia per te, è ovvio che non sai
cosa sia e, anche se lo sapessi, applicarla alla vita sarebbe tutto un altro
discorso.
Aspetta che ti spiego,
allora, uno dei punti fermi della mia vita è diventato questo: fai quello che
ti piace e ti riesce bene, se ti piace poi ti riuscirà, qualsiasi cosa, anche
se all’inizio avrai difficoltà. Cioè se hai entusiasmo, la competenza verrà col
tempo e poi farai contenti tutti e, in più, sarai contento anche tu, non è
questo quello che conta?”
“È vero, ma tu parli
come uno che ha studiato, io non ce la farei, poi tu cosa racconti alla gente e
che cosa significa esattamente questa psicologia in parole povere?”
“Quante domande, ma
quest’ultima è una signora domanda, questo è importante, allora: la psicologia
è lo studio del nostro cervello, in pratica, che cosa facciamo nella nostra
vita e perché lo facciamo, che meccanismi si formano dentro la testaccia di un
vivente come te, per esempio, perché te ne stai da solo e non vuoi nessuno
intorno. Ci sarà un perché, no? Questo perché è la psicologia. Un altro
disgraziato, per esempio mio fratello Duda, invece, ama la compagnia della
gente, ma non riesce a dormire la notte, soffre quando qualcuno spara un fuoco
di artificio e odia i cani.
Perché?
La psicologia spiega
che la storia personale di questo particolare Eduardo, detto Duda, con una
testa piccola e un cuore grande, con i suoi genitori ignoranti come capre e
nell’ambiente dove è cresciuto, che è lo stesso nostro, il mondo, hanno formato
il carattere di questo negrinho nella
maniera in cui questo negrinho è,
quello che gli piace, quello che non gli piace, il suo comportamento e il suo
perché nascosto. Sembra uguale a tanti
altri ma è differente da tutti gli altri.
Capito?
Che cosa racconto alla
gente? Mi sono documentato, ho letto e sto leggendo vari libri presi in
prestito nelle varie biblioteche, non costano niente, basta restituirli poi,
dopo averli letti. Ora poi c’è l’internet che è anche meglio.
Nella vita basta mettersi d’accordo, assumersi i propri compromessi,
dare soddisfazione agli altri, perché dentro la loro soddisfazione si nasconde
parte della nostra, non si può vivere da soli, cioè, va bene, si potrebbe anche,
ma invece siamo abituati a stare con gli altri, per questo dobbiamo imparare a
farlo nel migliore modo possibile.
Capito o no?
I libri li scelgo in base
alle domande che mi fanno i pazienti o che io stesso mi faccio nel cervello,
cervello che ora sto usando più e meglio di quanto facevo quando ci siamo visti
l’ultima volta, per questo dici che sono cambiato.
E meno male, dico io.
Sia riguardo i libri che
le informazioni teoriche che devo insegnare e anche insegnare a mettere in
pratica, prima devo capire ciò che vale la pena e ciò che non vale nemmeno
l’emozione, tra quello che è la letteratura specializzata e tra quello che è la
spazzatura commercializzata.
Lascia perdere
quest’ultimo discorso, fai conto che sono stato zitto, non serve a niente e non
so nemmeno perché te l’ho detto.”
“Invece ho capito, ho
capito, che cosa credi che sono un idiota?”
“Va bene, scusa, meglio
ancora. Stavo dicendo, inoltre, che la mia esperienza di vita è stata molto
varia e sono uno che fa macinare bene la logica... anche se sono un poco
distratto, il mio ragionamento fila che è una bellezza, non è forse vero?”
“A dire la verità non
ci avevo mai pensato, ma ora che me lo dici mi pare di sì, però se sei molto
distratto e perdi il filo del discorso, questo non ti ostacola?”
“Il filo del discorso? E chi se ne importa? Me lo ridanno loro quando lo
perdo, basta non preoccuparsi, tanti non se ne accorgono nemmeno… o sennò dopo
lo ritrovo, senza cercarlo, viene da sé, lasciando scorrere le parole su se
stesse, facendo rotolare i ragionamenti sulle cause, i loro effetti se ne
escono da soli, le conseguenze cioè... insomma, il popolo è confuso, molto più
confuso di me, in più è anche stressato e questo è un altro vantaggio che ho,
mi capisci?
Figurati se notano che io
perdo il filo del discorso, la maggior parte non sa nemmeno che cosa sia il
filo del discorso... Ha! Hahaha! Questa è buona... tu, Ada, con tutta la tua
spaventosa ignoranza, magari sei uno che una logica la sa sviluppare, sei uno
che pensa tanto, forse anche troppo, ma il popolo pensa poco, la maggior parte
di quelli che vengono qui, se sapessero pensare non avrebbero bisogno di me,
dammi retta!
Anche io dico delle
cretinate, a volte, chi è che non ne dice? Ma dopo me ne rendo conto, sono
anche capace di correggermi, accetto critiche e consigli, dove lo trovi un
saggio più saggio di me?”
“Sì, va bene, ma che
gli dici alla gente?”
“Io? Quasi niente, in
pratica ascoltano la loro stessa storia... però, tieni conto che se non ci
fossi io non avrebbero occasione di raccontare la loro storia a se stessi e
tutti gli altri non hanno tempo di starli ad ascoltare.
Finalmente sentono il
suono di quello che la conchiglia magica chiamata Oda gli dice che è il mare,
non avevano mai avuto la calma per farlo, le loro facce rimangono meravigliate,
come se io gli avessi detto una grande verità, ma lo sforzo lo hanno fatto
loro... io gli ho aperto una finestra che avevano da sempre davanti a loro, ma
non se ne rendevano conto, così, dopo, pieni di gratitudine nei miei confronti,
decidono autonomamente...”
“Ma, allora, non
potrebbero farlo da soli?”
“Sì, ma non lo sanno. E poi se lo sapessero non ci crederebbero. E se ci
credessero non sarebbero capaci di farci niente lo stesso, perché gli manca la
struttura, la sistematica, la competenza, il senso della misura e potrei dirti
tante altre cose che gli mancano, ma tutto questo si riassume in un’unica
parola, una cosa che hanno tutti, in grande quantità, che rende inutili tutte
le altre: l’ignoranza.
Dalla faccia mi pare che
tu mi stia seguendo, mi sbaglio?
Cioè le persone si
stressano tutti i giorni per la sopravvivenza, o per altri motivi... i ricchi
hanno più bisogno di aiuto dei poveri da questo punto di vista, lo sapevi?
E perché?
Perché hanno già risolto
il problema della sopravvivenza ed entra in loro un problema più complesso:
qual’è il senso della vita?
Quelli che hanno risolto
il problema della sopravvivenza, nel farlo, si sono creati un insieme di altre
piccole e grandi malattie mentali, che il povero non conosce... lo sai che cosa
significa aver paura di perdere milioni di dollari?
È una questione che ti
piacerebbe risolvere, lo so, ma non credere di dormire tranquillo, quando hai
qualcosa da perdere, più grande è e meno ti senti tranquillo, ma è inutile che
te ne parli, tu non ne avrai mai bisogno.”
Risero di nuovo insieme,
a lungo, poi ci ripensarono e risero di nuovo.
“Ritornando a me, quello
che mi permette di essere al di sopra della mischia dello stress è la mia
attitudine greca, di ozio contemplativo, come potrei essere così tranquillo se
lavorassi insieme a te nel centro infernale di Rio?”
“Eh già. Ma che cosa è
l’ozio?”
“L’ozio è il non far
niente, contemplativo perché non facendo niente ho il tempo di contemplare,
cioè di ammirare i dettagli delle cose. Sia le bellezze che le bruttezze.
A volte la bruttezza è
tanto brutta da diventare bella, per esempio il viso scavato dal tempo e dalla
storia personale di un vecchio marinaio di Santos
ma forse è più facile per te capire il contrario, hai mai visto una di quelle
modelle alla televisione, che sono tanto belle che danno noia agli occhi?”
Ada ci pensò un poco,
ma l’espressione della sua faccia non indicò nessun tipo di variazione.
Per capire meglio cosa era
successo al cugino Oda, ma anche perché la faccenda cominciava a interessargli
anche personalmente, domandò:
“Insomma, i tuoi
clienti, ricchi e poveri, vengono qui, raccontano i loro guai e capiscono che
cosa devono fare per cambiare la loro vita, senza che tu faccia o dica quasi
niente?”
“Beh, non esattamente,
a proposito io gli dico delle piccole cose, le più logiche conseguenze delle
loro esagerazioni...”
“Per esempio, cosa gli
dici?
“Per esempio, se loro
dicono che fumano tanto, dico che devono fumare meno...”
“Mi sembra troppo
facile.”
“Difficile non è, la maggior difficoltà è
fargli credere che io sia qualificato per farlo, ma se loro hanno una referenza
di una persona che conoscono e che gli parla bene di me, allora l’ostacolo è
già aggirato e dimenticato.
Quello che conta veramente, poi, è che li
faccio riflettere, li obbligo a fermarsi e ad analizzare le cose senza
ingannarsi... come sono abituati a fare normalmente, da soli o seguendo
consigli degli altri che ne sanno ancora meno e che non hanno voglia di perdere
tempo dietro ai problemi di chicchessia... vedi che molte persone sono convinte
di pensare, ma invece non fanno altro che rincorrersi la coda, il popolo è
confuso, perché il mondo è confuso e lo diventa sempre di più, almeno per chi
non ha mai avuto tempo di fermarsi e di riflettere...
Io li metto
semplicemente con le spalle al muro, li obbligo, ma con la massima calma e
determinazione, a guardarsi dentro e attorno, gli do la sicurezza di un’ora a
seduta, ascoltandoli e consigliandoli.
Li faccio respirare
profondamente, perché la maggior parte della gente non sa nemmeno respirare, in
maniera corretta...
Non ci credi?
Fammi vedere tu come respiri, per esempio,
respira normalmente, come fai sempre... lo vedi?
Anche tu respiri troppo
rapidamente, prenditi la tua calma, Ada, il respiro deve essere profondo ed è
una cosa che puoi fare sempre e bene, che ti da’ sollievo, ma che nessuno ci
pensa che sia una cosa importante, anzi decisiva.
Prova.
Così... profondo e
leggero... leggero e profondo... profondo e leggero... su e giù... giù e su,
con calma, regolarmente... prova a respirare bene e vedrai che già tutto
migliora.
Perché ossigenare il
cervello e il corpo intero significa farli stare meglio, allora anche la nostra
povera mente si sente differente, più disposta e in forma, tutto è legato e in
contatto, tieni conto che il corpo e la mente sono una cosa sola.
Hai capito?
Io li ascolto i clienti,
anche se le loro parole dicono cose che i fatti dimostrano essere false, sono
solo bugie, ma bugie alle quali loro credono automaticamente, senza fare
ragionamenti, senza usare una logica qualsiasi.
Perciò sono importanti
per capire il loro mondo, la loro giornata, la loro vita.
E poi guarda che già trovare
qualcuno che ti ascolta, veramente, dico, senza fingere, non è facile.
Gli faccio delle domande,
questo è importante, per comprendere come vivono, quello che dico dopo è facile
e soprattutto logico, vedi che la gente di qua è molto confusa, non so se è la
stessa cosa dovunque, ma qua è così, e poi anche se la gente sapesse le cose,
ha bisogno di sentirsele dire da qualcuno, ci vuole una persona autorevole, che
loro non sanno bene come deve essere, ma io, seduto qua placidamente sotto
l’albero simbolico del pianto, il salice, io sono l’ideale, un mistico, un
saggio, un amico disponibile, che tutti si possono permettere di consultare,
anche perché accetto qualsiasi tipo di pagamento.”
“Qualsiasi cosa? Stai
scherzando!”
“L’ho detto e lo ripeto:
qualsiasi cosa.
Uova, galline, anatre,
chiodi, meloni, legna, televisioni vecchie... hai visto quella scatola di
cioccolatini che mi sono spolpato orora? È il pagamento di una visita a
domicilio, qua sotto, al bar di Caio.
Insomma, accetto quello che loro possono darmi,
uno ieri mi ha dato una scarpa già un po’ usata, mi ha detto che l’altra me la
darà se e quando sarà guarito. Io gli ho chiesto di non camminarci troppo nel
frattempo, lui ha riso, è chiaro che il suo problema più grave è la diffidenza,
non so se riuscirò a guarirlo, ma sono sicuro che migliorerà.
Chi può pagarmi meglio,
mi paga in denaro e poi non importa, perché io non ho bisogno di molto per
vivere, ho il mio orto, la mia casetta, ho rinunciato al consumismo, non guardo
la televisione, (solo qualche partita del Botafogo) e non mi vengono più certe
idee storte nella testa, insomma ho la mia disciplina di vita...”
Parlando e parlando si fece
tardi e Adailton doveva tornare a casa, ma per la strada ci pensava e gli pareva
strano che Oda gli avesse fatto tutti quei discorsi.
Visto che il viaggio era
lungo, Ada pensava anche a come era diverso Oda, a come era cambiato
dall’ultima volta che si erano visti.
Pochi anni prima, quando
si era sposato, il cugino gli sembrava un ragazzotto normale come lui, forse
amava la compagnia, certo più di lui, parlava di più e meglio... ma ora si
sentiva la enorme differenza tra di loro, in soli cinque anni era stata una
trasformazione totale.
Forse Oda era più
intelligente degli altri, questo si vedeva, ma anche lui, Ada, era
intelligente, anche se non si vedeva, gli altri non lo sapevano, ma lui sì, aveva
solo bisogno di un’occasione, ma non ne aveva mai avuta una, o forse non se ne
era accorto.
Oltre a questo si sentiva
che era passato attraverso dei libri, delle lezioni, Odair, diceva parole
difficili, in più spiegava bene assai cosa voleva dire. Anche lui, che era
rimasto ignorante e limitato al suo lavoro di venditore per strada, capiva
tutto quello che Oda gli spiegava. Però non sapeva ancora se ci credeva o no,
forse gli piaceva crederci, sarebbe stata una porta nuova, per un mondo che gli
pareva già tutto chiuso e senza mai essere stato effettivamente aperto.
Chi ha perso l’anima e perché? Oppure no, magari hanno
deciso semplicemente di fare senza: non è più pratico?
(Adailton Machado
da Silva)
Odair e
IV
Secondo i concetti del mondo occidentale, gli indios
sudamericani non sono affatto un buon esempio di apertura mentale, né di
cultura globalizzata, ma rappresentano, un po’ per tutti, un ritardo
incredibile sull’orologio della macchina del tempo. C’è da notare,
altresì, che loro non hanno la pretesa di essere qualcosa di somigliante ai
nostri gusti.
Indio
Velho, chiamava se stesso con la corta e pratica sigla IV, insegnando il
francese, io all’inizio pensavo che fosse scritto Ives. Lui chiarì e poi si corresse
subito, dichiarando che nessuno avrebbe mai avuto motivo di scriverlo e qui si
sbagliava, ma non poteva saperlo.
Era
uno che aveva viaggiato in diagonale per i cinque continenti conosciuti,
studiato da autodidatta un po’ di tutto e vissuto con i bianchi e altri popoli
di vario tipo e colore, prima di ritirarsi, come diceva lui, a vita privata.
Lo conobbi lassù nel suo boschetto, sulla collina più alta, di
fronte alla favela. Ero andato a fare un
giro con il cane di un mio cliente e lui, Argo, l’aveva scovato, seduto su un
sasso, con gli occhi chiusi e le mani sulle ginocchia.
Dopo avergli abbaiato per un po’, quando IV lentamente aprì gli occhi,
Argo si chetò miracolosamente, poi si lasciò accarezzare da lui e io mi avvicinai,
sembrava un rugoso indiano apache di
un film americano, aveva anche la regolamentare fascia sulla fronte.
Dopo, quando lo incontravo, pensavo alle condizioni, spesso penose, in
cui si trovava la sua gente. Eppure vedevo in lui quasi l’opposto, c’era
qualcosa che li univa e che li divideva, che mi affascinava troppo: la
ribellione tranquilla e pacifica a tutto ciò che gli accadeva intorno, da
secoli.
Usurpato
e massacrato, ripetutamente violentato sul suo stesso territorio, l’indio brasiliano
ha rifiutato di mischiarsi al popolo invasore e ultimamente - amara ironia della fine del nostro secondo
millennio - ci si è perfino stupiti se ha protestato per i festeggiamenti dei
500 anni della scoperta del Brasile, dichiarando che lui era qua da prima e che
è stato scoperto, sì, solo nel senso che gli hanno tolto la coperta.
Insomma, essere un indio non è mai stato facile, in Brasile come in
tutta l’America Latina, ora coma prima.
Però IV aveva deciso di essere prima di tutto un essere umano e una
persona, vincendo la resistenza di secoli di mentalità completamente estratta
da quelle classiche occidentali o anche di altri tipi di popoli. Secondo lui un
indio era solo un indio ed era diverso da tutto e da tutti, questo almeno nella
gran maggior parte dei casi. IV aveva
scelto la sua strada senza protestare, non avevo mai conosciuto nessuno più
soddisfatto di lui, eppure sapeva benissimo tutto ciò che era successo prima,
quello che stava succedendo in quel momento, anche meglio di me, quello che sarebbe
successo poi.
La logica per
lui risolveva tutto, filtrata dalla sua filosofia, certo, a sua volta derivante
dalla sua esperienza di vita.
“Come va l’esistenza?” Mi disse con uno sguardo indescrivibilmente
pacifico e serio.
“Bene, bene… stavo facendo un giretto.”
“Bravo. Ti piace la natura, eh?”
“Mi piace sì, vivo in quella casa là nella favela, sull’altra collina,
vede?”
“Ah sì, ma non c’è bisogno di darmi del Lei, uomo, non che me ne
offenda, via… insomma fai come vuoi.”
“D’accordo.”
Indio Velho, autonominatosi senza cerimonie Sceriffo della palude collinosa, viveva lì, in una baracchetta di
legno che aveva appena lo spazio per stare sdraiati su una brandina e per un
rudimentale fornello a legna che si era fatto con le pietre.
In
Amazzonia l’indio continua a campare alla stessa maniera di migliaia di anni fa
e questo in generale viene detto con disprezzo, ma certo là in mezzo alla
foresta, non si sa nemmeno cosa è lo stress, come non si conoscono, parimenti,
altre malattie moderne.
Quando potevo mi trasferivo volentieri nello spazio e nel tempo, in
quel luogo ideale e calmo, insieme al cane Argo o da solo, verso quella piccola
palude romantica, che era sulla collina di fronte alla mia favela.
C’ero stato spesso, anche prima di conoscere IV, ma ora avevo un
motivo in più per andarci, almeno una volta alla settimana, a fare un giro, era
un boschetto incontaminato in mezzo a un banhado,
una specie di palude periodica del Brasile.
Lassù dove i tramonti mandavano una luce primitiva e autentica, piena
di bellezza incantatrice, i rumori delle automobili e sirene della polizia e di
ambulanze parevano lontani, il vento fischiava un poco di più, insetti e
uccelli dialogavano intrecciando i loro rispettivi ronzii e cinguettii sotto il
sole che andava e veniva, tra le nuvole basse. Mai viste nuvole così basse come
in Brasile.
Argo, il cane, si godeva la libertà della natura e correva soddisfatto
di qua e di là, con la lingua penzoloni.
Nelle periferie delle grandi metropoli vive in
capanne di nylon nero (quello dei sacchi della spazzatura) e il suo stato è di
miseria e abbandono, ai margini più sporchi e insalubri, l’indio intreccia e
vende cestini di vimini.
Anche da prima
che me ne andassi in Europa avevo sempre sentito il bisogno di uno come lui, cioè
mi mancava e non lo sapevo, lo scoprii appena lo trovai.
Per esempio perché
potevo chiedergli cose e ricevere in cambio delle signore risposte articolate,
IV addirittura mi ascoltava quando parlavo e non m’interrompeva. Se gli chiedevo
qualcosa pensava bene alle parole che stava per dire, ci metteva un bel po’, a
volte pareva che non avesse nemmeno udito la mia domanda. Poi gli uscivano
delle robe magari utili e illuminanti, riguardo i miei recenti interrogativi,
oppure anche semplicemente per intavolare una conversazione interessante, o
solo piacevole. Era già difficile trovare qualcuno che avesse tempo, in più lui
ci metteva una serie di altre qualità entusiasmanti.
Indio Velho aveva
una grande esperienza in conversioni, si era sempre dato, anima e corpo, a quel
che credeva. Quello che aveva imparato, di conseguenza, era forse il contrario
di quello che la gente normalmente faceva. IV diceva che era bello capire e
riconoscere di aver sbagliato tutto fino a quel momento, perché ricominciare ci
faceva sentire vivi. L’umiltà di ammettere il proprio errore era fondamentale
per riuscire a imparare qualcosa di utile, per l’immediato futuro. Trincerarsi
sulla propria posizione era quanto di più idiota poteva esistere, era come
tapparsi gli occhi, infilare la testa in un buco, come gli struzzi, di fronte
al pericolo. Spesso la gente agiva così, per debolezza, per non affrontare la
necessaria rivoluzione che ne sarebbe sortita fuori.
Questo vecchio
saggio rappresentava un’essenza atavica e filosofica, per la cui esistenza
nessuno avrebbe mosso un dito, là in basso, dove io passavo le mie giornate di
lavoro. Era un esperto attraversatore del mondo, uno che poteva dare regole e
mostrarne addirittura l’applicazione, non c’erano in giro molti esseri umani
del genere e, disgraziatamente, non se ne sentiva affatto la mancanza, perché
non si aveva nemmeno il tempo di pensarci.
IV chiamava le
persone che vivevano là sotto i Valligiani, mentre io, che abitavo in collina,
ma lavoravo soprattutto in città, ero un Collinare, il mio vicino, di cui gli
parlavo spesso, era un Valligiano, perché abitava in collina, sì, ma gli sarebbe
piaciuto abitare in città. Lui, Indio Velho, era un Montanaro. Nessuno pensava
alla saggezza, tra i Valligiani, i Collinari forse ci riflettevano un poco di più,
per motivi puramente geografici e per certe necessarie conseguenze. In montagna
ecco che avevamo i pochi casi conosciuti di umani persi in un mondo in cui non
si faceva male a nessuno e si ragionava del più e del meno, senza pestare i
piedi al proprio prossimo, non perché ci piacesse, il prossimo, non
necessariamente, ma perché faceva parte di una certa maniera di essere.
Indio Velho
parlava un portoghese perfetto, con grande varietà di vocaboli, ma conservava
un tipico accento indio. Aveva la faccia liscia, senza rughe, gli occhi
diagonali, non era un selvaggio, ma aveva scelto di vivere nei boschi del Morro
Teresinha, perché la sua idea di vita, in progressivo cambiamento, glielo aveva
suggerito e per questo era un esempio refrigerante e rigenerante per me, che
passavo le ore perso per le rumorosissime vie della capitale, in mezzo a gente
anche piacevole, simpatica e tutto, ma un po’ troppo agitata e che faceva
agitare anche me. IV diceva che in genere, la gente non sceglieva, s’infilava
in un tunnel di situazioni concatenate e usciva, viva o più frequentemente
morta, molto tempo dopo, dall’altra parte.
Nelle loro comunità, nelle foreste pluviali,
l’indio pratica caccia e pesca, un po’ di agricoltura e nel rapporto uomo e
donna non prestabilisce limiti o canoni, di nessun tipo: esistono nuclei di due
uomini e una donna, come di tre donne e un uomo, a differenza della maggior
parte delle civiltà occidentali e orientali, tranne poche eccezioni e tutte a
vantaggio dei maschi.
Indio Velho era
un indio vecchio, lo diceva il suo nome stesso in portoghese, saggio come un
diavolo di angelo bonario, che viveva di non so quali alimenti, giacché non me
ne voleva parlare mai, anche se glielo
chiedevo sempre, su una collina ai limiti della grande città.
Mi piaceva vederlo mentre si cibava di valori veri e dimenticati nella
corsa al denaro, nel giorno per giorno dell’uomo comune che, secondo lui, era
una specie in estinzione, che veniva progressivamente sostituita dall’uomo
banale, l’uomo che non sapeva quello che voleva, ma lo voleva fino in fondo,
perché credeva di non avere alternative. Per IV, vivere male significava non
concedere a se stessi più di una opzione possibile.
Per andare a trovarlo dovevamo risalire la collina a piedi, il cane
ansava e bilanciava la lingua verso il basso, io avevo una lingua più corta e i
miei polmoni faticavano a mantenere il ritmo, ma a differenza di Argo, potevo
sudare e già che c’ero, sudavo a volontà.
Arrivati sul falso piano, usciti dal bosco grande, dovevamo
attraversare la palude, di acqua non ce n’era molta, ma era seminascosta da
questa specie di giunchi, era sufficiente per bagnarsi fino ai ginocchi, se si
incappava nella pozza giusta… o sbagliata. Ecco che dovevo studiare
meticolosamente ogni mio passo, Argo invece ci s’infilava dentro, per lui pareva
una goduria, che in un certo senso gli invidiavo. Lui superava le punte
vegetali di una testa, ma la sua era una testona triangolare e in più le sue
orecchie ritte sfidavano ancora di più il cielo. Entrati nel boschetto lui sapeva
già dove andare e lo seguivo, perché io invece mi sarei perso, non c’erano
viottoli, certo quell’uomo non amava fare due volte lo stesso percorso… ma lui
sentiva l’odore di Indio Velho, mentre io non lo distinguevo dall’odore
caratteristico che c’era in giro, di natura più meno selvaggia.
L’umidità era
forte e odorosa di muschi e acque ferme, c’erano degli avvoltoi che volteggiavano
nel cielo, li vedevo apparire e scomparire tra i rami, mi pareva di sentire dei
tamburi, ma forse era il mio cuore che batteva troppo forte. Mi fermai a riposare un momento. Quando il mio respiro ritornò alla
normalità, sentivo un improbabile rumore alla mia sinistra e girandomi scoprii
Indio Velho che stava placidamente voltando la pagina di un libro, seduto su
una pietra larga e piatta e disegnata dai licheni di vari colori e consistenza,
in una minuscola radura dove il sole, fuggito per un attimo dalle nuvole, riusciva
a battere su pochi metri quadrati di terra erbosa, forse solo per qualche minuto.
Indio Velho mi
guardava profondo e serio, chiuse il libro lentamente, accarezzò il cane, i
suoi occhi come due fessure, c’era una pace liquida e sonnolenta, la luce era
dorata, a fette, il verde attorno vivissimo.
“Olà professore
di lingua e cultura francese.”
La sua voce
pareva adattarsi bene alla natura circostante, la mia invece era meno armonica,
spezzava la qualità di quel silenzio fatto di mille piccoli rumori, sarà stata colpa
dei miei polmoni stanchi:
“Olà Indio Velho, come va la vita in mezzo alle frasche?” Gli dissi
avvicinandomi.
“In mezzo alle frasche niente di nuovo, perciò la vita va bene, si
riesce a leggere e anche a meditare, a fare un’osservazione minuziosa e
piacevole della natura, la respirazione funziona a dovere anche perché la
facciamo quasi esclusivamente col naso, le orecchie filtrano i sussurri della
boscaglia e da lontano si sentono gli infernali rumori che fate voi laggiù, scoreggioni,
che dite di correre dietro alla felicità…”
“Sì, lo so, siamo gente abituata non solo ai rumori forti, vogliamo
emozioni violente, la televisione sempre accesa e a tutto volume, e se te li
portassi qui, i Valligiani, il tuo silenzio li farebbe impazzire…”
“Il silenzio non è mio, è alla portata di tutti, almeno in teoria…
anche se nessuno lo vuole, ma tu dici che non resisterebbero, a questo
fragoroso silenzio?”
“Non lo so, non ci sono abituati, di sicuro non gli piacerebbe. Magari
gli spaccherebbe i timpani…”
“Beh, allora è meglio che non ci vengano qui, pazienza.”
“Pazienza, sì, sì, ci vuole pazienza, ma tu di pazienza ne hai da
vendere, mi pare…”
“Ma la pazienza nessuno la compra…”
“Hai provato a offrirne in giro?”
“Sì, ma per
quanto sia preziosa, non è quotata in mercato. Ne ho immagazzinata un bel po’,
l’ho mostrata alla gente e gliene ho decantato le proprietà miracolose, ma
sembrano considerarla senza valore, allora sono costretto a tenermela.”
“Per me ha un grande valore, invece, potresti darmene un poco, te la
pago, ne ho un gran bisogno io, con il mio lavoro…”
“Prendine quanta ne vuoi, io ne ho di avanzo, non voglio niente in
cambio.”
Disse con aria solenne e poi sorrise.
Stavo pensando seriamente a come fare per prendere e portarmi via un
carico della preziosa pazienza di Indio Velho, ma la soluzione si trovava già
in questa pausa del dialogo, solo a vederlo mi veniva naturale e automatico
essere più paziente e tollerante, esattamente come a vedere certe persone
stressate mi stressavo anch’io, queste cose magari erano trasmissibili o forse
anche contagiose…
Quando mi sentii
di aver immagazzinato abbastanza pace e serenità, poi gli domandai:
“Ma tu,
piuttosto, non ti senti solo, qui?”
“Mi sono già
sentito solo, all’inizio, ma per fortuna avevo avuto tanta compagnia, prima,
ora è stivata in deposito, tu non lo sai, ma io ho attraversato il mondo, in
lungo e in largo, ne ho conosciuta di gente, sono un po’ stanco di tutto quel
parlare, sì… parlare è bene ma stare zitti ha anche il suo fascino… quelli che
parlano di più sono quelli che hanno meno da dire, la conversazione è un’arte,
ma la gente ha bisogno di fare tutto alla svelta, non ha tempo e poi, quando ne
ha, pensa ad altro… comunicare è importante e necessario, ma dovrebbe essere
anche un piacere. Invece è diventata esclusivamente una necessità. Ed ecco che
il suo fascino è diminuito, almeno per me.”
Il sole stava
scendendo e nella boscaglia stava diventando sorprendentemente assai meno
caldo, Indio Velho si alzò e io lo seguii, camminammo insieme senza parlare.
La sua presenza
era rassicurante, per me, non come quella di una guardia del corpo, cosa da
Valligiani, ma piuttosto come quella di una guardia della mente, che era invece
roba da Montanari.
Uno che sapeva
attraversare ogni quesito con il suo ragionamento, la sua filosofia personale,
senza pretendere di risolverlo, senza dover credere che tutto avesse
necessariamente una risposta urgente o definitiva.
Insieme a lui
non mi sentivo in dovere di parlare, riusciva a trasmettermi la sua energia
quieta a sguardi, a gesti, anche nella sua immobilità in mezzo al cinema
esotico della natura circostante.
Usciti dal
boschetto, attraversata la salita coperta da erbe basse, certo spuntate da poco
e di un verde chiaro vivissimo, arrivammo su un altopiano più largo, vicini al
crinale, il vento era aumentato.
Ci sedemmo su
una pietra, dove il vento sembrava più caldo, nella boscaglia invece l’aria era
ferma e umida.
I suoi occhi si
spostavano lentamente attorno e il suo naso sembrava fiutare a lungo, come
quello di un cane:
“Hai sentito
qualche odore o qualche variazione nello spazio e nel tempo?” Gli domandai
ironicamente.
“Sì. Domani
pioverà, o forse stasera, o stanotte.”
“Come fai a
saperlo?”
“Aria di
pioggia, dal lato della laguna, di là gli odori arrivano in anticipo.”
Non mi sorpresi,
in città non ci riuscivamo più a sentire gli odori della natura, ma una volta
la gente era più legata a queste cose. Indio Velho era come un vecchio cane
selvatico della boscaglia, sentiva tutto e tutto aveva il suo bravo significato,
là in mezzo, per lui.
Là sotto, nella grande città, invece noi barcollavamo nel buio, non
capivamo la metà di quel che ci succedeva, eravamo barchette in mezzo alla
tempesta.
Indio Velho
fiutava e vedeva e ascoltava, era sempre padrone del suo presente e non pensava
troppo al passato e al futuro.
“I cani lo
fanno ancora. Fiutano. Loro non perderanno mai il loro contatto con la
campagna, il loro bagaglio di memoria gli viene trasmesso, istintivamente e
spontaneamente. Noi da piccoli dobbiamo imparare tutto, gli animali invece
hanno tante nozioni acquisite dai loro predecessori, che sono praticamente
autosufficienti da subito, noi invece, senza i nostri genitori moriremmo, nei
primi giorni.”
“E allora?”
“Allora la nostra scarsa attitudine fisica, ai primordi, ci ha fatto
sviluppare l’intelligenza.”
“Secondo te
eravamo predestinati?”
“Non lo so, ma
se fossimo stati ugualmente abili a procacciarci il cibo, come gli altri
animali, forse ora non saremmo così complessi.”
“Questo sarebbe
il famoso elogio all’inferiorità?”
“Esatto, ma se
ora abbiamo sviluppato tutto questo progresso attorno a noi, ci siamo
distanziati da loro, gli animali, e dalla natura e siamo diventati di nuovo
inferiori, è perché non stiamo bene…”
“In che
senso?”’
“Non capiamo
più qual è il senso della vita.”
“Ma come, non è
il denaro?” Chiesi con uno stupido sorriso indagatore.
Indio
Velho sorrise, guardò lontano, dietro alle mie spalle, diventò serio e
pensieroso, forse perché laggiù il denaro dettava la sua inesorabile legge. Era
proprio per quello, per le sue dannate e ramificate conseguenze, che lui aveva
scelto di vivere lassù.
“Il
denaro è il prezzo della vita, non mi ricordo chi lo ha detto, ma credo che sia
vero. Io
però, credo che il senso della vita sia da cercarsi nella natura, più ce ne
allontaniamo e meno ci sentiamo bene.”
“Allora tu cosa suggeriresti?”
“Di cambiare
argomento.”
Tre giorni
dopo, nella mia visita seguente, iniziammo a parlare dei giovani. A proposito
dei giovani, lui voleva che gli raccontassi i dialoghi che sentivo in giro per
la città, lo facevano ridere, si divertiva e diceva che imparava tante cose
nuove, specie quando riuscivo a trovargli qualche storia inedita.
Quel giorno ne
avevo una che forse gli sarebbe piaciuta:
“L’altro giorno
ho sentito una conversazione interessante per strada.” Proposi, con sguardo
intrigante.
“Tra giovani?”
M’incalzò avido Indio Velho.
“Giovanissimi.”
Dissi orgoglioso di me e del mio ruolo di testimone della società moderna
brasiliana.
“E com’è
stata?”
“Rapida, ma
simpatica e indicativa.”
“Sono pronto.
Raccontamela allora. Che diavolo aspetti?” Disse preparandosi seduto Indio
Velho.
“Sì, va bene,
ma non c’è bisogno di sedersi, è velocissima.
Dunque:
ieri pomeriggio c’erano due ragazzine che passavano camminando davanti a me,
avevano forse quattordici o quindici anni, non lo so, siccome avevano quasi la
mia stessa velocità di passi, prima che attraversassero la strada, le ho
sentite raccontarsi le loro cose… e qui devo dirti che, per loro, quello che
dicevi, qualche giorno fa, della necessità del comunicare e dello scarso
piacere nel farlo, non vale, sembravano veramente contente di parlare tra di
loro…”
“E che
dicevano, che dicevano?” Domandò lui.
“Bene, una di loro, quella che parlava di più, ha iniziato: ieri ho
incontrato Mello, e lui mi ha detto: Perché
non facciamo non so cosa, non so quando, uno di questi giorni, magari, insieme?
”
“Ah,
bello, e lei che cosa ha risposto?” Chiese Indio Velho.
“ Ma quanto tempo ci vuole? Ha domandato.
Già che la seconda ragazzina glielo aveva chiesto immediatamente, come
te. ”
“E l’altra, e
l’altra?” Domandò IV.
“Ah, questo non lo so! Ha risposto la
prima ragazzina.”
IV rise,
lo sguardo alto oltre di me, come se si immaginasse la scena, per qualche
secondo. Poi
disse entusiasta:
“Meraviglioso,
piccola-grande storia, sei un grande osservatore Odair, questo è uno stupendo
esempio di stringata banalizzazione moderna, pieno di mancanza di significato e
perciò autenticamente significativo e significante, ma… a proposito: cosa
diavolo significa?
Magari ti dico
la mia interpretazione: i giovani non specificano più le situazioni che già
appartengono a schemi standardizzati e conosciuti da tutti e si riferiscono a
essi con parole e frasi cortissime e convenzionali.
(Un po’ come la
barzelletta del club dei raccontatori di barzellette, che ormai le raccontavano
citandole e ridendo usando i loro relativi numeri di riferimento dopo averle
catalogate…)
Insomma, le
persone nel mondo globalizzato pensano di non avere tempo per stare a
conversare e allora usano i nomi per le situazioni, avendole da tempo
catalogate e divise in categorie… la totale assenza di specificità appiattisce
e semplifica tutto, senza doversi dilungare in descrizioni noiose e fuori moda,
dato che il tempo corre… Fenomenale.” Aggiunse lui cercando forse in me una
qualche reazione.
“Fantastico.” Dichiarai io, con malcelato poco entusiasmo.
“Incantevole.” Terminò
Indio Velho con autentica e grande gioia bambina.
“Ma questo non è anche un poco triste?” Rincarai allora, da mezzo
avvocato del diavolo, per capire meglio cosa ne pensava Indio Velho e perché
pensavo, in fondo in fondo, che fosse triste veramente.
“Non lo so se è triste.” Disse lui. “Ma la gente è così, specialmente
quella giovane che studia e quella che lavora, mi pare che veramente non abbia
tempo, per conversare come vorrebbe e comunque non ci è più abituata. Non si
sente più piacere nella conversazione, nella modernità tutto si frammenta,
tutto diventa rapido e necessario, allora si va al passo con i tempi, oppure si
viene dimenticati. Basta pensare ai computer, all’economia virtuale, ai
dialoghi tra persone che lavorano, ai cellulari e ai messaggi di testo o di
voce, agli incontri rapidi e in più interrotti da continue telefonate, la
comunicazione sta correndo come impazzita, per forza diventa uno stereotipo,
perché la descrizione sarebbe molto più lenta, no, no, si deve sintetizzare al
massimo, per mantenere il ritmo…” Aggiunse lui, con entusiasmo, come se fosse
una catena di cose positive.
“E questo non è malinconico?” Domandai io.
“Forse sì o forse no, ma quello che noi dobbiamo pensare è che la
natura stessa non si fa questa domanda, va avanti e non pensa alle soluzioni,
ma vive la sua realtà dolorosa o meravigliosa che sia, dipende dai punti di
vista, la natura non ha punti di vista è qualcosa di enorme e mischiato, e in
movimento. Io cerco di ragionare in questa maniera, essendo io stesso poco
ragionevole ma assai pratico, le soluzioni per me sono diventate automatiche,
da qualche anno a questa parte non ne ho più, di decisioni, tutto si muove da
solo. Come la mia maniera di isolarmi, che non è stata cosciente né improvvisa,
ma il risultato di tutto quello che ho vissuto prima, sommato al mio carattere,
alle condizioni di vita che stavo attraversando…”
“Ma per fare così bisogna un po’ disumanizzarsi…”
“Certo, ma non fa così male come si pensa, animalizzarsi un poco,
perché è il ritorno alle nostre origini, io sto meglio ora di prima, certo non
posso consigliarlo a tutti, ma chi se ne importa?”
“E allora non ti rattrista per niente questo processo di diminuzione
del valore della cultura? L’appiattimento del dialogo, la morte della piacevole
conversazione?”
“Forse sì, ma solo se fossero cose prese separatamente.”
“Che cosa vuoi dire?”
“Voglio dire che tutta questo progressivo peggiorare è solo una
sensazione di gente che è abituata a cercare i difetti e non i pregi, a
separare e non a associare, ma questa tristezza la maggior parte della gente
non la sente, secondo me, perché si è abituata a vivere in questa maniera…”
“Certo che l’ignoranza e la povertà, almeno qui, fanno parte della
vita di tutti i giorni…”
“Non solo qui, la storia si ripete come la geografia, la religione e
la storia dell’arte, sì, sì, anche come la matematica… ridi? Ma è la pura
verità, amico caro, tutto è copia di tutto, io non so immaginare un mondo
differente, è sempre stato così e lo sarà ancora, nei secoli dei secoli…”
“Ma noi, però,
dovremmo sperare che il mondo migliori, non è vero? Magari anche fare qualcosa
affinché questo possa succedere.”
“Certo sarebbe
bene, ma non tutti lo possono fare.”
“Non sono
d’accordo. Secondo me tutti quelli che se ne rendono conto dovrebbero fare
qualcosa, attivamente, non solo parlare.” Dissi io con una certa convinzione.
“Il difficile è
non guastare la propria vita, nella ricerca di un qualcosa del quale
probabilmente non vedremo risultato.
Beh, il mondo è
stato infelice sempre, più o meno come ora, anche se in maniera differente, si
può scegliere un’epoca preferita del passato, ma non si sa se le persone erano
più felici di ora. Si potranno sempre migliorare alcune parti, ma allo stesso
tempo altre peggioreranno, almeno dal nostro punto di vista. Dal punto di vista
di altre persone, invece, proprio le cose che per noi saranno peggiorate, per
loro sembreranno migliorate e ogni cosa e il suo contrario si avvereranno
puntualmente, insieme alle mezze misure, nelle minuzie come nelle cose
importanti, ci sarà eternamente una mistura confusa, sarà sempre difficile
trovare la verità, ognuno ne avrà sempre un’idea differente, in un momento, e
in un altro sarà già cambiato.
Per esempio:
siamo abituati a dire come nostre le parole di un commentatore televisivo, a
crederci veramente come se fossero nostri pensieri, le frasi udite in giro e
che ci sono piaciute, ma il nostro pensiero sarebbe assai differente se
veramente conoscessimo i fatti e non le notizie… perché i fatti sono già stati
presi e filtrati, mangiati e digeriti da quel giornalista, che magari parla
così per un suo interesse personale, per proteggere o promuovere qualcosa o
qualcuno. ”
Rimanemmo zitti
per qualche attimo, gli uccelli cantavano forte, erano in tanti, mi pareva che
ci fosse in loro una particolare agitazione. Me ne accorgo solo ora, che Indio
Velho mi aveva aperto una nuova porta, come sempre. Insistere nel mio punto di
vista però mi portava a capire meglio, a sviscerare più completamente possibile
l’argomento, come se immaginassi il punto di vista di chi sta di fronte a me e
come se le parole di IV fossero le mie. La pausa finì quando io gli dissi:
“Ma quella
maniera di parlare, se ho ben capito, non ti piace, così rapida, disturbata,
frammentata, sintetizzata, senza personalità. Se
la gente vive in questa maniera, non è peggio anche per noi?”
“No, o almeno solo in parte, quella è la loro vita, come potremmo fare
per uniformare il nostro pensiero a quello di loro? E anche se potessimo, non
può essere che in alcune cose loro abbiamo ragione e noi torto? E poi noi chi
siamo? Tu sei diverso da me, siamo tutti diversi… anche se ci sforziamo di
apparire uguali.”
“Va bene, va bene, ma vedere gli altri che stanno male non fa stare male
anche noi?”
“Sì, in un
certo senso, ma è la condizione dell’uomo, se anche tutti gli uomini stessero
bene, non sentiremmo pena per gli animali? Se potessimo anche risolvere tutti i
problemi animaleschi, poi le piante e le pietre ci parrebbero sfruttate e mal
retribuite della necessaria e dovuta gratitudine… la pietà, insomma, nel senso
classico, la compassione, certo, è bene avercela… ma non dobbiamo esagerare,
prima di tutto perché non siamo per niente onnipotenti.
Come fanno gli
stessi animali? Il tuo cane, per esempio - sì, lo so che non è tuo - pensa a se
stesso, o forse nemmeno a quello: cammina, abbaia, mangia, poi dorme, se glielo
lasci fare si procrea e non pensa mai, tanto per dire, a come sta male il cane
del vicino che invece è legato e non può nemmeno farsi un giretto per il
terreno recintato, e che nessuno lo accarezza mai…
Ecco: la
pluralità porta la diversità e la diversità è più da accettare che da capire,
il senso della vita è godersi la bellezza che c’è in giro, approfittare di
quello che abbiamo e non stare a riflettere troppo su quello che non abbiamo
noi o che gli altri non hanno. In sintesi, se noi
stiamo male per gli altri, è solo perché non sappiamo dare, a loro o alla
situazione, la opportuna collocazione nell’ordine delle cose. Invece, se le dedichiamo un po’ del nostro prezioso tempo, formiamo la
nostra filosofia personale e solo allora possiamo accettare, perché allora non
è più una cosa passiva, ma attiva. Ecco che possiamo aiutare gli altri, non
dico materialmente, ma anche solo con la nostra presenza, una frase, una
parola… cosa che non possiamo certo fare se stiamo in pena, se soffriamo, se la
vita ci pare ingiusta e penosa, il bene che potremmo fare si tramuterà in
dolore, questo sarebbe ciò che doneremmo agli altri, solo che di questo nessuno
ne ha bisogno, però.”
"Vou
com fé, vou na fé porque a fé não costuma falhar. Eu aprendi que só Deus pode
julgar..."
“Ci vado
con la fede, ci vado con la fede perché la fede non ha l’abitudine di sbagliare.
Ho imparato che solo Dio può giudicare...”
(Realidade
Cruel – Realtà Crudele - gruppo rap)
Zico e
le favelas di Rio
A Rio de Janeiro la divisione è nitida. Le tante volte
che sono stato a RdJ questa divisione l’ho assorbita. Fatta mia mentalmente. Un
muro invisibile spacca in due la metropoli carioca.
Le favelas isolate sulla collina (morro) e gli
abitanti “per bene” che vivono nei quartieri dove ci sono le strade (asfalto).
La spiaggia è l’unico luogo d’incontro tra questi “due
mondi” dove la diversità non emerge. Come un frullatore, la spiaggia detronizza
le diversità di chi vive nei palazzi rinomati d’inizio novecento (con prezzi al
metro quadro uguali a quelli di Londra) con chi invece sopravvive tutti i
giorni nelle favelas come la Rocinha.
Domenica mattina, spiaggia di Copacabana. Mi chiedo
come posso capire se il palleggio perfetto, a piedi nudi di quel ragazzino di
dieci anni (non di più) e la sua velocità nel dribblare la squadra avversaria
siano o no Made in Favelas.
Magnetizzato a guardare il pallone che resta incollato
ai piedi del riccioluto, ambrato ragazzino che tutti chiamano Zico. Anche i più
grandi di lui usano quel soprannome. Con grande rispetto. E il ”piccolo Zico”,
come una vera star, finita la partita, non si lascia coccolare da complimenti o
richieste di foto dei turisti che, come me, sono rimasti sbalorditi. Da
giornalista sportivo, mi chiedo se ho veramente visto in anteprima un nuovo
“fenomeno”. Tornano alla mente le immagini in bianco e nero di Maradona, a
dieci anni che palleggia in un campetto di un quartiere malfamato di Buenos
Aires. Accostamento esagerato. Forse sì. Il piccolo Zico fugge via dalla
spiaggia solo. Nessun genitore ad aspettarlo nonostante ormai sia buio e le
strade del centro di Rio siano pericolose. “Meninos de rua”? Chi lo sa.
Povertà e irregolarità sono la normalità per Rio. Sono
censite ufficialmente tra le 600 e le 700 favelas. Droga, miseria e armi. Ma
anche sfruttamento e violenze sui minori. Ognuna di queste favelas possiede una
sua storia che la distingue in termini sociali, culturali ed etnografici. La
metropoli carioca, basta guardarla per capire. Costruita nel mezzo di alcuni
complessi montuosi ricoperti di foresta. Le sue favelas adagiate su costoni
rocciosi, per tutti zona franca, distanti e differenti dal resto della città.
La favela è un fenomeno antico. A Rio, la prima risale
addirittura al 1897 quando i soldati di ritorno dalla campagna di Candudos si
trovarono senza casa e occuparono l’area dell’attuale Morro da Providencia
nella zona nord della città. Negli anni trenta si assistette al dilagare del
fenomeno, che fu alimentato dalla crisi economica e dal crollo del prezzo del
caffè, che mandò in rovina una buona parte della classe media carioca.
In vista dei campionati del Mondo, Rio è alle prese con il tentativo di
urbanizzare e bonificare queste aree franche dove ancora una parte della popolazione
non è censita.
Le immagini della diretta televisiva di O Globo del dicembre 2010, con i
soldati e che guerreggiavano con le bande di narcotrafficanti delle favelas è
stato il punto di svolta per Rio. A distanza di dieci mesi, oggi, in molte
favelas la polizia può entrare senza essere attaccata a colpi di bazooka. La
violenza, dicono le statistiche, si è drasticamente ridotta.
Un primo passo per abbattere quell’ancora imponente
muro invisibile tra morro e asfalto. E sperare che non sia solo la spiaggia
luogo d’incontro tra questi due mondi. E non doverci più chiedere se le magie
sulla spiaggia del “piccolo Zico” siano o no “Made in favelas”.
http://www.24emilia.com/Sezione.jsp?titolo=Zico+e+le+favelas+di+Rio&idSezione=29343
Nel mio modesto angoletto sto studiando da sempre,
anche prima se non me ne accorgevo, dove va a finire questo mondo. Insomma la
civiltà che direzione sta prendendo, forse la civiltà stessa fa parte di un
disegno più grosso, di un movimento perpetuo tracciato da non so chi, forse da
un Dio, o magari dall’uomo stesso, inteso come umanità. O forse è tutto a caso?
Solo che noi uomini non ci vogliamo credere.
(Odair Ribeiro Diaz)
Ada
Il giorno dopo Adailton, per strada andando verso il
quartiere Cinelandia, poi mentre lavorava, pensava e ripensava a Oda e agli
spiedi. Se li era dimenticati di nuovo. A sera, stanco e incuriosito decise che
non aveva niente da perdere, (a parte quei diavoli di spiedi) e telefonò a
Odair che aveva un cellulare, gli aveva dato il numero il
giorno prima.
“Tutto bene Oda?
Qui è Ada...”
“Olà Ada, come va l’esistenza? Senti,
sono in seduta, dimmi rapidamente, magari ti chiamo dopo...”
“Niente, volevo provare a fare una... seduta anch’io, come pagamento
accetteresti anche il prestito retroattivo di spiedi di churrasco?”
“Certamente! Visto anche che ho in mente una certa cosa per te... poi
ti spiego. Va bene!”
“Ottimo, a che ora vengo?”
“Stasera, domani, ti va bene la sera? Così non perdi
il lavoro, alle otto di domani sera va bene per te?”
“Sì... ma ci vuole un poco di tempo per arrivare
lì, può essere alle otto e mezzo?”
“A posto! Otto e mezzo qui sulle poltrone di
Napoleone!”
E riattaccò senza aspettare risposta. Ada rimase
soddisfatto e andò a dormire, si addormentò subito, ma la solita sparatoria tra
trafficanti lo svegliò verso le quattro di notte. Dopo si sognò Oda vestito da
indiano dell’India, che gli faceva un sermone dalla roccia del Cristo
Redentore, lui, là in basso, sdraiato sulla spiaggia di Copacabana lo ascoltava
perfettamente concentrato, Oda diceva cose incredibili e che gli pareva che non
avessero niente a che fare con lui, ma dopo, da sveglio, non se le ricordava
più.
Alle otto e quindici minuti Oda gli aprì la porta,
prima che lui bussasse, sul fornello c’era una pentola fumante che mandava
odore di fagioli neri fumanti, con spezie e carne grassa per insaporire: la feijoada.
“Ah, sei in anticipo, pensavo che fosse Jorginho da
Cruz, il mio amico-cliente-macellaio, sto aspettando i pezzi di maiale per la
feijoada...”
Ada si guardò intorno e si sedette sulle poltrone di
Napoleone, così chiamate perché vecchie e di panno blu, con i bottoni che una
volta dovevano essere stati dorati.
“Allora quando comincia la seduta?”
“Può cominciare da questo momento.”
“E quanto dura?”
“Il tempo necessario, che generalmente è un’ora, ma
qui non ci sono orologi e non ce ne saranno mai, o meglio: mai più. Dopo un’ora
più o meno esatta di discorsi, il gatto, Soneca
de Ouro (Pisolino d’Oro), che puoi vedere lì sdraiato nella penombra di una
terza poltrona napoleonica, quella più sfondata, comincia a diventare annoiato
e miagola, questa è la fine della seduta. Non c’è da sbagliarsi.”
“Bene. Cominciamo subito, allora.”
“Aspetta, vado a scaldare l’acqua per il chimarrão.”
“La feijoada è inclusa nel prezzo?”
“Sì, ma dobbiamo aspettare Jorginho, per i pezzi di
maiale... doveva essere già qua, si sarà fermato a bere... quello beve che
sembra pagato... spesso coi soldi miei, infatti, ma è un bravo ragazzo, ogni
tanto una bella bastonata lo rimette sui binari, ne ha un bisogno fisiologico e
a quello ci pensa sua moglie, per fortuna, che sennò è faticoso.”
Dopo pochi minuti Oda ritornò con il termos e la cuja già preparata, (recipiente ricavato
da un tipo di zucca seccato, dove si beve il chimarrão), davanti a un’enorme
televisione a valvole spenta, con sopra un vaso di folte felci ornamentali, che
sembravano i capelli dell’apparecchio antidiluviano, ecco che sprofondati
entrambi nelle poltrone antiche, sorseggiavano a turno l’infuso caldo dell’erba
mate, il famoso chimarrão gaúcho, un bastoncino d’incenso bruciava attaccato al
lampadario di gocce di vetro, in lontananza una musica strana, strumentale,
forse qualcosa d’indiano...
“Vogliamo iniziare?” Disse Oda.
“Sì, sono pronto, o quasi.” Rispose Ada.
“Allora, come stai vivendo all’epoca attuale?”
“Male.”
“Tutto quello che vedi è negativo?”
“No, ci sono anche cose positive...”
“E quali sono?”
“Non dovrei dirti quello che non va?”
“Chi è qui il saggio paziente, e chi l’avaro cliente
del disgraziato saggio?”
“Hai ragione, ma ora non mi viene in mente niente di
positivo...”
“Ah, ecco. Però è importante che tu sappia che c’è
qualcosa di buono, è già importante che tu dica che esiste qualcosa di
positivo... da questo capisco già un bel po’ di cose...
Comunque pensaci bene e poi dimmi che cosa vedi di bello.
Solo le cose più importanti.”
Adailton pensò per qualche minuto. Poi disse:
“Gli spiedi, oggi me li posso finalmente riportare a
casa...” Sottolineò con un sorriso ironico.
“Questa è già una cosa positiva, non mi pare molto
importante, ma forse per te gli spiedi lo sono... dimmene un’altra, qualcosa di
meno materiale...”
“Che non sono rimasto a casa a rimuginare come al
solito, la domenica sera mi sento più solo del normale...”
“Questa mi è già piaciuta di più. Qualcos’altro?”
“Forse che fra poco ci mangiamo una bella feijoada
che è tanto tempo che non ne mangio una decente?”
“Vedi qual’è il nostro problema?
Non
offenderti cugino, ma il nostro problema è l’opposto di quello dei ricchi, da
questo si capisce che siamo poveri, lo sapevamo già, va bene, ma quello che è
più brutto è che abbiamo la mentalità da poveri. Pensiamo solo a
quello che stiamo vivendo al momento, il che sarebbe una cosa buona, ma il
fatto è che siamo incapaci di astrarci, voglio dire, di uscire immaginariamente
da noi stessi, dall’ora di questo momento, per poter guardare noi stessi dal
fuori, per capire che tipo di cetrioloni sgocciolanti abbiamo piantati dentro
gli orecchi, che ci impediscono di intendere quello che succede fuori dalla
nostra testona grande e vuota, ma che sorprendentemente non smette di
rimuginare un secondo su cose inutili. No, non ti offendere, anch’io ho provato
questa sensazione d’impotenza: tutto difficile, tutto lontano, tutto
complicato, tutto fuori portata, tutto quello che conta veramente è
irraggiungibile.
Perché?
Solo per mancanza di competenza, poi di conseguenza
di mancanza di occasioni, quindi conseguenza di mancanza di soldi,
semplicemente nascere nel luogo sbagliato, con la famiglia sbagliata, al
momento sbagliato?
Purtroppo sì.
Non te la prendere, succede a tanti ed è successo
anche a me, se ti racconto come ho messo in carreggiata la mia automobilina,
nella confusione del transito di tutto quello che mi era successo, non ci
crederesti nemmeno...
Sì, ammettiamolo, la vita non è troppo difficile, in
fondo, ma siamo noi che siamo stati buttati qua in mezzo, da chi ci capiva meno
di noi, i nostri ignoranti genitori e per questo noi stiamo qui a piangere
senza la possibilità di capirla.
I ricchi?
I ricchi invece pensano troppo al domani, a
conservare e in un futuro prossimo ad aumentare la loro proprietà e tu, che
invece non hai niente, puoi solo pensare agli spiedi e alla feijoada? Certo,
sono le cose più piacevoli che puoi trovare in giro. Cerca di sforzarti un poco
ancora, che cosa è veramente importante, che fase sta attraversando la tua
vita, oppure quali sono le tue prospettive?”
“Ma tu non sei povero, almeno la tua famiglia non lo
è, sei tu che hai scelto di venire a vivere qui, o no?”
“No, ma questo è un altro discorso, questa povertà
mi è stata utile, prima di tutto per abbandonare la protezione dei miei
genitori che mi avevano fatto diventare un inutile totale e mia moglie ha fatto
proprio bene a lasciarmi, detto tra noi. Poi mi è servita per trovare la mia
strada. Ora lascia perdere la mia storia e pensa a te stesso, a qualche cosa di
positivo.”
Silenzio, Oda ne aveva dette tante e la testa di Ada
ci stava pensando, dopo una decina di secondi disse:
“Una cosa positiva è anche che, se tu mi dai una
mano, posso sentirmi meglio in futuro...”
Lo dichiarò sorridendo con quell’espressione
tagliata nell’ironia che nasceva automaticamente sulla sua faccia scettica, che
la vita di favela aveva abituato a diffidare anche dei fatti più sicuri, perché
se nella vita niente era sicuro, beh, in una favela ancora meno.
“Molto bene. Stiamo migliorando, a parte quel
sorrisino ironico, che fa parte della nostra cultura irriverente, quello è più
difficile da estirpare, lo so. Continuiamo: dimmi ancora una cosa positiva.”
“Lo sai che sei cambiato tantissimo da quando ti ho
visto l’ultima volta?”
“Si, lo so, lo sapevo anche prima e poi tu me lo hai
già detto. Questa ti pare una cosa positiva?”
“Sì, perché prima eri diverso... eri un negrone come
tanti...”
“Come esattamente?”
“Ignorante. Stupidotto come me. Più attaccato ai soldi
forse, ne avevi di più e allora ne volevi di più.”
“Bravo. I miei genitori hanno fatto il possibile per
educarmi a credere che il mondo girasse intorno al mio ombelico. Alla
convinzione che i soldi sono l’unica cosa veramente interessante. Certo avere
una certa cifra sviluppa il pensiero di aumentarla, se non hai niente o poco,
ecco che pensi alle piccole porzioni di tempo, alla giornata, magari anche con
meno ansietà. La tua filosofia è tirare a far notte.”
“Beh, non esageriamo.”
“No, meglio di no. I soldi per te sono un problema,
oppure l’ideale soluzione? Sono o non sono il motivo del tuo star male?”
“No, almeno non credo. È solo la loro mancanza a
volte che mi obbliga a fare una vita che non mi soddisfa troppo...”
Ne risero insieme, un poco amaramente, si potrebbe aver
pensato, ma non c’era amarezza nelle loro espressioni. Il modo di comportarsi
di un brasiliano è rotondo, inafferrabile, per abitudine non si infila mai nelle
pieghe della sua tristezza, prende in giro se stesso, le sue stesse tragedie,
perché la vita è tragicomica e dentro una favela lo è anche di più.
“Vuoi guadagnare dei soldi o no?”
“No, è il lavoro che non mi piace, certo qualche Real in più mi aiuterebbe, ma non è
questo il problema, sono abituato a vivere con poco.”
“E allora che cosa vorresti da questa vita
meravigliosa e stupenda, ma a volte un po’ feroce?”
“Non lo so... vorrei vincere a una lotteria
milionaria, per esempio.”
“Stai giocando alla Super-Sena?” (Lotteria miliardaria brasiliana)
“No, non credo che potrei vincere.”
“Ada, non ti offendere, sei un ragazzo intelligente,
ma quello che stai facendo è rinunciare a sognare, la differenza tra il Brasile
e la Germania, per esempio, è che loro non sognano molto, la loro vita è molto
razionale. Loro hanno una permanenza più regolare su questa terra, più
condizioni economiche, miglior livello di vita, ma noi abbiamo un clima
migliore, siamo più ingenui e questa è una fortuna, perché crediamo di più nel
domani, in sostanza sogniamo di più. Siamo anche più ignoranti e questo forse
non è bello, né utile. Siamo più aperti a quello che è l’esterno, i tedeschi
sono più chiusi, ma studiano di più. È anche una questione di clima, là sono
più chiusi perché è freddo.
Allora, se tu prendi ciò che abbiamo di migliore e
lo mettiamo insieme ai lati più positivi dei tedeschi otteniamo esattamente il
contrario di quello che sei tu. Hai capito? Ridi eh?
Bene, quello che volevo dire era questo... e credo che tu lo abbia capito,
almeno la tua faccia, si mostra ironica e divertita. Non ci sei rimasto male? Molto
bene. Quello che volevo dire era che nella tua persona tu
unisci il lati peggiori della cultura europea e di quella brasiliana,
l'esagerata e colta introspezione tedesca con l'aperta ignoranza brasiliana,
per questo ho pensato che saresti la persona giusta, quella che fa per me.”
“Come sarebbe a dire?”
“Ti ho già detto che gli affari vanno bene, che io sto pensando d’ingrandirmi, insomma un
aumento di capitale e qui il materiale umano è l’unico capitale che abbiamo, lo
sai, è solo la nostra abilità mentale e pratica, non abbiamo qualifiche e
dobbiamo studiare più degli altri, tu sai leggere e scrivere no?”
“Sì, ma perché me lo domandi, vuoi dire che dovrei
lavorare con te?”
“Perché? Non ti piacerebbe?”
“Sì, ma sono ignorante come una capra, l’hai detto
anche tu, non ho speranza di capire tutto questo.”
“Quello chi lo deve stabilire sono io, cugino mio, ho
visto che sei molto più intelligente di quello che vuoi mostrare, sei
introverso, cioè ti interessa capire meglio come sei dentro, sei povero, hai
voglia di guadagnare di più, anche se non lo ammetti a te stesso è normale,
(anzi normalissimo,) e ti piacerebbe
fare qualcosa di gratificante, che significa di livello più alto e di maggiori
soddisfazioni, non solo finanziarie ma anche a livello di piacere personale nel
farlo.”
“Stai scherzando? Vuoi mettermi a studiare?”
“Sì, ma noi abbiamo un grande vantaggio, il cammino
che farai tu io l’ho già fatto, sto cominciando a coglierne i frutti, io lo
conosco già. Adailton Machado Da Silva: noi abbiamo giocato insieme da bambini,
se c’è una decina di persone al mondo, tra quelle poche ancora vive, che fanno
parte della mia infanzia, quella sei tu e altre nove, più o meno, che me ne
dici?
Ti ho già spiegato che ho scoperto che la mia
vocazione è quella di aiutare gli altri, ma potrei aiutare più gente e sentirmi
anche più in pace con me stesso se aumento il mio esercito, ti sto chiedendo di
farne parte, che ne pensi? ”
Ada non sapeva proprio cosa dire e la seduta continuava,
in maniera diversa dal momento che Oda aveva aperto il suo gioco:
“Ti devo confessare che questa mezz’ora di seduta è
stata differente da quelle che faccio con gli altri clienti, perché ti ho già
inquadrato nel tipo di cose che io penso, dalla mia parte, per aiutare gli
altri, ti stavo spingendo, ora, a capire cosa penserai e cosa dovrai fare al
mio posto... perché qui si dovrà sdoppiare la mano d’opera, prima si dovrà
studiare, certo, fare un poco di sedute come questa, tra poco tempo sarai tu a
ricevere qui e io andrò a casa dei clienti... o al contrario, diventerai un
saggio come me, uno che lavora per il bene degli altri.”
Lo stupore di Ada era evidente, ma, visto che Oda
incalzava e Ada non reagiva, significava che la cosa stava già funzionando, nessuna
obiezione, allora si passò già alla pratica:
“Prima di tutto il cliente deve collaborare, per farlo
deve credere che ha di fronte a sé una persona nelle mani della quale si può
mettere tranquillamente, deve avere fiducia, un’estrema fiducia: allora, cerca
di dimenticarti che questo qua è il tuo cugino Oda, perché gli altri che
vengono qui non lo sanno.
Respira a fondo, con calma, lentamente.
Normalmente dico: rilassati e dimmi tutto, senza
ordine, poi facciamo l’ordine insieme, ecco.”
“Allora, se ho capito bene il paziente deve parlare
della sua vita, che se viene qui significa che funziona male, si deve fare uno
schema di quello che fa e di quello che non fa...”
“Benissimo, vedi che stiamo già entrando nel vivo? Ma
che cosa significa vivere secondo te?”
“Vivere? Essere qui, a Rio de Janeiro, alzarsi la
mattina, andare al lavoro, tornare a casa la sera, mangiare, dormire... tutto
questo, no?”
“Mi pare un’idea stanca e ripetitiva... non ti diverti
nella vita?”
“Poco, quasi mai.”
“Perché?”
“Non lo so, lo chiedo a te.”
“La risposta me la hai già data tu, proprio ora,
dicendo che cosa è vivere per te: una routine senza senso, una ripetizione di
atti senza valore alcuno e senza possibilità di essere interrotta, se non con
la morte, a che cosa serve vivere così?”
“Se la risposta te l’avevo già data, perché mi hai
domandato perché?”
“Per tre motivi essenziali: primo, perché tu
ascoltassi le tue stesse parole rassegnate; secondo, perché tu gli dessi
l’opportuno peso; terzo, affinché tu capissi che chi deve fare qualcosa sei tu
e non io, al massimo io posso portarti sulla pista, insegnarti il passo, ma chi
deve ballare sarai tu e solo tu.
Un altro problema che hai, come tutte le persone rassegnate,
è dare la colpa agli altri, delegare la tua responsabilità, così potrai sempre
dire che la colpa non è tua... può anche essere vero, la vita può essere anche
stata ingiusta e poco generosa con te, ma invece di lamentarti incomincia a
fare qualcosa!
Anche se dentro di te la verità esiste, la devi
trovare, anche si nasconde in te ma non sai dove, poi la devi portare alle tue
labbra e pronunciarla davanti allo specchio, all’inizio per esercitarti, da
quel momento comincerai ad averne coscienza, in seguito potrai cominciare a
fare qualcosa a proposito. Anche questo non sarà facile, ma questa è l’unica
strada possibile.”
Ada rimane a bocca aperta.
“Lo sai che sei molto cambiato dall’ultima volta che
ti ho visto?”
“Lo sai che è la quarta volta che me lo dici e che lo
sapevo anche prima che me lo dicessi?
Anche tu sei cambiato, ma in peggio, dall’ultima volta
che ti ho visto, sappi che dobbiamo lavorare molto, ma qui e ora stiamo già
lavorando per farti una bella revisione.
Le persone possono cambiare, te lo giuro, basta che
siano motivate e che sappiano cosa devono fare per cambiare.
Io ho bisogno di te e tu di me, QUESTO è l’affare
intelligente, allora guardati alle spalle e confessati con papà Oda: che cosa
ti stava succedendo?
Pensavi che il niente ti stesse lentamente uccidendo?
Ma questo niente lo hai cresciuto tu, lo alimenti ogni
giorno, se continui così diventerà più grande di te.
Ti dominerà.
Da quel momento la tua carriera di uomo sarà giunta al
termine.
Se vieni dalla mia parte, sarà completamente
differente, aiuterai gli altri e facendolo aiuterai te stesso...”
Ada si era già convinto, in meno di mezz’ora, il resto
fu una ripetizione a spirale, ritornava più volte, senza fretta, sugli stessi
punti.
Oda gli fece capire che lo aveva scelto perché era un
tipo tranquillo, cioè una persona paziente che sapeva ascoltare gli altri e poi
la loro somiglianza all’inizio gli avrebbe fatto comodo, perché lo avrebbero
acettato come uno che possedeva giá quel tipo di autorità.
Una non molto esatta ora dopo la seduta era finita, Soneca
de Ouro miagolava e sbadigliava, subito dopo arrivò Jorginho abbastanza ubriaco
e finalmente i pezzi di maiale finirono dentro alla feijoada che ansiosa li
stava aspettando da un bel po’.
Jorginho parlava
tanto ma non si capiva niente, Ada rideva, si sentiva peggio e meglio, ma così tanto
peggio e meglio che gli sembrava quasi di stare bene, di essere vivo,
finalmente, la testa gli ronzava un poco, si stava dimenticando di nuovo gli
spiedi.
In presenza del suo amico Jorginho, Oda non parlava
più di lavoro, ma cominciarono a bere insieme qualche bicchiere di cachaça (distillato di canna da zucchero).
Quando Ada se ne andò via, Oda, sul cancelletto
sgangherato di legno, gli disse che lo aspettava il giorno dopo allo stesso
orario, gli avrebbe fatto trovare un churrasquinho
pronto e anche del refrigerante (bibita analcolica in genere, tipo aranciata o
gassosa).
Il giorno dopo Ada lottò inutilmente con se stesso,
per quasi tutto il tempo, la sua maniera di vivere precedente rifuggiva ogni
cambiamento. Ma la sera andò da Oda, il quale gli consegnò i primi due libri,
gli spiegò di leggere e d’imparare solo le parti sottolineate, di chiedergli eventualmente
se non capiva qualcosa, glielo avrebbe spiegato, anche per telefono andava
bene.
Mangiato il churrasco e bevuto Guaranà (bibita analcolica a base di bacche della pianta del Guaranà),
Oda mise seduto Ada in uno sgabuzzino e gli disse di fare ben attenzione alla
seduta che lui stava per fare, sia alle parole che alle facce, dalla penombra
avrebbe potuto vedere bene la stanzetta illuminata.
Poco dopo arrivò un uomo ben vestito, paziente e
terapista si accomodarono di fronte l’uno all’altro, sulle poltrone di
Napoleone disposte tatticamente, ben visibili e udibili dal punto di
osservazione di Adailton che rimase subito impressionato dalla capacità
professionale di Odair. Il cugino affrontò con sorridente calma i problemi e i
dubbi, aveva una risposta convincente per ogni domanda, l’uomo si dimostrò
sempre più soddisfatto e sollevato, le risposte di Oda erano corte e semplici,
ma andavano diretto al punto e anche se lui non se ne intendeva, sembravano
soluzioni vere, forse non facili da applicarsi, però proprio per questo oneste
ed efficaci solo con l’impegno del paziente, come Oda puntualizzava ogni tanto.
Il passo e la pista dovevano essere mostrate dal
saggio della favela, ma il ballerino era il paziente, su questo non ci pioveva.
L’autorità della maniera di fare di Oda era presa molto sul serio dal cliente, era
convincente perché era convinto, ogni piccolo particolare era preso in
considerazione e sviluppato. Il signore doveva essere un riccone, anche perché
al momento del pagamento tirò fuori il portafogli e pareva che le banconote che
consegnò a Oda fossero due grandi e celesti.
Duecento reais?
Ada cominciò a pensare rapidamente, fece due conti e confermò
a se stesso che valeva la pena studiare.
Tutti i giorni Ada andava a farsi il suo tirocinio, ma
studiando un poco e continuando a lavorare a mezzo servizio, leggendo e
mettendo in pratica con gli stessi suoi clienti di bancarella quello che stava
imparando, vide i primi risultati concretizzarsi in poche settimane, cominciava
anche a vendere di più e a guadagnare, in cinque ore, quello che prima
guadagnava in dieci.
Ancora più importante: vide una soluzione ai suoi
problemi, dava consigli gratuiti ai suoi clienti, ai conoscenti un po’ più
intimi, iniziò anche ad aver piacere della sua stessa conversazione, perché si
rendeva conto che ora aveva qualcosa da dire e cominciava a prendere l’aspetto
di Oda, cambiò il suo look: capelli e barbetta, occhialini tondi, all’inizio avrebbe
dovuto sembrare suo cugino, per il resto la naturale somiglianza li avrebbe
aiutati, aveva compreso e accettato che il piano era anche questo, ma non solo
questo.
Se una cosa vende molto vale poco, ma che cosa è importante in fondo: la
qualità o il portafoglio? E poi per chi?
(IV)
IV e Oda
“Ma allora come fai a giustificare a te stesso che esistono persone
che muoiono di fame e altre che invece hanno milioni di dollari in banca nelle
isole Kaiman? Come
puoi sentire giustizia nel fatto che questi secondi si arricchiscano sfruttando
i primi?”
“Non sto
dicendo che è giusto, ma solo che è inevitabile, perciò non me ne sento
responsabile, come mi sentivo un tempo, che pensavo e dicevo che volevo
cambiare il mondo e poi mi sono accorto che invece era me stesso che volevo
cambiare e che il personaggio di lottatore politico che mi ero costruito
addosso, anche lavorando come sindacalista, era quasi tanto falso quanto quello
dell’industriale arrogante e vorace di sangue dei suoi operai… con le debite e
necessarie proporzioni, naturalmente.
Insomma, ho
pensato che tutti rientravamo nei modelli stereotipati di una società
costruitasi nel tempo e nello spazio, progressivamente dimenticandoci della
propria natura e calcificando e pietrificando odio nei propri ruoli, per
arrivare a dimenticarsi anche degli obbiettivi, difendendo le proprie posizioni
senza pensare più alla realtà al di fuori della mentalità standard del partito
o della propria condizione - privilegiata, da un lato e scomoda dall’altro - di
difendere coi denti la proprietà, senza accettare critiche o variazioni, ma
solo difendendoci e attaccando, esattamente come facevano e fanno gli animali,
nella foresta, gli uomini primitivi.
Però noi siamo
uomini, invece, adesso più civilizzati di prima, almeno in teoria, abbiamo la
nostra libertà - seppur relativa - a disposizione di tutti, o quasi.
Ecco che la
pratica la dobbiamo sviluppare personalmente, ognuno in maniera diversa,
evitando ogni tipo di schiavitù.
Cominciando da
noi stessi, prima di tutto dobbiamo capire come siamo fatti noi, ognuno deve
farsi un esame di coscienza regolare e cercare di non ingannarsi nelle
risposte, perché rappresenteranno la base del nostro cammino futuro.”
Indio Velho si era scaldato più del normale, aveva alzato la voce, aveva
accelerato il ritmo delle frasi.
Lo guardai incuriosito e cercai di infilarmi in quella fessura, in
quel punto debole, perciò, di approfittarne, domandandogli subito in maniera
leggermente provocatoria:
“Che cosa vuoi dire, che secondo te non vale la pena di fare attività
politica? Che
nemmeno i sindacati servono a niente?”
“No, al
contrario, molte cose sono migliorate grazie agli scioperi e ai sindacati,
all’esistenza di un’opposizione che controbilanciasse un potere che non deve
mai diventare assoluto, sennò sono guai per tutti.”
“Qual è allora
il tuo pensiero? Non ci ho capito niente.”
“Aspetta, non
sono ancora arrivato al punto principale… però, rispetto all’attività politica
e a quando facevo il sindacalista in Italia, quello che volevo dire era questo:
in genere i ruoli diventano stereotipati, nessuno fa quello che dovrebbe essere
fatto, si è legati al personaggio e si fanatizza in maniera perlopiù fanatica,
con le mani legati da un lato e l’etica del partito dall’altra, senza mai
uscire dai binari, si andava avanti come un treno, senza decidere né come né
dove, in mano a meccanismi che non si capivano, ma si correva come matti.
Ecco, per
questo ho messo metaforicamente in parallelo i due ruoli del politico di
sinistra e dell’industriale di destra, tutti e due non escono mai dal loro
ruolo e si portano avanti lotte standard con proteste e contro-proteste su un
sistema binario che non ha mai variazioni significative.
Quando mi sono
reso conto di questo aspetto ho abbandonato la politica, e l’idea di cambiare
il mondo, è troppo dannatamente difficile spostare un sassolino, dentro a un
sistema di sistemi, in modo che abbia una qualsiasi importanza, in compenso è
molto più facile riuscire a frustrare e a rovinare di conseguenza la propria
vita.
E noi di vite
non ne abbiamo due o tre, io alla reincarnazione, non ci credo.”
“Sì, ora ti ho
capito, ma il punto principale qual’era?”
“Ah, secondo me
il nodo grande è questo: nella natura i pesci grossi mangiano quelli piccoli,
la legge del più forte esiste, da sempre, è crudele e spietata, quello che vuoi
tu, ma fa parte della natura.
Il comunismo
predicava: pesci tutti uguali nello
stagno, ma alcuni pesci erano più uguali degli altri, quelli che dedicavano
la loro vita al partito, non tanto per il bene del popolo, come dicevano, ma
per il loro tornaconto personale. Denaro potere e sesso, è chiaro finivano per
essere di nuovo pesci grandi, un nuovo tipo di pescioni, capitalisti anche
loro, mangiando i pesci piccoli, giurando che era per il loro bene.
Esistono
animali erbivori e altri onnivori, i carnivori sono i più pericolosi, l’uomo è un animale progredito, ma è sempre
un animale. Nella società moderna cambiano i metodi, la mentalità è più
complessa e in costante evoluzione, ma esistono vari tipi di persone e alcune
non si accontentano, altre sì, alcune vogliono una vita tranquilla, altre
invece hanno bisogno di emozioni violente.
Certo, gli
animali uccidono solo per necessità, l’uomo ha sviluppato molto di più questo
lato, perché soprattutto dopo la rivoluzione industriale ha iniziato, come
fenomeno di massa, a immagazzinare ricchezza, a pensare al domani, lavorando
oggi per prevenire i tempi duri.”
“Facendo i suoi
tempi attuali indurire, per qualcosa che domani forse non avverrà mai,
economizzando un’esagerazione per quello che poi, nel futuro, non avrà mai
luogo.”
“Anche, anche. Ma l’industriale è convinto che
può mantenere il suo stato di privilegio, conquistato duramente, solo
sfruttando il lavoro altrui, estraendo il suo bastardo plusvalore, mettendosi
sotto i piedi tutto e tutti, per lui è necessario come per il Tirannosauro
sgozzare la sua vittima ogni giorno, sennò muore di fame, o almeno è quello che
crede, questo è ciò che hanno in comune, hanno bisogno del sangue altrui.
Io non dico che
bisogna sottomettercisi, al contrario, ma che ognuno ha il suo ruolo ed è
proprio questo che ogni uomo deve scoprire, prima di tutto.
Esistono uomini
pacifici e altri aggressivi, come gli erbivori e i carnivori degli animali,
secondo me l’onnivoro avrà sempre una vita migliore, perché saprà riconoscere
il pericolo da che parte viene e non dovrà pensarci più di tanto e vivrà di
conseguenza, divertendosi abbastanza, se mancherà la verdura mangerà anche la
carne e il pesce, metaforicamente, insomma si adatterà meglio a ogni condizione
di vita e ai cambiamenti costanti, ma irregolari e discontinui che la vita gli
impone.
Questo per dire
che gli uomini non sono né cattivi né buoni, ma semplicemente grandi e piccoli,
aggressivi e pacifici, eccetera eccetera.
È sempre e
comunque una questione di sopravvivenza, in teoria, o di economia, in pratica,
ma i risultati sono più o meno quelli dei tempi passati, come tra gli animali,
anche per noi è cambiato poco, i metodi si sono trasformati progressivamente, a
volte anche improvvisamente, ma ora c’è più stress, perché ora il pericolo è
più difficile capire da che parte viene, come si manifesterà, e c’è più ansia,
perciò.
Una volta, non
troppo tempo fa, si cacciava per mangiare o si era cacciati per essere
mangiati, si scappava dal predatore o s’inseguiva la preda, non esistevano
altre possibilità, non c’era da lambiccarsi troppo il cervello.
Ora no, ora le
maniere in cui le cose possono andare storte sono moltissime e quando uno sta
troppo attento a tutto quello che gli può succedere vive una vita che non vale
la pena…”
“Aspetta un po’, sennò me lo dimentico: tu hai detto poco fa, che
tutto è una questione di economia. Io non sono completamente d’accordo. E il
potere? Dove lo metti il potere? Non credi che tanta gente sia ammalata di sete
di potere?”
“Certo, il
potere. Ne abbiamo parlato anche prima. Anche
quello è antico, mi pare che, quando qualcuno alza la testa, già gli vengono automaticamente
manie di potere.
Magari è vero che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, ma
era meglio se non lo diceva a nessuno.
E poi, per me, è più facile che invece sia successo il contrario, è
l’uomo che si è costruito un Dio nel cervello, a sua immagine e somiglianza.
Quello è nato appena ci si è creata l’idea dell’essere superiore, è un
istinto di imitazione, tanto infantile quanto innato, purtroppo dannoso e in
nome del quale tutto passa in secondo piano, è una malattia, fa parte dell’ordine
a volte apparentemente disordinato delle cose. Ma è un disegno a fantasia,
sebbene complesso ha la sua logica.”
“Allora dobbiamo accettare tutto pacificamente, no? Certo, basta
risolvere nel cervello tutto questo e ci siamo conquistati la pace? Vorresti
lasciar governare il mondo dalle multinazionali?”
“No, prima, infatti, parlandoti dei Tirannosauri, volevo dire che la
multinazionale è come un enorme Tirannosauro moderno fatto di macchine e gente,
che per il proprio lucro sacrifica ogni cosa altrui, ma indirettamente anche
sua… provoca ogni genere di danno, all’economia e all’ecologia, insomma alla
qualità di vita di più paesi, in generale.
La loro tattica è esternalizzare i costi, produrre a basso costo e
vendere a prezzi competitivi… o meglio, a prezzi che strangolano senza pietà le
piccole fabbriche, i piccoli commercianti.
Quando vogliono fargli pagare qualcosa che loro non hanno intenzione
di pagare, rispondono con frasi fatte, perché non si tratta più di persone, ma
di macchine di lucro, di mostri senza testa.
Per esempio, a Porto Alegre si tentò di negoziare, insomma, di
trattare questi esagerati costi esternalizzati alla comunità di Guaiba e
“Non potete farci carico di questi costi, sennò i nostri prezzi non
saranno più competitivi…”
E detto fatto, rotta la
trattativa, se ne andarono a 3000 chilometri di distanza, nello stato di Bahia,
dove c’era più povertà e avrebbero accettato ogni tipo di condizione.
Dentro la multinazionale le persone cessano di comportarsi come tali e
si vendono l’anima, è l’unica maniera di sopravvivere nella tempesta dei
mercati globalizzati, il mondo è un mercato, solo i mostri carnivori
sopravvivono, gli onnivori vengono a scoprire metodi alternativi e vivacchiano,
gli erbivori spesso soccombono.
La multinazionale inquina la natura, abbassa i salari nella regione in
cui opera, diminuisce i prezzi della merce in maniera che l’impresa piccola
fallisce, in generale, nel mondo intero, obbliga le persone a comprare i
prodotti a un prezzo più basso, ma solo relativamente, pagando stipendi anche
più bassi, visto che il costo della manodopera è uno di quelli su cui può
giostrare, non importa se poi le persone che si scannano per lavorarci fanno la
fame e le condizioni di lavoro non sono sane. La multinazionale non ha
coscienza e le persone che ci lavorano anche non ne devono avere.”
“Che cosa proporresti allora?”
“Non lo so, che ne diresti di parlare di qualcos’altro?”
“Va bene… o magari potremmo anche stare in silenzio…”
“Come quando si ascolta il vento?”
“Sì, ecco,
ascoltiamo il vento.”
Quando IV si
stancava preferiva riposare, non voleva forzare, ecco cosa lo contraddistingueva
dagli altri, se non aveva più voglia, se non ne ricavava piacere, ecco che
smetteva, semplicemente.
Che cosa c’era di più naturale?
Se non resistevo
troppo ad ascoltare il vento, non provavo il gusto che avrei voluto, non sentivo
tutti gli odori e i segnali conseguenti che portava, il mio piacere era
guardare Indio Velho che lo faceva.
Alcuni giorni dopo, eravamo seduti su un gruppo di rocce, con il vento
sferzante e alcune nuvole che ogni tanto ci facevano rabbrividire, perché
tagliavano il cammino del sole in direzione dei nostri corpi.
Indio Velho parlava molto lentamente, lo punzecchiai su un argomento
del quale mi sarei potuto anche pentire: gli chiesi quale fosse, insomma, la
sua dannata filosofia di vita.
Lui ne rimase tutto soddisfatto, come mi aspettavo, anche perché
potenzialmente poteva sfoderare il suo concetto di base, del quale aveva un
orgoglio quasi infantile, ma non lo faceva, ci girava intorno, voleva testare
la mia capacità, la mia resistenza, forse mi voleva insegnare la sua arte di
essere paziente.
O forse aveva troppi argomenti, che si ingorgavano per trovare la via
della bocca
Intanto io diventavo sempre più nervoso.
Lo scambio d’idee e opinioni costruito nella fabbrica della vita
concreta è di per sé consiglio.
(Walther Benjamin)
Ada 2
Tutte queste cose le studiai, ma non le presi al volo,
entrarono nella mia testa a forza di spiegazioni di Odair, molte delle quali
per telefono, è vero, ma sempre con grande pazienza e determinazione.
All’inizio ci credevo poco, a giorni alterni pensavo di non farcela, ma poi mi entusiasmai
e in un secondo momento misi su anche un computerino usato e un’internet
modesta, ma la comunicazione con mio cugino era diventata continua e capillare.
Passarono dei mesi.
La prima cosa che notai è che la realtà era molto più
complessa di quello che pensavo prima, e che non necessariamente si risolveva tutto
coi soldi. Poi che sapevo esprimermi meglio, cioè approfittai delle parole e
della lettura, della ricerca di una verità più stabile, per poi applicarla
nella vita di tutti i giorni, nella comunicazione con la gente.
Dopo un po’ Oda volle che mi documentassi su cose più
specifiche del nostro mestiere, ma qui ero già operativo, con una decina di
sedute alla settimana.
Partiamo dagli inizi, di solito è meglio:
Ippocrate (
S.Basilio (450 d.C.) dà la prima definizione della
schizofrenia “Come il folle non vede le
cose reali, ma i fantasmi del suo cervello malato…”
1900 ca. Si
dimostra definitivamente che la pellagra (20% dei ricoverati in Ospedale
psichiatrico) è una avitaminosi.
1911. Durante
una epidemia di febbre gialla nell’isola di Hispaniola (Haiti) si riscontrano
straordinarie guarigioni nei ricoverati nel locale manicomio. Si introduce
quindi la malario-terapia.
1938. Cerletti
scopre l’elettroshock. 40% di risultati positivi nei trattamenti di depressione
maggiore e di schizofrenie catatoniche.
1945. Scoperta
della penicillina. I manicomi si svuotano dei degenti con psicosi organiche da
sifilide.
1950. Si scopre
che il coma insulinico può avere effetti più duraturi e più positivi
dell’elettro-shock.
1951. Un nuovo
farmaco teoricamente antitubercolotico
si dimostra di nessuna efficacia.
In compenso ha effetti calmanti e antidepressivi sui pazienti terminali
di tubercolosi. Nascono gli
psicofarmaci.
Per effetto degli psicofarmaci, dal 1955 al 1970 si
assiste in tutto il mondo alla drastica diminuzione dei pazienti ricoverati negli Ospedali psichiatrici.
Vediamo alcune tra le più diffuse terapie in uso:
Ad alta
influenza freudiana
Psicanalisi: se i
problemi vengono dall’infanzia sotto forma di impulsi repressi, si passa la
maggior parte della sessione parlando per mezzo di libere associazioni. Il
terapeuta parla poco e cerca di analizzare le parole e i sogni, senza emettere
un giudizio, è il modello più antico ma è stato modernizzato dagli studi di
Jacques Lacan (1901 - 1981).
Psicanalisi Junghiana, o psicoterapia analitica: Carl Jung,
discepolo di Freud, introdusse nell’analisi il concetto di incosciente
collettivo , immagini ed esperienze comuni a tutto il genere umano. Il metodo
Junghiano considera, oltre le questioni individuali del paziente, le influenze
esterne e collettive che possono tormentarlo.
Psicodinamica, o psicoanalisi light(leggera): si basa
sulle nozioni tradizionali della psicanalisi, solo che è più breve, il
terapeuta cerca di coinvolgere attivamente il paziente in un dialogo che gli
faccia riconoscere e risolvere antichi conflitti. È anche più mirata a
raggiungere obiettivi concreti prestabiliti tra paziente e terapeuta.
Media influenza freudiana
Gestalt: si
usano il teatro e altre forme di espressione artistica, sfrutta tecniche
drammaturgiche per costruire pensieri e attitudini creative. Con blocchi di
gommapiuma, pupazzi o cuscini, il paziente è incoraggiato ad adottare nuovi
ruoli e a esprimere sentimenti, con l’obiettivo di capirli meglio.
Terapia
di gruppo: sfrutta altre correnti, ma è praticata in gruppo: il convivio con
gli altri pazienti funziona come un microcosmo sociale, un ambiente sicuro per
un nuovo comportamento. È indicata per chi soffre di problemi comuni del suo
ambiente e ha difficoltà nelle relazioni con gli altri
Interpersonale: raccomandata a
chi soffre di lieve depressione legata ai conflitti personali, lutto o
cambiamento di ruolo (matrimonio o nuovo incarico professionale). Il tempo
della terapia è predeterminato e le sessioni si concentrano sul tempo presente,
senza legare le esperienze attuali al passato.
Centrata sulla persona: si concentra
sulla relazione tra paziente e terapeuta senza interpretare pensieri e
comportamenti, il terapeuta crea un clima di empatia che permette al paziente
di esplorare questioni che lo disturbano e di sviluppare autostima, perciò è
indicato per chi si sente oppresso dal mondo e ha una bassa accettazione di se
stesso.
Bassa
influenza freudiana
Terapia
Comportamentale: indicata per chi soffre di reazioni indesiderate del
corpo per manie e fobie (come paura dei ragni, paura di volare ecc.) Si
utilizzano tecniche fondamentali tipo esposizione e condizionamento, nel
tentativo di cambiare il comportamento usuale con reazioni più gradevoli.
Secondo i critici è una specie di addestramento del paziente.
Terapia Cognitiva: basata sull’idea
che ci disturba di più la nostra visione delle cose, che le cose stesse,
secondo il pensatore romano Epiteto (60 – 117). Il terapeuta cerca di alterare
i modelli di pensiero che disturbano il paziente insegnandogli a controllare le
idee automatiche e a correggerle. Indicata per chi soffre di depressione e deve
cambiare quello che pensa di se stesso.
Terapia Cognitiva Comportamentale (TCC):
utilizza le due precedenti tecniche affinché il paziente identifichi pensieri e
convinzioni distorte di se stesso. L’idea è far percepire al paziente i suoi
pensieri e correggerli, generando nuovi modelli di ragionamento. Indicata per
chi soffre di depressione, ansia e disturbi per causa di traumi.
Oggi vi è un numero
notevole di molecole, a effetti più o meno marcati, che hanno permesso di
ridurre moltissimo (dall’80% al 20%) l’elevata mortalità delle depressioni
maggiori. Esistono farmaci calmanti e antidepressivi di molti tipi.
Limitato è purtroppo ancora il numero dei
neurolettici, dei farmaci cioè che hanno effetto sui deliri e sulle
allucinazioni schizofreniche.
Limitata è la
possibilità di azione sulle caratteristiche negative della schizofrenia:
apatia, aridità affettiva, autismo. Inoltre sono sempre importanti gli effetti
secondari e spiacevoli dei neurolettici.
Democrazia è quando io comando te, dittatura è quando tu comandi me
(Millôr
Fernandes)
IV 2
La mia personale filosofia fu deformata e poi modificata dal pensiero
di IV, in quei mesi, non glielo dissi mai, ma lui certo lo sapeva.
Quando partiva a tutto gas dalla filosofia in generale, sebbene non ce
ne fosse nessun bisogno, forse lo faceva solo per me, non per insegnarmi cose
che sapevo già, ma per temprare i miei nervi.
“Essere un filosofo significa credere a qualcosa e applicarlo, nel
mondo ci sono tante variazioni, tante apparenti o effettive opzioni, ma la
gente non sceglie quasi mai la sua strada, si prende strade già pronte,
prefabbricate.
La gente dice cose a cui non crede completamente, udite da altre
persone, pensa in una maniera, parla in un’altra e agisce in una terza ancora.”
“E tu, invece?”
Cercavo d’incalzarlo.
“Io sono uno
scettico tranquillo, lo sai, dopo averne attraversate tante, di strade, ho
visto che quelle che portano ai dogmi non m’interessano, i grandi filosofi sono
stati quasi tutti dogmatici… secondo me erano gente geniale, non dico di no, ma
con i piedi lontani dalla terra, io no, io cerco di essere più pratico, non
pretendo di risolvere tutto subito, lascio gli interrogativi aperti, se non
riesco ad arrivare alla risposta, non m’invento delle storie suggestive, delle
dimostrazioni forzate, aspetto di vedere la soluzione in seguito, col correre
del tempo e della mia esperienza.
Non ho paura di dire non lo so,
anzi mi pare una dimostrazione di attaccamento alla realtà, giacché non si può
sapere tutto.
Quello che conta è che non forzo il mio ambiente a darmi quello che
non può, non cerco cose assolute e definitive, perché per me non hanno troppa
importanza, se tutto si muove ed è in costante evoluzione, perché perdere tempo
con statue di verità formale che forse non erano vere nemmeno ieri, già che
stanno attraversando l’oggi e diventando un altra cosa ancora nel domani?”
Aveva detto tante cose, ma non aveva detto ancora niente, che cosa
diavolo significava essere uno Scettico Tranquillo?
Secondo me non ce n’era bisogno di buttarsi in quelle lunghe
spiegazioni delle filosofie greche, tra cui il mito della caverna di Platone. Quando
partiva per questi viaggi, però, nella storia della filosofia, non c’era
maniera di fermarlo, ci avevo già provato, ma non serviva a niente, allora io
mi mettevo a cercare le zecche nel pelo folto del cane.
Tra le altre cose, Indio Velho mi aveva insegnato a infilarle dentro a
un barattolino con un forte detersivo per tappeti, là morivano narcotizzate e
non potevano spargere uova in giro, come facevano se uccise schiacciandole col
piede o un sasso.
Anche quella era una dimostrazione della legge del più forte, mi aveva
spiegato a suo tempo, la pietà era un’altra cosa, da usarsi, magari, con chi
non ci succhiava il sangue.
Il sentimentalismo, in sé, era una specie di autocommiserazione,
secondo lui gli italiani erano troppo sentimentali e questo li fregava sistematicamente,
io non ne conoscevo nessuno e non potevo dire niente.
Dopo qualche mezz’ora di racconti e di storie, di filosofie legate e
slegate, moderne e antiche, eravamo arrivati forse e finalmente alla
definizione della sua: perché Indio Velho era un cazzo di Scettico Tranquillo?
Manco per niente: se ne scappò di nuovo da un’altra parte, magari
limitrofa, adiacente se non consecutiva e complementare, ma non quella che io
volevo, vedendo che cercavo le zecche del cane, ecco che prese una ramificazione
a caso ma non troppo del suo frondosissimo pensiero e la seguì:
“Il difficile nel mondo è il non alterare l’equilibrio della natura,
perché la natura quando s’arrabbia non le si può più domandare scusa, spesso è
troppo tardi.
L’attenzione che dobbiamo dedicargli è una cosa delicata, ma è
estremamente naturale, non uccidere nemmeno una formica, quando possiamo
evitarlo e non usare la violenza se non è necessario e soprattutto se è
dannoso.
Rispettare
animali e alberi e perfino le pietre, amarne la purezza, come rappresentanti
molto più semplici e nobili di noi esseri umani, ecco che ci fa essere
migliori.
La vedi questa
pietra qui, dove sono seduto? Non so niente della sua storia, ne deve aver
viste e sentite di cose, a volte è anche troppo dura con il mio sedere, che non
se lo merita e allora io ci potrei anche litigare, ma altre volte mi fa da
poltrona in maniera egregia, ecco, pensa quello che vuoi, ma io ci sono
affezionato, la rispetto e ne sentirei la mancanza, se non ci fosse.
Non si muove da lì da millenni, non dice niente, non puzza e non
profuma, eppure…
Dare il valore giusto ai vari elementi significa non essere rigidi,
statici, ma sempre in costante movimento, ogni cambiamento di posizione, di
punto di vista, è necessario per accompagnare una realtà che non è mai stata
ferma, non lo è ora e non lo sarà mai.
Come diceva Kant la nostra idea delle cose le modifica dentro di noi,
ma la cosa è reciproca, perché loro, le cose, intese come tutto, in generale,
ci influenzano anche dal fuori.
È, cioè, un processo di andata e ritorno continuo, l’unica maniera per
poterne usufruire con continuità e soddisfazione è l’elasticità, che è grande
nemica dell’assoluto, almeno apparentemente, secondo la concezione umana.
Kierkegaard risolveva tutto dicendo “Non si può realmente sapere, ma solo aver fede”, io sono
parzialmente con lui, ma quell’aver fede è un poco delegare la nostra propria
responsabilità a qualcun’altro o a qualcos’altro, che potrebbe essere
indifferentemente: un dio qualsiasi, magari inventato da un leader spirituale,
un boss mafioso e un conseguente grasso e apparentemente pratico conto in banca
garantito da un lavoro materialmente e moralmente sporco, ma chi se ne frega?
È vero, però, lateralmente, che non si può realmente sapere, gli
interrogativi sono troppi e non sempre possiamo rispondergli, ma quello che
dovremmo fare noi, secondo le mie esperienze passate, è un poco provare a noi
stessi tutto quello che succede, anche attraverso le discussioni con gli altri,
ma partendo da un dialogo interno, che ci stimoli a metterci anche in dubbio e
perciò ci dia costantemente, anche se a volte faticosamente, una posizione
nello spazio e nel tempo, cioè ci faccia capire chi siamo e cosa stiamo facendo
al mondo.
Allo stesso tempo dobbiamo accettare che la nostra sete di verità non
sempre sarà saziata, non dobbiamo rinunziare, ma non possiamo nemmeno credere
che tutto si possa regolare al momento, che si debba dare un corso a tutto, per
arrivare ogni giorno a qualcosa di nuovo, perché è una capacità che non abbiamo,
noi, come non ce l’ha nessuno.
Dobbiamo invece mantenere l’attenzione costante, magari alle risposte,
anche arrivate in ritardo, di domande fatte nel passato, o alle novità assolute
passate di fronte a noi all’improvviso, se ci facciamo attenzione queste cose
ci accadono continuamente, ma di solito, purtroppo, noi siamo troppo distratti
per accorgercene…”
Rinunciando su suo recente insegnamento all’insistenza su un unico
punto, non gli rinnovai la domanda che avevo ancora dentro di me, no, anche se
con difficoltà, pazientavo.
Il suo ultimo suo ragionamento mi era parso logico, ma difficilmente
attuabile, allora domandai a IV:
“Come facciamo a fare attenzione a tutte queste cose, se dobbiamo
lavorare, tirare su una famiglia, confrontarci tutti i giorni con i cimenti
quotidiani della nostra vita nel mezzo degli altri, una vita che diventa sempre
più rapida e complessa?”
Indio Velho sorrise, forse contento che avessi lasciato perdere la sua
filosofia personale e allo stesso tempo individuato il punto essenziale del
discorso:
“Ti posso dare due risposte, entrambe sono verosimili, ma sono estreme
e la verità è una media tra le due, che tu potrai fare, non oggi né domani, ma
nel correre del tempo: la prima è quella che mi viene più naturale, per la
scelta che ho fatto, ma questo non significa che io non mi renda conto delle
difficoltà che si trovano là sotto, tra i Valligiani e i Collinari, per cercare
un equilibrio.
La mia prima
risposta è che non si può e proprio per questo io me ne sono uscito e
sono venuto qui, a fare il Montanaro.
La seconda
risposta, più aperta e flessibile, meno assoluta, è che dentro la vostra realtà
di lavoro di tutti i giorni voi potete scegliervi una strada poco battuta, che
è quella di seguire il vostro cuore.
È la scelta più difficile eppure è la migliore.
Non fare come gli altri è difficile, certo, almeno all’inizio, ma poi
scivola meglio, è indispensabile saper separare, distinguere, ragionare su
tutto quello che succede e può succedere, vivendo insieme a tanta gente tutto è
più complicato, ma ragionare col proprio cervello, agire secondo il nostro
pensiero e dire cosa pensiamo veramente, per quanto apparentemente la strada
più faticosa, è la meno stancante, perché andiamo dietro a noi stessi e non
agli altri e non ci sentiamo stressati, perché facciamo, in fondo, quello che è
naturale, anche se tutti intorno si sono dimenticati di come è, e in più,
grazie a noi, tanti ritroveranno questo anello di congiunzione con se stessi.
È inutile parlare e dire cose importanti, se poi nella vita agiamo in
maniera differente da quello che diciamo, quello che conta sono i fatti e la
gente ci vede e confronta le nostre idee con quello che facciamo. Se facciamo
come loro non gli pare strano, in fondo è ciò che vedono e sentono tutti i
giorni, ma se invece la nostra armonia è maggiore, se siamo più compatti,
vedono e sentono la differenza e inevitabilmente gli piace, ma questa non è la
nostra unica prospettiva, quella di piacere agli altri, il nostro fine è piuttosto
quello di stare bene, anche piacere agli altri è importante, certo, ma dobbiamo
anche farci piacere gli altri e quello è più difficile, che è possibile, anche
se sono diversi da noi.
Quello che è profondamente sbagliato, nella tendenza umana
occidentale, è di voler parere tutti uguali, mentre dal dentro le persone
vogliono affermare la loro individualità e non sanno come.
Questo provoca una grande frustrazione.
Hai visto gli adolescenti come vogliono vestirsi in maniera originale
e invece seguono sempre e solo le mode?
Si stanno aprendo al mondo, cercano di affermarsi, di capire chi sono
e di impressionare gli altri, poi finiscono per fare esattamente quello che
tutti si aspettano, e se non lo facessero sarebbero guai. La gente ama
l’originalità, ma solo dopo che si sia affermata, prima, invece, qualsiasi cosa
è sbagliata, perché è nuova, non è conosciuta, perciò può essere solo un
errore.
In seguito le loro ali - quelle dei giovani - verranno immobilizzate,
fasciate da una realtà molto differente da quello che avevano immaginato e
finiranno per vivere come formichine casa e lavoro e lavoro e casa, il mondo ha
tarpato i loro sogni in pochi anni e li ha standardizzati.
Forse questo è necessario, forse sono solo fasi, caratteristiche delle
varie età, ma quello che conta, poi è riuscire, presto o tardi, ad avere una
meccanica di vita che funzioni e per funzionare deve dare all’individuo
soddisfazione, prima di tutto dal punto di vista del divertimento, non c’è cosa
peggiore della noia. O forse sì, peggio ancora di annoiarsi c’è il fingere di
divertirsi, ma sono due cose che vanno bene insieme, le vediamo ogni giorno
nella gente che ci circonda, in tutta questa indifferenza che c’è in giro.
Hanno perso l’anima? Dirai te. No, hanno scelto di farne senza, e come
hanno fatto a scegliere? Non sono stati dei singoli ma è un movimento
collettivo, in fondo l’anima è un’invenzione dei borghesi, ne avevano bisogno
per affermarsi, perché stavano cominciando a esistere in un mondo in cui la
classe media era una novità.
Il successo diverte, certo, affascina, ma spesso schiavizza, pochi
hanno l’umiltà di scegliere e poi di realizzare sogni semplici eppure
costruttivi, tante cose distraggono dal punto focale, dal baricentro del
ragionamento necessario, gli esseri umani.
Uno di questi è
il sesso, ma il denaro e il potere sono altri, sono collegati e intrecciati, ma
il nostro riferimento deve sempre essere la natura, invece. Ed è esattamente il
contrario di quello che sta succedendo…”
Per la visita
seguente, già durante la ripida salita, mi ero preparato a mantenere IV sul
punto, a non farlo fuggire e a farmi spiegare finalmente e definitivamente cosa
significasse essere uno Scettico Tranquillo. Ero uscito presto, perché tutte le
volte, quando lui sembrava al punto di rivelare la regola fondamentale, era
tardi e non aveva più voglia di parlarmene o io me ne dovevo tornare a casa.
Lo trovai
sdraiato sotto il sole, trascorremmo i nostri primi minuti insieme senza
parlare.
Argo stava
pascolando, appariva e scompariva, cercando odori, tracce e relativi animaletti
di appartenenza, i quali non sempre ne erano divertiti e in alcuni disgraziati
casi, venivano addirittura spiaccicati senza che lui ne avesse alcuna
intenzione, magari per il bene della scienza canina, testandone - per esempio -
la consistenza con le robuste zampe.
IV mi guardò
per un po’ alla sua maniera. A volte mi pareva che fissasse lo sguardo su un
oggetto o una persona, senza realmente vederla, ma andando oltre. Poi finalmente
partì con quello che volevo e aspettavo da giorni:
“Ma te l’ho già
detto varie volte cos’è uno Scettico Tranquillo, lo scettico tranquillo è uno
come te, che non crede a tutto quello che gli dicono e non ha nessuna fede
fissa, uno che non ha bisogno di piattaforme di regole fatte da altri, ma
semplicemente vive in maniera empirica, provandosi tutti i giorni la propria
capacità in modo pratico e cercando di imparare cose nuove.
È scettico perché non usa mai, senza filtrarlo, un consiglio dato da
un altro, è tranquillo perché non ha bisogno di risposte immediate.”
In genere, nella mia vita, e in particolare in quel determinato
momento, mi sentivo assai poco tranquillo, anzi, al contrario, piuttosto
ansioso di risposte urgenti.
Ero scettico, sì, ma principalmente per quanto riguardava la mia
capacità di usare il suo consiglio di portare
pazienza.
“Io sono Scettico, con
Ecco un esempio: in Brasile la filosofia e i filosofi sono scarsi,
tutto è abbastanza materiale, per motivi storici e geografici che ora, per
mancanza di tempo, magari lasciamo perdere.”
Visto che io
non ribadivo, i motivi venivano per il momento lasciati di lato e IV continuava
la sua arringa:
“Ma la
filosofia s’insegna a scuola e all’università, una materia come un’altra, ci si
confonde facilmente, tra gli stessi specialisti, tra l’essere professore di
filosofia e l’essere filosofo, addirittura!! Che sono due persone che
potrebbero anche coincidere in una, ma non lo sono quasi mai. Il professore
pensa una cosa, ne dice un’altra e ne fa un’altra ancora. Il filosofo non può,
lui, almeno lui, se mi permetti, deve pensare, dire e fare la stessa identica
cosa, sennò perde la sua identità speciale, la sua credibilità eccetera.
Ora, come
abbiamo detto la filosofia qua è insegnata male, da cattivi professori, come
spesso in tutto il mondo moderno, professori che non sono filosofi e che
contraddicono il loro pensiero con la loro azione.
Bada bene che la mia presunzione di essere un filosofo è basata solo
sul fatto che penso, dico e faccio quasi la stessa serie di cose.
Ci riesco poco ma meglio di tanti altri e questo già non è facile, ma
è importante, e bisogna rinunciare a tante cose, alle comodità per esempio, e
ad altre che non sto qui a elencarti.
Sono Tranquillo, perché la mia filosofia mi permette di incastonare il
tutto al suo dovuto posto, di capire come funziona il mondo e come ha
funzionato fino a questo momento, certo, tutto abbastanza approssimativamente.
Ciò non significa che domani un gruppo di giovinastri non possa venire
qui ad appiccarmi il fuoco e a tramutarmi in una torcia umana, solo per farsi
quattro risate.
So che sono indifeso, ma ne ho coscienza e non sto a perdermi dietro
polizze di assicurazione e a mettere denaro da parte per il futuro, perché,
sebbene sia quello che tutti fanno, per me è pazzia pura.”
“Anche perché non hai un soldo.”
“Certo, ma anche quando ne avevo non mi sono mai perso dietro a queste
cose, perché cercare di controllare il futuro partendo da ora, è solo una
trovata di marketing, le assicurazioni sono nate per guadagnare soldi, non per
proteggere le persone, loro cercano di non pagare i danni, e spesso ci riescono
anche.
E poi il mondo è burlone e ti farà facilmente succedere una delle
tante cose non previste dalla polizza, lo sai meglio di me.
Ma dicevo che sono Tranquillo perché, questa mancanza della totalità
delle risposte, che tanto fa soffrire l’uomo, non significa per niente
l’inutilità delle mie domande, io sono disposto a pazientare e anche a
dibattere i temi polemici con chiunque, anche ad ammettere di aver torto, per
me proprio questo è un punto di arrivo migliore che quello di aver ragione,
perché ammettendo di aver torto io capisco qualcosa d’importante e questo può
rivoluzionare la mia vita, avvicinarmi un po’ di più alla verità, insomma: che
ben venga.
Ciò non significa che in una discussione io non faccia appello a tutte
le mie forze dialettiche per difendere la mia tesi.”
Rimasi un po’ in silenzio a pensare, IV stava accarezzando Argo e il
vento fischiava un’armonia sommessa, sul ronzio di insetti tra cui api sui
fiori e pio-pio di uccelli sul pino solitario, lì vicino, a una ventina di
metri, che ci faceva un’ombra enorme perché allungata dalla posizione del sole
e dal pendio della collina.
Trovavo tutto giusto, quello che aveva detto e forse avevo anche
capito, finalmente, cosa voleva dire con la definizione della sua filosofia. Però
c’era qualcosa che non avevo capito bene, tra le sue ultime frasi e glielo chiesi:
“Aspetta un po’: hai forse rinunciato ad amare una donna, tra le rinunce
che mi hai detto prima, per le quali riesci, o quasi, a pensare, dire e fare la
stessa serie di cose?”
“No, non ho rinunciato ad amare una donna, in quella maniera fisica
che tu probabilmente intendi, anche se non mi capita quasi mai di poterlo fare.”
“Sì, ma ieri
hai detto che il sesso, come il potere e il denaro, è una distrazione…”
“Sì, non che lo
sia in generale, ma lo diventa, perché viene strumentalizzato nella propaganda
di articoli di consumo, forzato dalle mode del momento e dai mass-media, o
addirittura ci si rinuncia, perché è rischioso, ma in ogni caso ci si pensa
troppo… se fosse una cosa più naturale, come dovrebbe essere, sarebbe meglio,
sarebbe più bello.”
“Allora: vuoi per caso dire - con tutto questo
- che tu hai rinunciato al sesso?”
Il suo sorriso se
ne uscì fuori differente dal solito, mi parve profondo e triste.
“Questo è un punto dolente, non è che io abbia rinunciato al sesso
perché non mi piaccia, anzi, cosa c’è di più bello che fare all’amore?”
“E allora come fai?”
“Mi astengo. Anche se per me la donna è meravigliosa, è la purezza
della bellezza, hai visto che ho delle riviste pornografiche, che hanno per me
due funzioni, come ho già detto, quella della ammirazione della bellezza pura…”
“E la seconda?”
Pausa
imbarazzata.
“E anche
quell’altra.”Rispose alla fine.
Mi venne da
ridere a pensare a un filosofo qualsiasi che lavorava di mano dietro a un
cespuglio, anche se quel filosofo lì, in quel determinato momento della sua
vita, non aveva nessuna voglia di ridere, evitava addirittura di guardarmi in
faccia.
Allora gli
domandai ancora, incuriosito:
“Ma allora come
fai: senza-senza?”
“Beh, non è
proprio senza, sai… il mio sesso è autogeno, come ti stavo dicendo - e per
favore non fare quella faccia – perché semplicemente non trovo nessuna donna che mi
piaccia che sia disposta a farlo con me.”
“Ah.”
Rimanemmo in
pausa di nuovo, per pochi attimi in cui le nuvole coprirono il sole e di nuovo
lo lasciarono uscire.
Dopo mi parlò
di sesso e distrazione, di funzione distorta, di quanto avesse a che fare con
denaro e potere, (almeno nel mondo moderno, e invece non avrebbe proprio niente
da spartirci,) ma ero troppo distratto dalla sua precedente rivelazione, per
fare attenzione alle sue parole.
Pensavo piuttosto
che lui avesse rinunciato a tutte e tre le cose. Sesso, denaro e potere. E lui
me lo confermò, come se avesse letto nel mio pensiero:
“Se per avere
quel sesso che tanto mi piace, io devo rappresentare una porzione di successo
nella società, se devo essere uguale agli altri o più uguale ancora, perciò
migliore, secondo il concetto di regole
fatte dagli altri, e che io non accetto, che ti devo dire? Io ci rinuncio.”
Poi recitò come
se fosse una cosa seria:
“Se è per
denaro, non è amore, disse la prostituta.”
Ci ridemmo su.
Poi gli domandai:
“Ma mi dici una cosa? Una curiosità: ma quanti anni hai?”
“Settantadue…
pensavi di più o di meno?”
“Pensavo di
meno. Sembri più giovane.”
“Negli ultimi
anni sono stato bene, mi sono stressato poco o niente.”
“Ma da quanti
anni ti sei ritirato a… diciamo così: vita privata?”
“Una ventina.”
“E quando l’hai
fatto il sindacalista?”
“Subito prima,
è stato il mio punto di scoppio, da lì è cominciato il cambiamento.”
“Ah. E il coso
laggiù in basso ti funziona ancora?”
“Certo, il coso
funziona ancora bene e senza additivi moderni, poi il desiderio quello non
passa mai, anche per chi non riesce più a farlo alzare…”
Sorrisi e ci
fermammo di nuovo a guardare le nuvolette.
Il mio silenzio
lo incoraggiava a parlare ancora, a rivelarmi a pieno quella sua parte nascosta:
“Non è che
negli ultimi anni io non avessi mai fatto sesso, qualche volta mi era capitato,
ma l’amore non c’era, sono esperienze che svuotano gli organi e stappano le
orecchie, tirano le ragnatele, ma sono un po’ vuote, se non c’è niente che le
accompagna; e poi vivendo quassù, non frequentando né la bassa, né l’alta
società… lo sai da te, le occasioni non sono molte e allora l’attività manuale
offre due vantaggi in uno.”
Lo guardai in maniera interrogativa, lui mi riguardò in maniera a suo
modo significativa e disse:
“La prima funzione è quella puramente sostitutiva, l’altra è per la
buona manutenzione della prostata.”
Un mio amico medico poi mi confermò che il mancato uso dello sperma fa
peggiorare negli adulti lo stato della prostata, pare che la manutenzione dell’organo
riproduttivo funzionasse coi due tipi più comuni di sesso: autogeno e/o in collaborativa
compagnia.
Intanto io cominciai a preoccuparmi per la sua salute, avevo un gran
bisogno di avere qualcuno con cui conversare, come facevo con IV, mi ero assai
affezionato a lui. Allora, visto che lui a valle non scendeva per principio,
gli portai su un tipico Valligiano, Mariano Ruiz, il mio amico medico, e lo feci
visitare.
Mariano disse che era in perfetta salute, aggiunse però che una
prosperosa professionista a buon mercato, ogni tanto, sarebbe stata una
piacevole diversione, non solo per la sua prostata.
Finita la nostra risata, IV partì con una acuminata serie di teorie
concatenate, che Mariano, che se ne stava andando, si sedette e si mise ad
ascoltare.
Il mio amico medico, per quanto assai intelligente e sensibile, era
proprio uno di quelli che nella vita aveva scelto poco, era partito che si
trovava già dentro al tunnel, per lui denaro, potere e sesso erano essenziali, era
un formidabile e fottuto materialista.
Proprio ultimamente, però, aveva ammesso che la competitività del
mondo occidentale era un rincorrersi la coda senza senso, poi uno si rendeva
conto, alle soglie della vecchiaia, che aveva girato e rigirato, ma solo su se
stesso: non si era mai mosso dal posto.
IV diventò suo paziente e Mario accettò di essere suo discepolo, in
cambio un po’ di spiritualità lo aiutava a proteggere materialmente il suo
vecchio corpo. Anche se, per questo vecchio, piccolo e grande filosofo
contemporaneo, il problema del sesso rimaneva ancora irrisolto.
Non c'è
virtù così grande che possa essere al sicuro dalla tentazione.
(Immanuel Kant)
Ada 3
Dopo tre mesi e venti
giorni di tirocinio Oda lo mise alla prova: una prima seduta con un cliente
nuovo, un commerciante di Barra da Tijuca al quale Oda era stato raccomandato
da un amico che era un cliente o paziente abituale da più di un anno.
L’uomo era grasso e
nervoso, accendeva una sigaretta dopo l’altra, la nuova a quella che stava
terminando, si guardava intorno diffidente, con la fronte corrugata, gli
occhietti maialeschi cercando il pericolo negli angoli della stamberga di Oda.
“Si sieda, accetta un tè,
o meglio una cachaça? Va bene. Torno
subito.”
Ada si sentiva agitato ma
stranamente anche abbastanza preparato, si bevve anche lui una cachaça, ma in
cucina, non davanti al cliente. Cercò di muoversi armoniosamente, Oda gli aveva
insegnato che l’intenzione si esprimeva con i gesti, anche nel camminare, nel
porgere gli oggetti, soprattutto nella maniera di guardare. Meglio non guardare
troppo un cliente nervoso alla prima seduta, prima si doveva stabilire un
contatto rassicurante, guadagnare la sua fiducia, se si sentiva troppo osservato
lui si sarebbe sentito studiato, in un certo senso ancora braccato dal mondo
attorno di cui aveva perso il controllo. No, no, bisognava prima di tutto farlo
sentire a suo agio.
Ada pensò che fargli fare
la respirazione corretta, in quel momento era sbagliato, anzi tirò fuori anche lui
una sigaretta e si mise a fumare. Da fuori dalla finestra aperta, alle spalle
dell’uomo grasso, Oda confermava con bandierina verde quando le cose andavano
bene, rossa quando doveva fare particolare attenzione, gialla quando c’era
bisogno di più energia e convinzione. Dopo qualche tirata, iniziò a bere
cachaça con quell’uomo che gli sembrava già meno stressato, cominciarono a
parlare del più o del meno, l’argomento del calcio funzionava sempre. Si chiamava
Pedrinho ed era tifoso del Flamengo, Ada invece era del Vasco Da Gama ma naturalmente
finse di essere anche lui Flamenghista. Dopo pochi minuti, Ada sentì che la
fase di rottura del ghiaccio si era conclusa e bene, accese allora il
registratore, che era il suo segnale convenzionale d’inizio della vera e
propria seduta, la musica che aveva scelto era brasiliana, strumentale e calma,
uno chorinho. Là fuori Oda sbandierava e approvava vorticosamente. Ada sorrise sollevato e disse,
stavolta guardando negli occhi Seu
Pedrinho:
“Spegniamo le sigarette,
ora. Segua questa musica, per favore, respiriamo insieme lentamente e mi dica,
con tutta la calma necessaria, cosa c’è di positivo in quello che sta
vivendo...”
“Niente, niente di
positivo tutto sbagliato... è solo stress, la mia vita è una confusione... sarà
difficile rimetterla in sesto! Glielo dico subito.”
“Non ci credo, qualcosa
di positivo ci deve essere, mi dica una cosa che le piace, una cosa sola...”
L’emozione forte era
svanita quando aveva visto che il cliente era più nervoso di lui, dopo un poco
si accorse di averlo messo a suo agio, che conversava tranquillamente con lui.
Il copione di una seduta era più o meno sempre lo stesso, il cliente poteva
cambiarlo con le sue domande, che Ada era stato allenato a rispondere con
semplicità e profondità, i problemi delle persone erano quasi sempre gli stessi,
anche se mischiati, camuffati. Il brasiliano simulava e dissimulava molto bene,
faceva parte della sua storia, del suo DNA. L’importante era capire di che tipo
di persona si trattava, per dargli il modello di attenzione che più si adattava
al suo carattere. L’attenzione era essenziale e poi si doveva cominciare molto
lentamente a insegnargli ad avere un dialogo interno, un piccolo passo alla
volta, non era facile ma fondamentale.
Dopo le cose positive,
quelle negative, dopo l’ordine e i commenti, i consigli nel finale, le lezioni
pratiche di Oda non fallivano, perché Oda non lasciava più niente al caso, sapeva
che avrebbe potuto essere molto dannoso alla persona con la quale stavano
cercando di stabilire una collaborazione, per poter scoprire e combattere i
suoi difetti di forma e contenuto, per costruire insieme una linea di azione
pratica ed efficace.
Il commerciante uscì
tranquillizzato, avevano già fissato il prossimo appuntamento a casa di
Pedrinho, durante il pomeriggio, Ada sarebbe andato a vedere personalmente cosa
andava bene e cosa era sbagliato, anche nel suo negozio di ferramenta, cosa doveva
essere incoraggiato ed eventualmente ampliato e cosa invece andava modificato o
tagliato fuori.
Ada si preparò
puntigliosamente, voleva che la sua vita cambiasse e per farlo doveva cambiare
prima quella degli altri, per riuscirci doveva fingere prima di essere competente
in materia, poi diventarlo veramente. In realtà ci volle un periodo interminabile
in cui Ada si dette da fare instancabilmente, ma ancora difettava su un
argomento in particolare, la cultura generale. Stava lavorando anche su quella,
naturalmente, leggeva e vedeva tanta roba impegnata: film, documentari eccetera,
ma non si poteva colmare tanto vuoto in poco tempo già anche troppo pieno.
"Ecco un consiglio che una volta sentii dare a un
giovane: fai sempre quello che hai paura di fare"
(Ralph Waldo Emerson)
Ada 4
“Non so se io sapevo dialogare con me stesso,
probabilmente no, penso che me lo abbia insegnato mio cugino Odair. Forse lui è
stato avvantaggiato dal fatto di non essere esattamente un poveraccio come me, di famiglia sarebbe stato un
borghese, eppure a un certo punto delle sua vita si è ribellato ai suoi
genitori e ha mandato tutti e tutto affanculo: se ne è tornato a vivere in una
favela, per scelta sua.
La sua storia è un po’ più
complicata, diciamo che quando se ne è andato via da Leblon, con quella francese
che a me sembrava proprio una pazza, ci sono voluti altri cinque anni per
essere lasciato da lei. Dopo aver vissuto in varie città europee, (in Francia,
Belgio, Olanda e Danimarca,) aveva capito un po’ meglio come funziona il mondo,
il cervello della gente, la sua esperienza
era un po’ vaga, ma forse era predisposto, prima di tutto dalla sua
curiosità antropologica, per questo era pronto per trasformarsi in quello che è
ora.
Non posso dire di averlo
conosciuto, prima, da bambini c’eravamo frequentati di più, poi i suoi avevano
fatto il salto di qualità, dopo l’avevo incontrato quattro o cinque volte, ci
avevo appena parlato, vivevamo in ambienti troppo diversi, anche se entrambi
abitavamo nelle favelas.”
Qualche anno dopo Ada e Oda
erano quasi irriconoscibili, se prima ognuno aveva i suoi, ora cominciavano a
scambiarsi i pazienti.
Adailton era entusiasta,
ora aveva anche una fidanzata, una ex fornitrice all’ingrosso della bancarella
di oggetti del Paraguay di un suo collega. La percentuale di guadagno di Ada
per il primo anno era il cinquanta per cento delle sue sedute, a Oda invece il
restante cinquanta, più l’intero lucro delle sue. Nel secondo anno Ada è
passato al 75% e la percentuale è rimasta quella, secondo gli accordi. Solo che
Oda investiva subito tutto nell’impresa. Dopo due anni Ada ha lasciato la
favela Rocinha, è andato ad abitare nel quartiere Leblon, ha comprato un piano
intero del palazzo, dove viveva e ci ha aperto il suo ambulatorio. A questo
punto, anche se la Scuola del Dialogo
Interno era sempre la stessa, Ada ha cominciato a essere proprietario del
cento per cento delle sue entrate. Quando l’ambulatorio è stato aperto, c’è
anche una guardia, um segurança. Oda
ha lasciato la sua baracca e ha costruito una casa di muratura sulla strada
principale, ci viveva e ci lavorava, per rendere più facili le visite di
persone esterne alla favela, ma senza lasciarla come il cugino.
Normalità altro non
è che la media d'infinite anormalità.
(Tito
Baldan)
Ada e Iraq
Quando incontrai mio
cugino Odair per la prima volta dopo il suo matrimonio, non avrei mai creduto
possibile che un giorno io avrei potuto scrivere un libro, anche perché fino a
quel momento non ne avevo ancora letto nessuno.
E invece sì, neanche
troppi anni dopo, fu pubblicato a mie spese e ci dovevano essere cinque
racconti, didattici esempi di dialoghi con noi stessi, base della nostra problematica
ma necessaria filosofia di vita. Poi diventarono tre, più che altro perché io
credevo che le mie pagine fossero molto più piccole di quello che
effettivamente erano, ma anche per altri motivi, uno dei quali è il fondamento
di questo racconto.
Avendo saltato ogni pur
ipotetico editore, sia per risparmiare i soldoni che loro pretendevano, che per
essere indipendente e non dover dar soddisfazione a nessuno, dovetti, in
compenso, incaricarmi personalmente di condurre questo passaggio dal sistema di
scrittura Word al Page-Maker.
La tipografia Saudades,
che mi aveva dato il preventivo più economico, mandava a fare questo tipo di
trasferimento informatico da un certo signor Iraq, (che per via della pronuncia
diventava una specie di Iracchi) il quale viveva e aveva il suo piccolo
laboratorio, non molto lontano dalla loro sede, appena fuori dalla favela Pedra
Quadrada, in Rua Felizardo Furtado 402, cioè Felice Derubato. Mi parve di cattivo auspicio, ma era un autentico
nome di persona, mi avevano spiegato, con il suo conseguente riferimento
storico, del quale, però, nessuno sapeva niente, nemmeno l’internet che di
solito risolve ogni quesito. Era l’epoca
dell’attentato alle due Torri Gemelle a New York, ogni nome arabo era guardato
con sospetto, anche qui in Brasile. Al nostro secondo incontro, il primo da
soli, chiesi a Iraq se era di origine musulmana e lui si affrettò a dire di no,
a raccontarmi la storia della sua famiglia, gli dissi che stavo scherzando, che
non c’era bisogno che mi spiegasse niente, ma notai che per lui quella non era
affatto una cosa comica. La mia era stata una domanda fuori luogo e si poteva
anche constatare dal fatto che Iraq ostentava cristianità in ogni sua frase
iniziando ogni sua frase con grazie a Dio,
se Dio vuole, o, qualche volta, meno
spesso, con l’aiuto di Dio.
Il nostro lavoro era a
botta e risposta, cioè lui faceva il passaggio da un sistema all’altro e io
andavo, praticamente tutti i giorni, a correggere eventuali errori e a vedere,
successivamente, se erano stati veramente tolti, il che purtroppo accadeva e
anche spesso, senza sabati e domeniche che potessero infilarsi in mezzo, più o
meno indesideratamente, approfittando della nostra momentanea stanchezza e
conseguente distrazione.
Mi sembrò subito evidente
che Iraq fosse un affabile ragazzone di cinquant’anni, che viveva ancora con la
mamma, la quale ci accompagnava spesso con il suo sguardo protettore, nel dirci
qualche parola d’incoraggiamento, insomma, ci dava il suo apporto morale.
Sostava in silenzio, insieme a noi in quella stanza per ore, a sbucciare e a tagliare
frutta e verdura, effettuando tutte le opere culinarie e di cura della casa,
che non avessero bisogno di fornelli o altri aggeggi pesanti o ingombranti che
aveva in cucina o altrove nell’abitazione, che naturalmente era separata dalla
zona lavoro.
Notai ben presto che
Iraq era un irriducibile testardo, come me. Mi rimase subito simpatico. Purtroppo
dal punto di vista della sua efficacia, mi resi conto che le cose andavano
avanti tanto lentamente che pareva che tornassero indietro. Il lavoro di Iraq
non era semplice, né poteva essere rapido, come avevo pensato prima, sennò lo
avrebbero fatto nella tipografia stessa, ma aldilà delle difficoltà oggettive,
mi pareva che lui non avesse affatto le condizioni minime e fondamentali per
poter lavorare in quell’ambito, che per me erano, prima di tutto,
un’attrezzatura valida. Fin dal primo giorno mi abituai a dover correggere e
ricorreggere le stesse cose già passate al vaglio e corrette già prima più
volte. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a considerare naturale e
fisiologico che si dovessero fare e rifare le medesime correzioni per poi
rivedere apparire di nuovo sul testo le parole sbagliate esattamente come prima.
Ci avvicinavamo alla
Festa del Libro della Lapa, quartiere malfamato del centro di Rio de Janeiro ma
anche contenente una larga piazza incorniciata da un acquedotto relativamente
antico dalle grandi arcate. Temevo, sempre di più, che sarei rimasto senza il
mio agognato primo volumetto, da lanciare alla fine di ottobre, o agli inizi di
novembre del 2001, per approfittare in pieno di quelle due settimane più
propizie, durante le quali si comprano più avidamente che mai, ai prezzi
migliori, prodotti cartacei rilegati e, a volte, perfino letterari.
In gran parte dei casi,
non sarebbero mai stati letti, ma avrebbero fatto bella figura negli scaffali
delle case della gente più intelligente, quella che almeno capiva di dover dare
un’impressione migliore di se stessa. Per tutto questo, si precipitavano a
frotte alla fiera del libro, seguendo gli sconti e la moda del momento. Il
consumista non compra perché ha bisogno di una cosa, ma compra per comprare e,
per quanto sia difficile credergli, per
risparmiare.
Ubara Sepulveda, amico
del mio amico Carlos Brogi Diaz, che aveva già pubblicato varie opere non sue,
suggeriva come tattica opportuna e addirittura fondamentale, per vendere subito
un buon numero di copie e coprirmi le spese, di partecipare alla Fiera del
Libro, firmare autografi e fare la faccia intelligente dell’autore seduto a una
delle scrivanie in fila, sistemate sulla piazza.
A quei tempi un
manoscritto doveva essere passato attraverso un programma di computer chiamato
Page-Maker, per farne poi pellicole trasparenti che servivano in seguito per
stampare dei foglioni con decine di pagine, successivamente tagliate a coppie,
che poi erano cucite e incollate. Si faceva la copertina, che richiedeva un
lavoro abbastanza simile ma separato, e poi tutto questo, messo finalmente
insieme, si chiamava libro.
Le pagine erano sempre
a coppie, perché la dimensione dei fogli, normalmente usati dalle tipografie, era
del doppio di una pagina.
Quindi il lavoro di
Iraq era anche accoppiare le pagine, in modo che la prima fosse a lato
dell’ultima, la seconda con la penultima e così via, per poterle cucire poi una
sopra l’altra, come si usava fare in questi casi e per arrivare poi alla coppia
centrale, nel centro del libro, che finalmente era composta di due pagine che
risultavano numericamente consecutive.
Iraq era un uomo simpatico
e ottimista fino al limite dell’incredibile, cosa che qua in Brasile ho
riscontrato spesso, a vari fenomenali livelli, ma sempre e comunque in
contrapposizione con la cultura europea, per quello che mi ha detto Oda, poi
letto e visto nei film e documentari, fatta di pessimismo come regola di vita,
inframezzato dallo stagnante immobilismo, spesso alternato a depressioni
profonde.
Iraq era una persona
che credeva fermamente in Dio, per me era un esempio di stile e anche di
contenuto, crederci sarebbe piaciuto anche a me, è una cosa piuttosto
confortante, ma purtroppo non si può barare.
Per quanto riguarda
quello stesso contenuto, però, per quel che ne capivo io, almeno nella stesura
della impaginazione, Dio non lo aiutava con piacere, anzi, si burlava di lui.
Qui devo riconoscere che non sapevo cosa sarebbe successo senza l’aiuto
misericordioso del Signore, magari stava già facendo miracoli e io non me ne
rendevo conto.
Fatto sta che mi pareva
di tornare a rifare tutto ogni giorno, mi sembrava che, per quanti sforzi
facessimo, non riuscissimo a tirarci fuori dalle sabbie mobili di lettere,
frasi, spazi e inizi di pagina ribelli che ci avevano imprigionato e
c’inghiottivano inesorabilmente sempre di più.
Il computer di Iraq era
vecchio e ingiallito, era una evidente verità anche per me, che non m’intendevo
per niente d’informatica, che il suo principale attrezzo di lavoro fosse
antiquato e perciò obsoleto, ma oltre a questo era chiara evidenza che i suoi
programmi erano copiati e perciò difettosi. Qui è bene chiarire che al mondo
una percentuale enorme di programmi, se non la stragrande maggioranza, sono
copiati, chi ce lo farebbe fare di comprarli quando sono a disposizione gratis?
Però credo che questi programmi mai si ribellino ai loro abusivi proprietari in
una maniera tanto agguerrita, convinta e ripetuta, come nel computer di Iraq.
Insomma la nostra era
da considerarsi un’impresa disperata, visto che quella di Iraq pareva una guerra
con il computer, che abbastanza spesso o quasi sempre veniva persa e senza condizioni
né prigionieri.
Per esempio, all’inizio
di una pagina si profilava spesso il finale di un periodo, due o tre parole e
poi il punto, che non stavano bene come prima riga, non erano, formalmente, una
bellezza. Facendo complicati giochi di prestigio con le parole e cambiando a
volte il significato stesso del testo, aggiustavamo da una parte, mentre si
guastava dall’altra. Mi pareva impossibile che il programma non avesse un
automatismo in questi casi, ma Iraq assicurava che non era previsto un caso del
genere e io lo guardavo cercando di dissimulare il fumo che mi usciva dalle
narici.
Di positivo c’era che a
ogni seduta mi dava utilissime lezioni d’ottimismo incrollabile, pur se, ogni
volta, lasciandoci e dandoci appuntamento al giorno seguente o a due giorni
dopo, la sua immancabile frase, che diceva che grazie a Dio noi ce l’avremmo
fatta, mi pareva di un’ironia esagerata e, in quei momenti, perfino piuttosto
crudele.
Un altro fatto nuovo e
spiacevole venne fuori in seguito, attraverso una delle sue alchimie
computeristiche, causate dall’inefficienza della sua attrezzatura hardware e
software, il cui meccanismo cercò varie volte, invano, di spiegarmi. Qui
constatai anche e purtroppo che i limiti della sua dialettica si scontravano a
ogni occasione con il mio portoghese scritto, frettolosamente imparato e
piuttosto assai maccheronico, che era così diverso e lontano dal suo,
similmente pessimo ma in una maniera diversa, che non trovavano punti in
comune.
Attraverso uno dei suoi
passaggi, per me sempre più incomprensibili e misteriosi, una parte di testo
era stata perduta totalmente, non erano più di due pagine e me ne ero accorto
dalle decine di errori che erano comparsi d’incanto, in quel tratto di prosa,
più volte passato a correzione.
Lui confessò, quasi
piangendo che, dopo averlo perso, aveva cercato di ricopiarlo dalle prove già
stampate in precedenza, ma ci aveva aggiunto del suo, cioè una nuova e
indipendente caterva di sbagli.
Iraq ammise anche, magari
con l’intento di farmi arrabbiare violentemente, che l’atto del ricopiare era
stato effettuato alle due di notte e che i suoi occhi forse, a quell’ora, non
ci vedevano più bene.
Dopo aver lavorato
tutto il giorno al computer, gli si verificava un interessante fenomeno di
sdoppiamento dell’immagine, che, messo insieme alla sua complementare ignoranza
della lingua, dava, come logico esito, quel massacro.
I segreti tentativi di
scrivere a mano di Iraq erano ripetuti e penosi nei risultati, ogni volta
cercava di non dirmelo, ma il testo, nell’arco di poche pagine, diventava
improvvisamente così pieno di errori che non potevano non saltarmi subito
all’occhio.
Una volta scoperto il
misfatto, lui riscriveva il tutto su mia dettatura, a testa bassa, lettera per
lettera, poi ricorreggevamo il testo intero.
Ci mettevamo delle ore,
ma alla fine eravamo soddisfatti e più volte, quando stavo per andarmene,
stanco, ma quasi felice, perché forse finalmente potevamo dare l’inizio al
procedimento di tipografia vero e proprio... ecco che mancava la luce.
La luce in Brasile
salta spesso, non c’è bisogno né di temporali, né di catastrofi naturali, è
solo per rendere le cose più imprevedibili e interessanti. Contemporaneamente,
infatti, nella vecchia Europa non succede mai niente, mi dicono, i giorni
passano seguendo la logica già pronta di copioni scritti nei cervelli della
gente. Non è solo il fatto che non manca più la luce, ma anche altre cose
impreviste non accadono più e la vita è un arido video-game, razionale e
solitario, in cui lo sviluppo della giornata sembra uno stanco manovrare i
tasti in qualche maniera, i risultati, quelli veri, non cambieranno. Niente a
che fare con le emozioni, le persone non rischiano più, vivono vite virtuali. Un’equazione i cui termini e il cui ordine si
presentano sempre uguali e gli effetti sempre i medesimi, dove la più vibrante
Teoria del Caos è immeritatamente e inspiegabilmente accantonata. In Brasile
no, è tutto più emozionante, nel bene e nel male.
Comunque sia, ogni
computer che si rispetti salva automaticamente le cose mentre si fanno, in
intervalli che l’operatore può programmare, che possono essere anche brevi come
un minuto o due. Credo che Iraq si vergognasse a dirmelo e passò un po’ di
tempo, ma un giorno confessò che, per un difetto del programma, il suo non lo
faceva più. Con lui non protestavo perché pensavo che fosse inutile, vedevo che
si sforzava al massimo, anche se la sua mancanza di attrezzatura era parte integrante
della sua incompetenza, pensavo anche che i miei sguardi irosi o rassegnati, a
seconda dell’occasione, erano eloquenti e migliori di parole pesanti e
conseguenti sensi di colpa.
Quella faccenda era già
abbastanza complicata ed era troppo tardi per tornare indietro. Quello non era
un computer meritevole di considerazione e rispetto, forse nemmeno Iraq lo era,
dal punto di vista professionale, ma che cosa avrei potuto fare, per togliermi
da quella situazione?
Lo zenit della
disperazione lo raggiungemmo in un pomeriggio afoso di venerdì, quando arrivai
là esausto dopo il lavoro e lo vidi subito dai suoi occhi, mentre mi apriva il
cancello che la situazione si era ulteriormente deteriorata. Trovai Iraq meno
ottimista e più stanco, si vedeva che aveva dormito male, la sua fede era stata
gravemente incrinata e mi spiegò subito perché. Il problema era che, a partire
dal capitolo intitolato Don Gaspare,
il programma si rifiutava di collaborare, forse per una mancanza di coesione
con quella specifica parte del testo, magari considerata antipatica dal suo
programma Page-Maker, che pareva avere una volontà propria, più forte e
persistente delle nostre due messe insieme. Iraq mi raccontò, in seguito, che Don Gaspare, il personaggio del
libro, gli era apparso in sogno, ma non era stato proprio un sogno, più che
altro un incubo.
“Il capitolo intero di
Don Gaspare non entra, non ci sono santi, ho provato in tutte le maniere...”
“Come non entra? Non
è un capitolo come tutti gli altri? Perché non ci dovrebbe entrare?”
“Non lo so, se lo sapessi
potrei fare qualcosa, semplicemente il programma lo rifiuta, io ce lo metto e dopo
sparisce, nel senso che non so nemmeno dove vada a finire, dopo bisogna fare
tutto di nuovo e il risultato è sempre lo stesso. Giuro che non l’aveva mai
fatto, ma ieri ho tentato per ore e sono riuscito solo a ossessionarmi e
stanotte ho avuto anche un incubo con Don Gaspare che mi inseguiva con una
spada enorme, vestito rinascimentale e con l’elmo col pennacchio, ma i ricami
della sua camicia bianca erano tutte lettere dell’alfabeto, parole e frasi che
si incrociavano e.... pareva che fossero tutte fuori posto.”
“E perché erano fuori
posto?”
“Perché non ci capivo
niente!”
“Forse perché lei non
conosce la grammatica e sintassi della lingua portoghese, io stesso non sono un
asso ma per il suo lavoro...”
“No, ma non era solo
questo, il fatto è che erano anche storte, le lettere, non erano in riga,
alcune erano in altre lingue, o con maiuscole troppo grandi, non proporzionate,
insomma... i caratteri differenti da quelli del mio programma, poi si
muovevano, non volevano stare fermi...”
“Ma come faceva lei a vedere
che le lettere non andavano bene, che c’erano degli errori... come faceva ad
avere il tempo di leggere con Don Gaspare che la inseguiva con lo spadone
sguainato?”
“Non lo so, è strano,
quelle cose che funzionano così solo nei sogni, ma mi facevano più paura le
frasi incrociate e sbagliate dello spadone di Don Gaspare, era un incubo e
quelli sono sempre simbolici, no?”
Iraq aveva ragione, in
un certo senso, all’interno del suo tipo di logica, almeno in quella
determinata situazione onirica. Però l’ossessione di quelle pagine che non
riusciva a far rimanere nel luogo dove dovevano stare, comunque, era una cosa
assurda, e, per quanto possa parere comica ora, in quel momento nessuno di noi
due la considerò neanche un po’ divertente.
Ci guardammo in faccia per
qualche minuto, senza parlare, quella situazione cominciava a stressarci più
del dovuto. Che magari fosse un dovuto
differente, che ognuno avesse la sua misura, quello era già un altro discorso
separato e distante.
Forse sarebbe servito
semplicemente spiegargli che Don Gaspare, il personaggio del libro non era un
pazzo furioso e rinascimentale, ma un personaggio a noi contemporaneo e di
animo bonaccione, ma questo accorgimento allora non mi venne in mente, e anche
così avrebbe poi migliorato la situazione?
Ci rimettemmo al
lavoro, il caldo e il malumore ci avevano contagiato, riuscimmo comunque a
correggere tutto di nuovo e, dopo un martellante stillicidio di quasi tre ore,
mancò di nuovo la luce.
Gli chiesi se aveva
salvato le modifiche e lui rispose che era inutile, il programma era difettoso
e un blackout faceva perdere tutto quello che si era scritto dall’ultima volta
che si era acceso il computer... il suo sguardo esausto e rassegnato m’impedì
qualsiasi reazione, me ne andai sentendomi un completo idiota a essermi fidato
di Iraq e della tipografia Saudades.
I giorni passavano e Don
Gaspare faceva ammattire Iraq, il quale, di conseguenza, mandava fuori di testa
me, solo che io ero un terapeuta e non potevo permettermelo. Bisogna dire che
la volontà incrollabile di quell’uomo, molto religioso, era già stata assai
provata, per quanto fiducioso nel bene, sembrava evidente che il male, ora
attraverso questo Don Gaspare, lo stesse esasperando.
In un secondo incubo,
il Don gli aveva detto puntandogli un lungo e grosso dito contro, che si
opponeva alla pubblicazione del libro perché rivelava particolari pericolosi,
per lui che era un capo mafioso. Gli
spiegai allora che il personaggio del libro non era mafioso per niente e che
nel suo incubo ci doveva essere un errore. Ma Iraq non sorrise, né mi parve
meno preoccupato. Poi gli chiesi come era vestito e lui disse che quello
si era presentato esattamente come la volta precedente. Con la massima e
puntigliosa calma che m’imponevo come un mantra gli dissi scandendo bene ogni
parola che un mafioso non poteva avere un vestito rinascimentale, con elmo e
pennacchio, la mafia era nata dopo, poi, per motivi pratici, magari per non
essere riconosciuti, la loro divisa era perlopiù senza lettere dell’alfabeto
sulla camicia. Gli parlai anche del personaggio del quinto racconto,
Don Gaspare, un signore di mezza età, che abitava a Berlino e al quale piaceva
raccontare storie metaforiche agli amici emigranti riuniti. Iraq, però, anche dopo le
mie parole, che avevo sperato fossero state chiarificatrici, non mi parve per
niente tranquillizzato.
Nel frattempo era sorto
un altro problema, come avevo accennato all’inizio del racconto, le pagine
erano molte di più di quelle che avevo stabilito con il responsabile della
tipografia. Insieme ad altre caratteristiche, come tipo di carta e di
copertina, questo numero aveva determinato il prezzo, che, per quanto basso,
era già più di quello che potevo spendere. Ne parlai con Iraq, appena mi resi conto che, per una fortuna
insperata, un problema risolveva l’altro.
“...ho fatto il conto
delle pagine, sono troppe, il libro mi viene a costare molto di più del
preventivato, allora tiriamo via la storia della Commedia, sì, quella di Don
Gaspare, va bene?”
Iraq ovviamente non
credeva alle sue orecchie e mi chiese se veramente si doveva fare così o era
solo perché lui, anche se solo provvisoriamente, non era riuscito a mettere Don
Gaspare nella sua impaginazione. Si sentiva colpevole, sospettava che quella
fosse una mia mossa per risolvere i suoi problemi tecnologici e tecnici, anche
se forse in quei giorni erano anche diventati abbastanza semantici e
psicologici. Lo convinsi a stento che era una cosa necessaria e indolore, anzitutto
voluta da Dio in prima persona. I racconti erano cinque, ma purtroppo o per
fortuna ne dovevamo scartare due corti o uno grande. Allora, visto che in
totale erano tre corti e due lunghi, che la Commedia
di Don Gaspare e Il Punto di vista di un
pastore tedesco non solo erano corti, ma erano anche gli ultimi due
scritti, mi pareva logico di doverli togliere e magari, chi lo sapeva, metterli
nel prossimo libro.
Mancavano meno di venti
giorni alla Fiera del Libro della Lapa. Tutte le altre fasi: pellicole, stampa
e rilegatura, solo per essere cominciate, aspettavano la fine di questa nostra
prima e sofferta introduzione. Senza contare che dovevo organizzare un cocktail
e mandare inviti ad almeno quattrocento persone, per riceverne, diceva Ubara,
forse meno della metà. Per non dire che stavo lavorando come terapeuta tutti i
giorni come una trottola impazzita, ma esternamente calma e ben ponderata.
Dovevo fare questo passo
decisivo, anche se Iraq insisteva che sarebbe riuscito a farcelo entrare, quel
diavolo di un capitolo e non c’era bisogno di accantonare la storia intera,
anche se non sapeva ancora come.
Non ho ancora capito
perché la gente non crede mai a quello che gli si dice, forse sarà per colpa
della loro storia corta ma densa d’intrighi, della sfacciata politica del mondo
globalizzato. Fatto sta che quando qualcuno dichiara una cosa, quella sarà
l’unica versione automaticamente scartata dalle loro menti abituate alla bugia,
incapaci di credere che le cose stiano veramente così come gli abbiamo
ripetutamente detto, giurato, spergiurato e riconfermato. La vita li ha
abituati all’inevitabile bugia o a serie di bugie concatenate, dette per
mascherare i fatti, e a diffidare sistematicamente delle verità qualsiasi esse
siano. Anche e soprattutto quando sono finalmente verità piacevoli.
Riuscimmo a mettere comunque
da parte i due racconti in questione e i problemi con Don Gaspare, ripassammo
le correzioni, dimenticando per il momento la stanchezza e il resto del mondo
in agitazione attorno a noi.
Pareva che finalmente
tutto stesse marciando meglio, dopo venti giorni di sforzi sovrumani e a un
certo punto dissi a Iraq che andava bene così, si stampava e basta. Naturalmente alcune cose non ci pensavo nemmeno più
a correggerle, come i maledetti inizi di pagina con una frase che terminava a
metà riga con un punto. Dichiarai con la mano sudata sul cuore, di fronte a
Iraq e a sua madre come testimoni, che non me ne fregava più niente, i lettori
si sarebbero dovuti adattare a questa mancanza di forma, alla bisogna mi sarei
scusato personalmente con loro. Sia lui che sua madre non erano d’accordo con
me, dicevano che bastava solo un poco di pazienza in più e tutto sarebbe stato
risultato perfettamente a posto. Qualche
volta la loro fede cieca era fonte di imprecazioni dentro di me, ma forse
avevano ragione loro, oppure ormai non capivo più chi ce l’avesse. Avrei dovuto essere io a insistere per correggere
tutto per bene, invece era lui, anche se il suo guadagno era lo stesso, fosse
con due settimane di lavoro invece di una. Iraq si preoccupava, assai più di
me, che tutto fosse ottimizzato, prima di stampare.
L’arte della diplomazia
era quello che stavo imparando direttamente da Odair e indirettamente dalla
vita ed era veramente una scuola efficace perché, ora che ci riuscivo meglio,
vedevo che era più pratico che perdere la calma e dire tutto quello che mi
passava per la testa al momento, offendendo i miei eventuali pazienti, amici e
collaboratori, inevitabilmente peggiorando il mio rapporto con loro.
Ci lasciammo e salutai
prima sua madre, che sembrava fosse stata impegnata per ore a scegliere i fagioli
sul tavolino delle riunioni, alzò la testa e mi guardò caritatevole per
augurarmi buona fortuna, che ne avrei avuto bisogno, ma anche e soprattutto
dell’aiuto di Dio. Al cancello strinsi la mano a Iraq mentre concludeva
sorridendo che se Dio avesse voluto ci saremmo riusciti, a pubblicare quel
libretto indiavolato. Gli promisi che un giorno sarei passato di lì per bere
quella birretta, della quale avevano parlato qualche volta, ma che non avevamo
ancora potuto scolarci insieme. Se Dio vuole, disse lui.
Dentro di me pensai se
era stata una maniera che il Dio di Iraq e di sua madre, che forse era il mio
stesso, aveva inventato per testare i miei nervi, la mia determinazione, per
vedere se veramente meritavo qualche tipo di successo in quella direzione, ma
non sapevo ancora se avevo superato la prova.
La birretta con Iraq
non l’ho mai bevuta, la sfida, qua sulla terra credo che sia giornaliera. Dobbiamo
sempre provare, a noi stessi e poi agli altri, che siamo disposti ad affrontare
la bufera e la bonaccia, l’ironia pungente e a volte anche violenta della vita.
Non so se sarò creduto,
ma lo dico lo stesso: anche in questi giorni, nei quali sto scrivendo questo
racconto didattico, forse non per caso, sono stato vittima della maledizione di
Don Gaspare. Per due volte, una ieri e una oggi, ho toccato qualche bottone
sbagliato della mia tastiera e ho perso ore di lavoro, tutto quello che avevo
scritto. Ho dovuto fare tutto di nuovo.
Iraq Falabela è diventato
mio cliente, non molto tempo dopo, gli ho fatto il pacco di un mese gratis e
pagamento retroattivo solo dopo aver constatato e apprezzato i risultati. Ora ha la sua ditta di
grafica e tipografia, dieci persone che lavorano per lui, a Natale mi manda
sempre un ricchissimo cestino di frutti esotici.
Il mio slancio è infinito come il mare, e non
meno profondo è il mio amore; più te ne dono più ne posseggo, perché entrambi
sono infiniti.
(William
Shakespeare)
Da Jo Soares
Allo spettacolo televisivo di dibattito notturno di Jo
Soares intervennero i due cugini. Era uno show di interviste a personaggi
famosi o anche sconosciuti, sul canale più importante del Brasile, la rete
Globo. Ex comico di ampia cultura a 360 gradi, il grasso - al limite dello sferico - Jo Soares risultava intervistatore
simpatico e intelligente. Il programma si chiamava Jo Onze e Meia, doveva quindi
esserci alle undici e mezza, ma gli orari televisivi qua erano solo indicativi
e andava in onda tutte le sere a mezzanotte passata, insomma dopo l’ultimo
telegiornale.
“Oda e Ada, cugini, filosofi, sociologi alternativi e
autodidatti, sono ormai simboli viventi a Rio de Janeiro, perché cercano ogni
giorno e con grande percentuale di successo, di sbrogliare la matassa dei
pensieri e dei dubbi del cittadino stressato di Rio de Janeiro. Chi è dei due
che ha cominciato a scoprire questa tendenza del popolo moderno di cercare le
soluzioni in una qualsiasi autorità, anche senza diplomi o qualifiche, ma che
abbia la necessaria competenza per
trovare rapidamente e in maniera semplificata al massimo, cosa si deve
fare per combattere il male di un mondo complicato e con la tendenza a
complicarsi sempre di più?”
“Oda è stato tra noi due quello che ha trovato la
strada, Jo, poi mi ha invitato e io lo ho seguito...”
“Bene, interessante, ma come è successo? È vero che
ambedue eravate camelô e che Oda vive
ancora nella sua favela Urubu di Rio
De Janeiro ?”
Rispose Oda.
“Non
esattamente, la mia famiglia era di classe media, anche se era uscita dalla
povertà da poco tempo. Tutto è cominciato dieci anni fa, almeno per me, quando
sono stato lasciato da mia moglie, Jo, mi sono ritrovato solo e ho vissuto in
stato di choc per qualche tempo, i parenti mi hanno aiutato e anche gli amici,
ma il vero aiuto era da solo che potevo darmelo e questo è successo quando ho
scoperto che il mio aiutarmi era aiutare gli altri...”
“E come è scoccata questa scintilla?”
“Questa è una storia che non ho mai raccontato a
nessuno, Jo, ma mi fa piacere parlarne, ora: molto bene, mia moglie era fuggita
da me, quando credevo che tutto stesse andando per il meglio.
Cose che succedono, ma la mia testa non assimilava
questo fatto, il mio corpo si rifiutava di continuare, in poco tempo avevo
smesso di avere una vita, eravamo in Danimarca, in seguito alla profonda
depressione capii che dovevo tornare in Brasile, ma una volta qui avevo
allontanato gli amici, mi ero isolato totalmente. Solo mio zio Aldrovani ha continuato a
frequentarmi e ad aiutarmi, anche se io non gli davo la minima soddisfazione e
lo trattavo a pesci in faccia. Colgo l’occasione per ringraziarlo pubblicamente,
Jo, anche se non è più tra di noi, perché senza di lui forse sarei morto e non
avrei potuto aiutare proprio nessuno. Avevo passato dei mesi in questa maniera,
non so più nemmeno quanti, quasi senza parlare con nessuno, arrivando ben
presto anche a soffrire la fame per la mia prolungata incapacità di
razionalizzare. Un giorno mi ero svegliato da un sonno pesante di troppa
cachaça bevuta, dentro una pozza di acqua putrida, dietro la baracca mezza
diroccata, era pomeriggio, scesi nella favela, vagando come un corpo senza
volontà, gambe molli, sguardo fisso... scendevo solo perché il mio corpo aveva
bisogno di movimento e non ce l’avrebbe fatta a salire.
I trafficanti
cominciarono a sparare contro la polizia, come tante altre volte, ma io non mi
rendevo conto del pericolo o forse dentro di me pensavo che era ora di farla
finita, che quella storia era andata avanti anche troppo.
Allora passai intontito in mezzo a quel vespaio di
pallottole che fischiavano e fracassavano i mattoni forati e le tavole vecchie
intorno a me, finché non fui colpito alla testa.
La mia fortuna è stata quella, Jo, difficile a
credersi, ma uscito dall’ospedale la mia vita poté ricominciare e meglio di
prima, molto meglio di prima.”
“Che cosa era successo?”
“Niente, solo
uno choc, una botta e il mio sistema nervoso, quasi anestetizzato dalla
mancanza di cibo e dall’alcool, poi aveva ricominciato a funzionare meglio,
come quando si tocca il fondo e poi si risale, come quando si batte nel muro
della fine della strada, poi si può proseguire solo se si prende la direzione
opposta.
Inoltre,
all’ospedale, avevo ricominciato a essere alimentato a dovere, là dentro avevo
visto e conosciuto tanta gente che soffriva per altri motivi e tanti non erano
motivi fisici, ma quelle che stavano curando là dentro potevano essere, forse,
le conseguenze.
Non mi ero mai
reso conto di questo piccolo ma importante dettaglio, i mali mentali portano ai
mali fisici, ma quei difetti di comportamento, quell’incompetenza del
quotidiano, erano cose che si potevano correggere.”
“Ma il colpo
alla testa aveva leso qualcosa o tutto era in ordine?”
“Miracolosamente
no, Jo, il proiettile era entrato qui sopra l’orecchio sinistro, ma si era
portato in giro per la favela solo una parte superficiale, rompendo l’osso e
facendo tanto sangue in giro, ma niente di importante era stato toccato,
insomma come quando si dà una botta a una televisione vecchia che non funziona
e dopo ricomincia a dare l’immagine...”
“Solo che dopo
l’immagine se ne va di nuovo, questo non ti succede?”
“Fortunatamente
no, Jo ogni tanto qualche vuoto di memoria, sono un po’ distratto, ma sono cose
che capitano a tutti, no?”
“Certamente, se
io non avessi questo microfono nascosto nell’orecchio forse a questo punto non
mi ricorderei nemmeno cosa sto facendo qui e neppure chi sono...”
Grande risata del pubblico. Poi Jo Soares, che si dimostrava assai
interessato, domandò a Oda:
“Però è strana la testa della gente, voglio
dire, perché non ci avevi mai pensato prima a quelle cose?
Erano sempre
state lì, davanti a te!”
“Ecco il punto
Jo, lo choc mi aveva fatto cambiare direzione, in un certo senso aveva lavato
il mio cervello dal precedente, poi l’alimentazione più sana e la cura della
gente intorno, la lentezza di quell’ambiente, la lezione che mi stava dando il
dolore intorno a me... insomma stavo di nuovo pensando, sorprendentemente molto
meglio di prima e stavo capendo molte più cose. La nostra centrale dei dati,
dentro la nostra testa è una cosa complicata, quando non funziona quella, tutto
si fotte. Scusate l’entusiasmo uscito sotto forma di parolaccia, (risate del
pubblico) ma quando invece comincia a dare risposte alle domande, allora è una
meraviglia! Non è vero, Jo?”
“È vero,
nessuno ci capisce niente là dentro, fino a un certo momento tutto va male,
poi, una botta forte, i meccanismi si rimescolano ed ecco una persona nuova!”
“Oppure la testa si guasta definitivamente.”Disse Ada.
Risate in sala.
“Esattamente, ma grazie a Dio la mia ha reagito bene, Jo, in più, là
dentro, piano piano, mi sono accorto che potevo dare consigli alla gente,
proprio io che non sapevo vivere la mia stessa vita... e dopo averle aiutate mi
potevo sentire meglio e anche la mia vita prendeva un senso, perché noi
dobbiamo tutti avere un senso nella vita, no?”
“È chiaro, avere un motivo o uno stimolo è troppo importante, ma per
aiutare gli altri bisogna sapere di cosa si sta parlando anche, bisogna avere
una preparazione, no?
Perché, tanto per fare un esempio scemo, ma calzante, se io mi metto a
fare il saggio e a dare consigli alla gente, magari poi tutti diventano grassi,
cioè, si possono assai facilmente anche fare dei danni in giro, non è vero
Oda?”
“Sì, è facile dare consigli sbagliati, anzitutto perché le persone
sono tutte diverse e non esiste una ricetta che vale per tutti.
Non che questo fosse proprio chiaro all’inizio, per me, ma dopo quella
pallottola ho sentito tanti altri dolori alla testa, stavolta meno materiali,
ma non per questo meno profondi, proprio perché volevo accelerare troppo le
cose, volevo svuotarmi prima di essermi riempito, le mie intenzioni non
corrispondevano alle mie parole, ai miei gesti, perché dovevo crearmi una
sistematica, dovevo costruire su di me una centrale dei dati nuova, non sapevo
esattamente come comportarmi, era stata un’esperienza necessaria e tutto, avevo
capito tutto, ma allora dovetti trattare con quella sua rispettiva maniera di
essere espressa e comunicata, magari per non essere frainteso, finalmente per
non fare più danni che azioni buone.
Ed è per questo che ho capito e allora ho cominciato a studiare,
diciamo come allievo non pagante dentro le scuole di tanti tipi in questa
città, senza dare esami e senza mettere mano al portafoglio, diciamo pure come
clandestino, ma gli studenti sono diventati miei amici e tanti professori
anche, intanto gli abitanti della mia favela mi servivano da cavia, (risate) si
fa per dire, perché cominciavo a aiutarli facendomi pagare quello che volevano,
per due anni è stato così, dopo, cominciando ad arrivare anche clienti più
danarosi, ho iniziato ad avere prezzi più o meno fissi, ma accettavo sempre le
offerte dalle persone povere... a quel punto ho compreso che il prezzo era da
stabilire in base alle possibilità della persona, senza favorire nessuno, senza
evitare - per esempio - i meno riforniti di grano. Allora ho cominciato a
vivere bene, sia per i soldi che cominciavano a entrare nelle mie tasche, che
per le uova e i pomodori e i ferri da stiro, le radioline vecchie che ricevevo,
ma anche e soprattutto per quello che facevo, mi sentivo finalmente utile e
realizzato come non avevo mai potuto sentirmi in precedenza.”
“Vuol dire che la preparazione è stata fatta in due anni di studio?
C’è gente che studia una vita senza riuscire a fare quello che Oda ha fatto in
questo breve tempo, ma come hai fatto?”
“Bene, la preparazione sta continuando ancora, giorno per giorno, Jo,
devi sapere che io studio un poco tutti i giorni, non ho tempo per avere una
fidanzata, o per guardare la televisione.
Mi concedo solo di parlare, fuori dalle sedute, con la gente, questa è
una cosa alla quale non rinuncio ed è come un’attualizzazione giornaliera,
mangiare e dormire, naturalmente, ma solo il necessario.
È come se io mi cibassi più del bene che faccio che dei risultati che
questo mi garantisce, dal punto di vista finanziario e morale.
Ada, il qui presente cugino, ha un carattere diverso, non ha preso
botte alla testa, ma è stato preparato da me in un tempo anche più breve. Anche
per lui questa è una missione.
Volevo anche dire, Jo, rispondendo alla tua domanda di prima, che,
prima di tutto, il sistema scolastico è fatto per i giovani che nella maggior
parte dei casi studiano svogliatamente, con tante altre cose che li
distraggono, senza sapere all’inizio cosa poi faranno professionalmente.
Io, invece, ho fatto al contrario, dopo aver capito cosa volevo fare,
ho trovato il come e sono tanto appassionato della mia funzione pratica e
quotidiana che studiare mi riesce facile, anche se con convinzione autentica non
lo avevo mai fatto prima...”
“Ma questa maniera di parlare non è quella della gente comune, anche
questa è stata cambiata nel corso di questo miracolo metropolitano che è la tua
vita?”
“Leggendo e studiando, Jo, s’imparano ad adoperare le parole, per
espressioni più piene e complete, il linguaggio della gente per strada, sebbene
più ricco di girias (gergo), ha un
uso complessivo di molte meno parole, anche perché gli argomenti trattati non
ne hanno bisogno.
Invece, parlando di filosofia di vita, di aspetti sociali, si deve per
forza assumere un vocabolario più vasto, ma voglio dirti una cosa, Jo, fuori
dalle sedute mi piace continuare a parlare come facevo prima.
Nella favela c’è una specie di controcultura che esiste solo là, una
specie di disordine che però è anche un ordine. Là dentro, Jo, ci sono tante cose
che valgono solo nella realtà della favela, se ne parla poco, o si parla solo
di traffico di droga e di banditi, ma la vita là ha anche lati positivi o
perlomeno caratteristici di una cultura tipica, che dovrebbero essere
divulgati, dovrebbero essere conosciuti anche fuori, perché non è solo terrore
e povertà, ma anche solidarietà e tante altre cose, sentimenti di persone che
non hanno certo scelto di viverci, l’incompletezza del mondo ha deciso per
loro, ma cercano di fare il loro meglio, di godersi, nonostante tutto, quello
che hanno, da questo si può e si dovrebbe anche imparare.”
“Ci puoi fare qualche esempio?”
“La radio della nostra favela, Radio-Familia, è una cosa clandestina,
anche se per fortuna nessuno parla di punire questa intrusione nelle lunghezze
d’onda nazionali, ma funziona come una centrale di aiuto ai bisognosi che è
veramente efficace e chi lavora là dentro non è pagato, è un volontariato vero
e proprio e anche molto ben organizzato. Se qualcuno si ammala, se c’è bisogno
di fare qualcosa, qualsiasi cosa, nei limiti della nostra povertà, là si fanno
donazioni e prestiti, ma sono solo persone povere che collaborano, a parte i
miei soldi che ci investo perché mi pare che ne valga abbondantemente la pena.
È vero, fuori di là ci si organizza anche in questa maniera, ma con
sovvenzioni e mezzi assai superiori, qui con quasi niente si crea qualcosa e
allora è bello vedere che l’uomo non è solo un qualcuno che ha bisogno di soldi
per mantenere la macchina della produzione, per poter continuare a vivere,
l’essere umano ha bisogno anche e soprattutto di soddisfazione personale,
quella il sistema dei sistemi gli ha negato e questa può essere trovata anche
aiutando gli altri, anzi, è la maniera migliore, per quanto ne so io...”
Ada entrò nella pausa di Oda.
“Anche noi facciamo il nostro programma alla radio, diamo consigli per
telefono, assolutamente gratuiti, anche se questo ci permette di fare un poco
di pubblicità, visto che i clienti della favela sono quelli che ci portano meno
lucro...”
“Giusto,
parliamo ora con Ada. Perché tu, Adailton, sei uscito dalla favela Rocinha, se
è il luogo dove avevi sempre vissuto?”
“Ecco, Jo, Oda
è rimasto là nella sua favela, Morro do Urubu
perché lui vuole continuare a fare il suo lavoro là dentro, io invece,
visto che tratto di più con persone con maggiori possibilità finanziarie, per
me è più pratico vivere fuori...”
“Dove abiti,
attualmente?”
“Nel quartiere di Leblon.”
“Per te la favela è allora una cosa appartenente al passato?”
“Sì. A parte il lavoro della radio.”
“Non senti nostalgia?”
“No, per niente. Oda pensa che la favela è anche cultura, posso anche
essere d’accordo, ma tutto là dentro è più difficile, sia lavarsi che andare al
gabinetto, la stessa elettricità che è abusiva e va e viene, ogni tanto un corto
circuito brucia qualche baracca con qualcuno dentro, l’igiene è problematica...
il pericolo è costante, insomma... per me è stata una grande conquista uscire
di là e fare finalmente una vita normale... decente.”
“Tu credi che le persone che ci vivono non facciano una vita decente?”
Intervenne Oda, un po’meno calmo del solito.
“Ada ha saltato il processo che per me è stato basilare, l’iniziazione
al mio lavoro ha avuto dai primi passi un aspetto di missione, per la quale ho
sacrificato altre cose, che avevo scoperto di non avere mai vissuto bene, o
sfruttato pienamente, ma che avevano sostenuto la mia esistenza fino a quel
momento.
Ada, invece, è entrato quando il peggio era stato già fatto, gli ho
fatto scuola come a un bambino, per questo ora crede che tutto quello che aveva
vissuto prima non valeva la pena, il mondo per lui è magicamente cambiato, ma
io gli dico sempre che senza tutto quello schifoso - ma in un certo senso -
anche glorioso passato lì, con rispetto parlando, (risate del pubblico,) ora il
suo presente così fottutamente solido non avrebbe nessuna base, non saprebbe
nemmeno dove appoggiarsi, semplicemente perché Ada non esisterebbe.”
Mormorio del pubblico e Ada ribattè, punto sul vivo:
“Ma questo non significa che dobbiamo sempre rimanere ancorati a
quello che è stato il passato, lo dici anche tu che il presente è più
importante, non è che io mi voglio scordare di tutto, anche perché non potrei,
ma ci voglio pensare il meno possibile, quando entro là, nella Rocinha io
soffro, penso già di aver sofferto la mia parte, se permetti...”
Jo Soares, interruppe il battibecco e deviò la conversazione su un
argomento laterale.
“Un momento,
vorrei chiedere ora a Oda, perché mi pare importante, in mezzo a questa
illuminante litigata tra voi: è vero che il momento decisivo della tua vicenda,
importante ora per centinaia di persone di Rio De Janeiro, è stato quando una
chiromante della favela della Rocinha ti ha detto che la tua era una vera e
propria missione?”
“Sì,
esattamente, Jo, questo è successo quando sono tornato dall’ospedale, e stavo
pensando come cominciare la mia nuova vita di terapeuta, quando mio zio
Aldrovani, fratello di mio padre, ora defunto da tre anni, che è sempre stato
al mio fianco, di cui ho parlato anche prima, mi ha convinto e mi ha portato da
Dona Kahiouna, una negra vecchissima, famosa nel suo campo, lei non mi
conosceva, ha preso le mie mani tra le sue rugosissime e caldissime, ha
socchiuso gli occhi per qualche secondo e mi ha detto subito in poche parole: ‘Odair, tu devi lasciar perdere tutto il
resto e prendere questo cammino, aiuterai gli altri aiutando te stesso,
scoprirai la tua energia nascosta, scoprendo dove si nasconde quella degli
altri, preparati in tutte le maniere possibili e immaginabili, perché d’ora in
avanti tutto sarà in funzione di questo, ma contemporaneamente comincia a
esercitare subito, coi tuoi vicini, gli amici, tutti quelli che incontri per
strada... le persone bisognose di essere orientate... tutte, tuttissime’.
Quando ha
finito, non ha voluto soldi da me, perché ha detto che, aiutando me, lei stava
aiutando anche se stessa, perché stava aiutando gli altri in senso assai
generale, diciamo, allora ho cominciato a credere veramente che quella era la
mia missione.”
Mormorio di
ammirazione e curiosità del pubblico. Jo Soares incalzò:
“Come è stato
che tu hai deciso di allargare la tua conoscenza a tuo cugino Ada?”
“Quando le cose
hanno cominciato a funzionare, Jo, ho visto che da solo potevo fare poco,
rispetto a quello che si poteva fare in giro se ci fosse stato anche qualcun
altro.
Lo so che questa
missione era la mia, ma poteva essere aperta anche a chi volesse e potesse.
È normale che
abbiamo un contatto differente con la gente, la mia è una maniera più
appassionata, dentro di me sento emozioni forti a ogni incontro, anche se devo
mostrare distacco e saggezza, anche se ci sono persone che preferiscono il loro
lavoro di presentatori televisivi al mio di terapeuta. Diciamo che entrambi
possono essere assai utili, ma in generale la gente vuole la popolarità, che
per me invece non vale molto.
Tra gli altri
operatori che esistono attualmente, ci sarà forse uno o due di loro, che
veramente farebbero quello che stanno facendo anche senza essere pagati... ma il volontariato ha
altri problemi, Jo, perché le persone devono vivere e dare da mangiare alla
loro famiglia, devono succhiare il succo della vita anche per se stessi, perché
sennò non possono darne agli altri, non tutti vivrebbero come io vivo,
investendo tutto nel futuro della Oda & Ada, ma per me, ora che l’ho
scoperta e provata, è l’unica maniera di vivere...”
“Senza dubbio,
ne sono convinto, ma visto che non tutti hanno la vocazione di aiutare gli
altri, volevo capire, io per primo e poi far capire al pubblico: perché è stato
scelto Ada, per caso o per qualche motivo speciale?”
“Era
esattamente dove stavo andando con il mio discorso, Jo, Ada è stato scelto sia
perché lo conoscevo e lo stimavo, sia perché aveva voglia e bisogno di
crescere, ecco il punto, cioè volevo aiutare Ada e aiutare contemporaneamente me stesso e con
questo aiutare anche gli altri, ma non mi facevo illusioni, sapevo che per lui
poteva essere o anche non essere una missione...”
“Vuoi dire che
la sua efficacia nel vostro vasto campo è diversa dalla tua?”
“Direi di sì,
differente senza dubbio, nel senso che Ada guadagna più di me e se lo merita,
per l’amor di Dio, ma vuole sempre guadagnare di più e pensa sempre di meno
agli altri e sempre di più al suo conto in banca... la nostra è diventata
un’industria, Jo, lo sanno tutti, Ada vive in una suite a Leblon, io ho
ampliato le mie possibilità murando una casa sulla strada principale e ricevo
là, mi vesto come mi vestivo prima, paghiamo bene i nostri collaboratori, che
sono di prima qualità e lui mi accusa che potevamo essere ricchi a quest’ora,
non che lui non lo sia, forse poteva esserlo di più, o forse vuole che io
valorizzi di più a suon di banconote il nostro operato, dal suo punto di vista
ha anche ragione, solo che quello che cerco io è una cosa diversa dalla sua,
per me non è il successo, la fama e il potere. I nostri obbiettivi hanno
deviato da tempo, non potrei più fare senza di lui, perché controlla i
collaboratori, sia quelli pagati che quelli volontari con più grinta di quello
che potrei fare io, con più efficacia, insomma.”
Jo Soares
interruppe e domandò:
“Ma perché
questo nome Oda il Distante di Responsabilità?”
“Perché in
questo nome c’è tutta la mia filosofia, da tempo mi considero uno scettico, nel
senso che in tutto quello che viene messo in discussione, o meglio in tanti
casi, ho il 50% di argomenti a favore, approssimativamente, e il 50% di
argomenti contrari...”
“Un esempio pratico, per favore?”
“A questo punto, se qualcuno me lo domanda, io cito sempre un esempio
del mio maestro filosofico, IV, Indio Velho, che non è famoso, ma per scelta
sua, potrebbe diventarlo se volesse, ma non vuole. Insomma: mi spiegò un giorno
che si diceva in giro che in Brasile la filosofia era insegnata male, perché,
prima di tutto il filosofo deve essere coerente con le sue stesse idee e non
può vivere facendo il contrario di quello che insegna, sennò è solo un
professore, mentre il filosofo insegna quelle cose perché ci crede e le mette
in pratica nella sua vita quotidiana.
Al contrario: fate come io dico
ma non come io faccio, non è mai una buona regola.
Bene, in Brasile allora la filosofia è bistrattata, pare che questo
sia un fatto assodato, ma alcuni dicono che è meglio che sia fatta male che non
sia fatta per niente. IV dice che lui non sa realmente se è meglio una cosa o
l’altra, ecco un esempio di scetticismo. IV è uno scettico tranquillo, lo dice
lui stesso, forse anch’io lo sono...”
“Tutto bene, ma
questo che cosa a che fare con il nome Distante di Responsabilità?”
“Calma, Jo, ci
stavo arrivando proprio ora, prima di tutto il nome l’ho detto qualche volta
per scherzo e ha preso una serietà che io non pretendevo quando ne avevo
parlato con qualche amico o paziente, che a volta sono sia amici che
pazienti...”
Ada intervenne:
“Una cosa per
la quale non andiamo d’accordo è proprio questa, i pazienti sono una cosa e gli
amici un’altra, perché sennò si pagano le sedute con piatti di lenticchie e
gatti rognosi. Secondo me questo è sbagliato, perché lo dice anche lui stesso,
che per aiutare gli altri si deve rinforzare il nostro stesso esercito, avere la
forza di fare qualcosa per gli altri va bene, ma deve essere alimentata questa
forza, sennò muore...”
“Sai che volte
mi pento di averti portato in questa dimensione così confusa per te, Ada? Devi
capire Jo, che per lui rinforzarsi significa diventare ricchi e invece per me
diventare ricchi è perdere forza, vi spiego subito perché...”
Jo Soares ebbe
un moto d’impazienza:
“Oda, ma non
dovevi spiegare prima che diavolo significa Distante
di Responsabilità?”
“Calma, Jo, il
Brasile è nostro, anche se ho sentito dire che gli americani ce lo toglieranno
prima o poi, ma non c’è ragione di avere fretta, lo faranno indipendentemente
da quello che dirò o dirai e quando lo decideranno loro, a meno che,
naturalmente, nel frattempo, noi Brasiliani prendessimo finalmente coscienza
dell’importanza che abbiamo qui in questo mondo e che non possiamo farci
sfruttare da nessuno.
Ritorno al
nostro argomento ed era proprio su questo che stavo per andare a parare, la
parola stessa lo dice, Distante di Responsabilità, ecco, per essere distanti,
per avere il distacco, bisogna cancellare l’ansietà, mi spiego meglio: il
denaro, quando si accumula, ci fa diventare troppo attaccati, genera un’ansia
di averne di più, quando uno ha solo di che vivere senza accumulare, secondo me
sta meglio, il distacco non si vende e non si compra.
Una persona che insegna come si vive, non può vivere nella maniera
opposta di quello che insegna, l’ho già detto prima, no? E allora lo ripeto,
perché proprio questa è la differenza tra filosofo e professore di filosofia.
Non mi guardare male, Jo, ecco che arrivo diretto anche al nostro
punto: quando io ho il distacco lo posso insegnare e posso anche farlo bene. Tutte
le obiezioni, le pressioni e i tentativi di disturbo non mi raggiungeranno, non
intaccheranno la mia fede, (Kierkegaard, filosofo Danese, diceva giustamente:
non si può realmente sapere, si può solo aver fede), ma dicevo che io ho
acquisito questa separazione dalla polemica, dall’emozione, dal voler
dimostrare ansiosamente di aver ragione, quando si sa quello che si fa e si fa
tutto con calma, ecco il distacco. Le responsabilità però ci sono, sono grandi
e importanti. Sono antitetiche rispetto al distacco? No, al contrario delle
apparenze, la responsabilità è necessaria e lavora parallelamente al distacco,
in questo senso, il distacco è il veicolo e la responsabilità è il contenuto. Cioè,
la nostra responsabilità è quella di fare bene il nostro lavoro, perche non è
come vendere detersivi, dobbiamo stare molto attenti a quello che si fa, ma
anche a come si fa e questa maniera di passare saggezza è possibile solo
attraverso un distacco quasi ascetico, se però comincio ad attaccarmi ai soldi
tutto si fotte, scusate il termine, ma è il più calzante che io conosca e, se
permetti, Jo, ora che ho spiegato tutto ciò che era più importante, si dovrebbe
passare alla pratica. Infatti, vorrei fare un esercizio di distacco, perché è
uno dei punti di arrivo dell’uomo moderno e l’esercizio è ottimo anche per le
signore e signorine. (Risate) Dicevo che si cerca inutilmente, nello stress
caotico delle città, di sgombrare la testa dai pensieri, quante persone ci sono
qui, per esempio, che sono capaci di non pensare a niente?
Tu sei capace, Jo?”
“No, confesso
che ho anche provato più di una volta, ma mi sembra impossibile...”
“Nemmeno quando
il microfonino nel tuo orecchio è spento?”
Jo Soares lo
guardò divertito, il pubblico rise e applaudì.
“Va bene, va
bene ora ci proviamo insieme. E là tra il pubblico? Qualcuno
di voi è capace di liberare la testa dai pensieri e di rimanere, anche solo un
quarto d’ora, senza pensare a niente? È così difficile? Alzate le mani, per
favore.
Ecco, nessun altro? Vedi Jo? Sono in tutto... due, quattro... in
tutto sette persone, capaci di non pensare a niente, ma quanti siamo qua dentro
Jo?”
“Duecentocinquanta,
più o meno.”
“Ecco,
probabilmente questi sette, tra signori e signore, hanno già fatto meditazione,
è vero?
Ecco, va bene.
Proviamo ora, senza dormire però, a entrare nello stato di percezione
Alfa, cioè respiriamo profondamente e diamo un numero a ogni respiro, profondo,
contando alla rovescia da cento all’indietro...”
“Ma se io penso
ai numeri allora penso a qualcosa, e poi perché all’indietro?”
“È proprio
questo il punto, Jo, all’indietro perché sennò diventa una cosa automatica e
teoricamente penso a qualcosa, è vero, pensando ai numeri, sì, ma in pratica
questo è assai differente da una concatenazione di pensieri, come noi facciamo
di solito, perché qui noi, invece, ci concentriamo sulla nostra stessa
respirazione, una cosa naturale. I numeri servono solo per ingannare la nostra
mente, troppo abituata a pensare, troppo schiava dei nostri stessi pensieri, il
trucco è proprio questo. Allora chiudete gli occhi, concentratevi sulla vostra
respirazione profonda, l’importante è concentrarsi, cosa difficile per un
brasiliano, lo so, ma facilissima per un orientale abituato alle culture
religiose basate sulla meditazione, solo che loro non sono più intelligenti di
noi, hanno solo scoperto queste cose prima di noi, ora che le sappiamo possiamo
fare lo stesso!
Su, su,
respiriamo insieme: 100, profondamente, 99, occhi chiusi, respiro completo,
98...”
I primi profeti che hanno
dichiarato, rischiando di essere lapidati, che gli uomini erano tutti uguali,
sono stati Siddartha Gautama e Cristo. Infatti si sbagliavano di grosso.
(Iraq Falabela)
Ada 5
C’è da dire che gli dei
all’inizio erano poco tolleranti, piuttosto antipatici con gli uomini. Prima si
pensava a un dio come un essere celeste, sì, ma più che altro autoritario, poi,
coll’andar del tempo le varie divinità si sono un poco addolcite, almeno in
teoria.
Forse una questione di marketing.
Però in pratica la
religione si dimostra da un lato ancora assai rigida, o troppo, per i tempi
attuali, dall’altro troppo teorica e distante dai problemi nuovi e reali.
Per questo gli uomini hanno
cercato sempre più spesso e con maggiore convinzione, qualcosa di alternativo.
L’uomo, inteso come singolo
ma anche come umanità, può anche tacitamente riconoscere di avere sempre più
bisogno di sonori calci nel deretano, ma ha bisogno di sentirselo dire da
qualcuno che sia specializzato nel ramo.
Un aiuto per cercare e
rintracciare la retta via, spesso persa e difficilmente ritrovabile senza
l’aiuto di una voce che almeno abbia autorità, che pretenda di venire
dall’alto, insomma, qualcuno qualificato, che gli possa dire quello che lui sa
già.
Se la religione pare ormai
una roba arcaica, la chiesa e i sacerdoti sono ancora peggio.
Le nuove religioni brasiliane
inventate mischiando gli ingredienti e agitando le teste dei fedeli-pazienti,
che devono pagare per vedersi fregati prima, durante e dopo, sono un patetico e
assurdo - ma comprensibile - esempio di movimento collettivo, definibile anche
come circonvenzione d’incapace.
C’è una massiccia decadenza
dei valori, mentre se ne stanno lentamente sostituendo dei nuovi, almeno questo
è quello che si cerca ancora di sperare, perché quelli intanto sono in palese
ritardo.
Per cui, tra le altre cose,
si mette in dubbio l’esistenza di un dio o di più di uno, ma anche ammettendone
l’occulta presenza, se quest’ultimi possano ancora essere veramente buoni
consiglieri, per questi nuovi tempi che corrono come forsennati e non si sa nemmeno
in quale direzione.
In Brasile, molti futuri terapeuti non escono ben preparati dalla facoltà.
Essendo abbastanza vaga la scientificità, non ancora riconosciuta, il metodo si
giustifica coi risultati, difficilmente quantificabili, perché la colpa si può
facilmente accollare al già abbastanza disgraziato paziente. Alcune correnti si distanziano ulteriormente dalla scienza, man mano che
passa il tempo e si identificano di più con la filosofia.
Risultano veritiere storie
pittoresche di sedicenti cliniche dove i disperati pazienti (che le avevano già
tentate tutte, prima di approdare lì,) sono trattati con ogni genere di cura
alternativa che esuli dalle classiche. Per esempio si usa il film Matrix come
discussione della realtà e medicine esoteriche di vario tipo come ausilio
chimico. I pazienti si sentono risucchiati dagli specchi e tentano di passare
attraverso le pareti, ma sono contenti.
Penso che Oda mi abbia insegnato varie cose utili per la mia vita, tra
cui la scarsa utilità di una disciplina che si faccia applicare agli altri, ma
che si metta poco in discussione su noi stessi.
Noto un certo tipo di comportamento del genere negli specialisti del
ramo, intendo quelli qualificati da scuole e università, che spesso sanno
perfettamente cosa fare e sanno anche spiegarlo bene a chi deve farlo, ma, per
praticità, non si includono mai in quel gruppo.
Naturalmente questa è una tendenza comune un po’ a tutti, forse si
sbaglia a pretendere che lo specialista delle cure per la mente, debba, voglia o
possa usarle anche su se stesso. I terapeuti, essendo persone, purtroppo hanno
i loro problemi e dovrebbero sempre fare terapia, a loro volta, con altri
terapeuti, ma non tutti lo fanno. Scavare dentro il proprio io è un processo
faticoso e doloroso, a volte, o quasi sempre, porta fuori delle puzze
romantiche, sì, ma che possono risultare particolarmente sgradevoli, non solo
al naso.
Tre domande regolano la vita delle persone, le loro
relazioni con gli altri e con se stessi: Voglio? Posso? Devo?
Ci sono cose che vogliamo e
possiamo, ma sappiamo che non dobbiamo.
Esistono quelle che
vogliamo e dobbiamo, ma non possiamo.
E quelle che possiamo e
dobbiamo, ma che semplicemente non vogliamo.
Tre questioni che
apparentemente stanno dietro a tutto quello che facciamo, noi non ce ne
rendiamo conto, che invece sono piuttosto davanti alla totalità del nostro
mondo.
Tre portali che non sempre
ci conducono dove vogliamo in modo tranquillo e indolore, passarci attraverso
non richiede solo buone intenzioni o solida formazione morale, ma anche
maturità psichica e neurologica.
Questa discussione che per molto tempo è rimasta esclusivamente
ristretta al campo della filosofia, si estende sempre di più alla psicologia e
alle cosiddette neuroscienze.
La Neuroimmagine Funzionale serve per provare se la
terapia funziona, se questo parlarne è veramente costruttivo e se dà effetti
permanenti nel nostro sistema di imparare, nella memoria e nel processo delle
emozioni.
Attraverso esperienze fatte
in Brasile, Germania, Olanda e Giappone si sono confermati in pratica questi
dati, più o meno con gli stessi risultati.
Si hanno indizi che le
psicoterapie promuovono un rafforzamento delle funzioni esecutive, legate alla
corteccia pre-frontale, in pratica conducono a pensare meglio.
Insomma, chi fa la terapia,
nell’80% dei casi migliora, il valore iniziale del trattamento con
antidepressivi è inferiore a quello della psicoterapia.
La Neuroimmagine però
mostra che, nella maggior parte dei casi, non importa quale sia la terapia, i
risultati sono assai simili.
Nell’università di Leeds si
sono confrontati per anni i risultati su
5500 pazienti sottoposti a 3 tipi di terapia: TCC, psicodinamica e centrata
sulla persona. Risultati di nuovo equivalenti.
Si parla quindi di effetti
placebo, se quello che conta è più che altro la convinzione del paziente che
sta ricevendo un aiuto medico in buona fede.
Nel ramo della salute
mentale è già difficile sapere qual è il disturbo che il paziente presenta e se
la cura funzionerà, stiamo ancora attraversando un periodo empirico e non
scientifico.
Non si sa esattamente
perché i pazienti migliorano e forse esistono trattamenti migliori di quelli
esistenti che non sono ancora stati scoperti.
Un esempio è la genetica,
per molto tempo si è creduto che la schizofrenia fosse un male psicologico e
che si poteva migliorare con la terapia.
Quando però si sono
scoperte le sue origini genetiche e chimiche, la psicoterapia per trattare la
schizofrenia è diventata una cosa del passato.
Si considera sempre più
connesso ai geni il problema della depressione.
Una ricerca di biologi evolutivi degli USA mostra che l’iperattività ha
cause genetiche mentre gli psicologi dicono che è una strategia dei figli per
attirare l’attenzione dei padri, i biologi dichiarano che invece c’è un motivo
evolutivo. Quando gli esseri umani vivevano in gruppi nomadi, non riuscire a
fermarsi era un vantaggio competitivo per cacciatori e pastori. Con la vita
sedentaria di oggi invece si trova che questo sia un problema.
Non solo nei paesi industrializzati migliaia di persone insoddisfatte della loro vita cercano piuttosto
affannosamente una maniera di stare meglio, di essere migliori.
Si vogliono liberare di fobie, manie ossessive, vogliono dormire meglio,
avere forze positive per scendere dal letto la mattina, lasciarsi indietro
difficoltà sessuali o semplicemente trovare la vita un po’ più interessante.
Nelle società più moderne, negli ultimi tempi, chi frequenta lo
psicologo non è più considerato problematico, è diventato perfino un nuovo e
interessante argomento per conversare con gli amici.
Oggi si contano più di 400 tecniche differenti.
Il numero degli psicologi in Brasile è aumentato del 48% dal 2000, da
Se all’epoca di Freud
c’erano più casi di isteria era per via della repressione sessuale del secolo
19° , nella società attuale invece c’è più narcisismo, competizione e ansia di
ottenere il piacere.
Si vive in una società per
niente solidale e molto competitiva, dove le posizioni conquistate sono sempre
incerte.
Tutto ciò è in forte
relazione con casi sempre più comuni di panico, insonnia, ansia, stress e
depressione.
Gli psicologi, da parte
loro, dicono che il nostro passato cambia ogni giorno, nella nostra memoria,
mentre l’archeologia dell’anima mostra che i desideri dei nostri genitori
influenzano ancor oggi la nostra vita.
Gli eventi dell’infanzia sono importanti, perché quello che stiamo
facendo oggi ne è la conseguenza.
Il paziente in genere è condotto, a piccoli passi, a
scoprire che cosa sta facendo della sua vita, a rendersi conto del suo stesso
comportamento, successivamente a responsabilizzarsi, intanto gli si fa capire
che - però - non è il caso di sentirsene colpevoli.
La persona deve rendersi conto di quello che vuole e del fatto che
spesso è essa stessa che sabota i suoi desideri nel metterli in pratica in
maniera impropria, facendo come Penelope di Ulisse, tessendo una tela di giorno
e sfilacciandola di notte.
Se lei lo faceva per via dei Proci, quindi a ragion veduta, nella vita
in generale, oltre che un’azione faticosa, questa porta a una certa
destabilizzazione e conseguente confusione nel vivente stesso.
Ecco che le tecniche che si usano sono in genere pensate per riuscire a
far ragionare di nuovo e con più possibile completezza il paziente.
Il problema, però, è che
tutte queste tecniche, in costante perfezionamento, non sono ancora considerate
scientificamente provate.
Pare addirittura che
all’inizio lo stesso Freud abbia esagerato nel raccontare le sue esperienze a
maggior supporto delle sue teorie.
L’attuale neuroscienza dice che i sogni hanno più a che fare con la memoria
del giorno precedente che con i desideri repressi.
Col mio
mestiere di terapeuta non qualificato in Brasile ho avuto occasione di
conoscere vari esponenti di queste scienze poco scientifiche, tra psicologi e
psichiatri, più alcuni imbroglioni di differente tipo e livello.
La maggior parte delle 400
e più tecniche sono sorte durante gli anni 60, quando la rivoluzione sessuale
portò a scoprire l’importanza del benestare del corpo e della mente.
Una delle correnti più
forti è
Diversamente dalle teorie
di Freud,
“È
possibile che individui apparentemente normali e giudicati tali da esperti
psichiatri possano rivelarsi in particolari circostanze criminali efferati
senza il minimo senso di colpa? Quanto può essere potenzialmente diffusa
quest’anomalia dell’animo umano? Tali circostanze si possono verificare se
mancano le radici, la memoria degli errori passati, il non ritornare sui propri
pensieri e azioni, insomma la mancanza di un dialogo interiore con se stessi.
L’azione
morale nasce dal dialogo interiore, e proprio l’assenza, l’incapacità di questo
dialogo trasforma persone banali in agenti del male.
(Hannah Arendt)
Oda e Ada
Questa
è la base dell’insegnamento di Oda che non era un ciarlatano e predicava cose
nelle quali credeva per esperienza diretta, non per averle lette da qualche
parte. Un dialogo interiore è necessario, per chiedersi se quello che facciamo
è giusto, se è quello che vogliamo, se non nuoce a nessuno, se ci può portare
dei risultati utili e magari anche equi.
Il luogo dove tutto
è partito è stata la favela, perché i bisogni degli esseri umani, fisiologicamente
risultano acuiti dove si vive male, dove si rischia la vita ogni giorno, dove l’esistenza
proprio per questo diventa un bene più concreto e tangibile.
Nella favela si
pensa meno agli altri problemi dell’uomo moderno, come per esempio al senso
della nostra permanenza in questa valle di lacrime, qui la sopravvivenza
diventa l’unico scopo, l’unico pensiero. In un certo senso, quindi, si è più
umani e ci si allontana dalla mancanza di ideali della gente che va dietro al
consumismo selvaggio, alla globalizzazione, ma non per scelta propria, piuttosto
seguendo la maggioranza, come le pecore.
Dall’altro lato
queste cose che si vedono continuamente in giro, specie alla televisione, ma alle
quali non si accede facilmente, sono un generatore continuo di ansia di
ricchezza, per cui le persone che riescono a uscire da quello stato di miseria,
non saranno mai capaci di pensare a nient’altro, nella loro vita.
Quest’immagine di miseria
sempre davanti agli occhi genera un tipo di società che idolatra il denaro e
porta la gente di classe media e ricca a odiare questo per loro vergognoso aspetto
del Brasile, che per esempio non volevano mostrare nei film e meno ancora nelle
novelas, almeno fino a poco tempo fa, ma che ultimamente invece ne hanno
scoperto il fascino feroce e sensazionalista, da vendere specialmente fuori dal
Brasile e anche questo può essere un buon business.
Oda venne intimato di lasciare la favela, ma non
avendo ubbidito alla fine venne giustiziato dai trafficanti che controllavano
la favela Collina dell’Avvoltoio (Morro do Urubu) perché era diventato un
pericolo per loro, già che lui insegnava alle persone a vivere meglio, la gente
lo seguiva come un’autorità. Visto che Oda era diventato un personaggio famoso,
la fazione Amici degli Amici (Amigos dos Amigos) ha dovuto mettersi d’accordo
con le altre due fazioni di Rio de Janeiro, cioè Comando Rosso (Comando
Vermelho) e Terzo Comando (Terceiro Comando).
Io magari
ci avevo fatto dei soldi, ma non diventai mai un buon terapeuta perché
facendolo mi trovai ben presto a un bivio e scelsi l’altra strada. Avevo capito
che per fare veramente bene alla gente dovevo almeno cercare di eliminare i
prepotenti che purtroppo non avevano nessuna voglia d’imparare a sviluppare un
dialogo interno, ma preferivano piuttosto fare a pezzi gli avversari, togliere
il loro potere individuale per poco che fosse, ma in quel modo accumulare il
proprio, mattoncino su mattoncino costruivano dei grattacieli d’ingiustizia e
di sangue rappreso, ma anche di soldi e quindi di potere, che se non sono
esattamente la stessa cosa, spesso coincidono.
La mia
seconda carriera iniziava segretamente, tutto quello che mi aveva insegnato Oda
mi serviva, soprattutto a capire chi avevo di fronte, ma questo era il momento
in cui dovevo imparare a usare le armi, comprare informazioni direzionate e il
denaro ora ce l’avevo. Un addestramento da killer anche era un tipo di prodotto
non proprio facile a trovarsi in giro e soprattutto da parte di chi - magari - non
lo sarebbe andato subito a spifferare in giro. Intanto avevo conosciuto tanta
gente nuova che aveva bisogno del mio aiuto, ma che poteva anche darmene,
magari fare uno scambio, bastava trovare la persona giusta, per fortuna che nel
frattempo avevo anche iniziato a riconoscere di chi mi potevo fidare e di chi
no.
Iniziai
a guardarmi intorno in quella ben determinata prospettiva e dopo non molto capii
che Luiz, con il quale aveva più volte conversato sull’argomento, era la
persona che cercavo.
La
guardia specializzata finse di credere che era tutto per sicurezza personale,
ma poi mi chiese se poteva collaborare più attivamente al progetto. Io caddi
dalle nuvole ma pur negando iniziai a pensarci, intanto Luiz mi addestrava e
parlavamo spesso di vari argomenti, passando tempo insieme e condividendo
alcune idee diventammo quasi amici. Uno strano tipo di amicizia.
In
seguito mi sono stupito che Luiz Amaral Valdeno facesse parte di quell’organizzazione
che aveva le mie stesse idee e quelle di Oda, dentro c’era anche IV, Indio
Velho, amico e consigliere di Odair. IV che aveva cambiato stile di vita, per noia forse, o per
mancanza di donne, magari perché era sorta una nuova favela sulla sua collina, ma
anche perché voleva farsi una specie di giustizia che anche secondo lui al
mondo non esisteva ancora.
Le
menti dell’associazione segreta erano sei quindi, oltre a Luiz, c’era Iraq, di
cui ho già parlato, c’era Chantal, ex moglie di Oda e poi Charles, un
sudafricano fuori di testa ma intelligente assai. Questi ultimi due erano
quelli che portavano i soldi, o almeno la maggior parte, che poi non erano
direttamente loro, piuttosto dei loro ricchi genitori, ma ne avevano in quantità
e qualità. Gli altri finanziamenti li fornivamo tutti, nel limite delle nostre
possibilità. Una cinquantina sparsi per il mondo i collaboratori.
In
sintesi noi eravamo persone che volevano aiutare gli altri, insieme a noi
stessi, abbiamo provato a fare del nostro meglio, almeno per sentirci meno
stupidi e manipolati, ma abbiamo perso la capacità di credere che potesse
bastare, che non si potesse e non si dovesse fare qualcosa di più.
La
mia prima pistola fu una Glock, perché non aveva quasi per niente rinculo ed
era facile da usare.
(Tony Blair)
Iraq
Da solo non avrei potuto far niente, se non altro
perché non ho soldi e per fare quello che volevo fare ci vogliono i soldi, oltre
che coraggio e determinazione.
Il sistema t’incatena al denaro e anche quando ti
ribelli al sistema stesso, non per caso, quello ancora ti controlla, in qualche
maniera, attraverso quei meccanismi di cui l’uomo è schiavo se non da sempre o
quasi, è incredibile come è difficile fare qualcosa di differente.
Quando è morta mia madre, per un’infezione
all’ospedale S.Marta, mi sono trovato pronto all’azione e Adailton mi ha
portato qua da loro.
Tra di noi c’è anche IV, Indio Velho, un vecchio indio
di quasi ottant’anni, una specie di filosofo tranquillo e incazzato allo stesso
tempo, che ha vissuto come un eremita fino a non molto tempo fa. Direi che
nella vita si cambia e parecchio, anche se dentro di noi siamo sempre gli
stessi.
Una
volta non capivo che cosa pretendevano fare i terroristi, per me erano solo dei
matti da manicomio, anche se dal fuori forse è quello che tanti pensano di noi,
ma per fortuna non tutti. Insomma poi ho capito che il mondo ti porta a certe
scelte drastiche, non sono tutte inevitabili, ma solo possibili e logiche, credo
che sia questione di temperamento.
Avete
fatto caso che i terroristi ammazzano sempre innocenti che non hanno niente a
che fare col problema che si vuole combattere? Luiz mi ha fatto notare che tante
volte applicano il terrore per arrivare esattamente al contrario di quello che
dicono. Spesso vogliono ottenere sdegno e reazioni del consenso pubblico,
spostare il suffragio universale nella direzione desiderata. I terroristi veri
dovrebbero agire diversamente: perché non colpire i potenti, invece, chi
veramente ha le mani in pasta?
Quando un uomo con la
pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto.
(Dal film “Per un pugno di dollari”)
Luiz
Passiamo la vita intera a cercare di capire quello che ci circonda,
leggendo, documentandoci sulle cose del mondo, fino al punto in cui ci rendiamo
conto che abbiamo finalmente un’idea approssimativa e generale sufficiente. La
gioventù ci ha già abbandonati da tempo e quel temperamento esplosivo di una
volta è diventato assai più riflessivo, raggiunta e passata la cosiddetta mezza
età e quella necessaria distanza che ci permette di vedere le cose con una
invidiabile visione d’assieme, è vero che ora il tempo passa troppo rapidamente,
è una caratteristica della vecchiaia. Ma ora non abbiamo più dubbi a rispetto
di come funziona il mondo.
Chi
difende gli altri impara - anche senza volerlo - il miglior sistema per farli
fuori. Credo che la mia esperienza professionale sia stata utilissima al
gruppo, ma ho dovuto studiare cose alle quali non avevo nemmeno mai pensato. Se
ci si addentra in un campo qualsiasi si vede che la complicazione aumenta, ma i
risultati sono direttamente proporzionali alla competenza, oltre che alla
freddezza e alla determinazione, nel nostro caso.
Da
qualche anno mi sono reso conto che si parla di terrorismo a sproposito, nel
mondo, spesso sono gli stati stessi, spinti da grossi privilegiati alla ricerca
di ulteriori vantaggi, che intraprendono il vero terrorismo, quello che non si
vede ma che si sente sulla pelle di milioni di persone, quelli che hanno votato
per certi politici che fanno esattamente il contrario di quello che dicono. In
sostanza tutti vogliono i privilegi giacché ai diritti non ci crede più
nessuno. Però questo significa prendersi quello che è degli altri.
Gli ideali sono come la stella polare, sono
irraggiungibili, ma indicano la retta via
(Anonimo)
Chantal
Se queste mie parole diventeranno pubbliche, un
giorno, significherà che qualcosa è andato storto, che ci siamo sfasciati
contro il muro dell’indifferenza, il che non è troppo difficile a immaginarsi.
Oppure che siamo diventati eroi internazionali, piuttosto, questa è una
guerriglia a tutto campo e ogni cosa può accadere, noi non siamo certo qui per
la gloria.
Il Brasile è il luogo ideale per nascondersi, da
sempre, lo abbiamo scelto come sede. Il termine terrorista è sempre stato usato
a sproposito, ma noi siamo dei veri terroristi, alla fine e/o finalmente. La favela
è il luogo dove l’ingiustizia sociale è più evidente, non ci ho mai abitato, ma
il nostro movimento si può dire che sia nato in una favela brasiliana, perché è
proprio lì che la gente può comprendere al volo l’ipocrisia dell’epoca moderna,
della civiltà occidentale, di un mondo dove le cose brutte si nascondono e
quelle apparentemente belle si sbandierano.
Spesso è proprio la rabbia che ci viene fuori
prepotente, ma ci hanno insegnato che bisogna contenersi, perdere il controllo
non serve a niente e su questo siamo d’accordo.
Bisogna sfogarsi però, sennò s’impazzisce, quindi ho
capito un’altra cosa, che la rabbia si può controllare e anche sfogare, basta
non perdere la visione d’assieme, un disegno generale con una prospettiva
razionale, un obbiettivo anche pazzo da raggiungere. Non so perché ma sento il
bisogno di giustificarmi, eppure so che chi ci stima non ne ha bisogno, che a
chi ci odia le mie spiegazioni non serviranno certo a cambiare idea. Forse ho
solo bisogno di convincere me stessa, chi lo sa?
Ho conosciuto Charles all’aeroporto di Londra, da
tassista incontro quasi solo e sempre gente che non rivedrò mai più, ma con lui
ci siamo trovati subito bene, proprio sulle idee spicce e fondamentali, quelle
che sono alla base per una ribellione ben calcolata, studiata nei particolari.
La nostra rabbia contro il mondo, la società, la
politica, le banche, le multinazionali, il WTO e via discorrendo, quella rabbia
fredda e controllata ha deciso per noi, in fondo e i soldi di Charles ce lo
hanno permesso, o meglio, quelli di suo padre, oltre a quelli dei miei, che non
sono pochi, tutti collaboriamo nel limite dei mezzi che abbiamo a disposizione.
Purtroppo nella storia del mondo di grandi uomini ce
ne sono sempre stati pochi, non sto
parlando di ciccioni, che quelli sono numerosi. Un grande uomo era il mio ex
marito Odair, piuttosto magro, un altro è stato Ghandi, secco come un chiodo.
Un’ironia che il primo pratico, ma anche simbolico, atto
del nostro sodalizio è stata l’esecuzione dei capi dei tre comandi dei
trafficanti di Rio de Janeiro, che avevano ammazzato Oda, mentre ci preparavamo
ancora a entrare in azione.
Il bandito è un traditore naturale, ogni sottocapo
vuole diventare capo e così via, è stato relativamente facile e a buon mercato.
Oda ci mancherà e non solo a noi, il mondo ha bisogno di gente come lui.
Dopo ecco il deputato brasiliano Sandro Vaia, suggerito
e poi documentato da Iraq e Adailton, scappato negli USA dopo che uno dei suoi
grattacieli, costruiti con sabbia di mare e materiale scadente era caduto e la
gente superstite, oltre alla vita dei familiari, aveva perso anche la sua casa
senza speranza di potersela vedere risarcita.
Non era stato difficile assoldare un professionista e
metterlo sulle tracce dello schifoso. Naturalmente poi iniziammo anche a fare la
propaganda sui giornali e su internet, chiamammo il nostro gruppo la Fine della
Pazienza. Noi naturalmente miravamo molto più in alto, perché Vaia era un pesce
piccolo, era stato cassato dal parlamento e se ne era dovuto andare dal Brasile,
era solo un simbolo del passato, anche se piuttosto recente.
Il prossimo passo era qualcuno di molto più
importante, molto più attuale, ma già passato oltre il suo periodo d’oro di
danni insistiti al suo paese e di ricchezza disonesta, l’ex presidente del
consiglio italiano Gino Bottaini. Figurarsi che dopo essere stato condannato
per corruzione, concussione, abusi di potere, vari scandali sessuali e non, dopo
aver tenuto sotto scacco l’Italia per quasi venti anni, dopo essere stato
mandato via dal parlamento, continuava sottobanco a dirigere l’Italia, aveva
ancora diritto al vitalizio e alla scorta pagata dai contribuenti, che invece
lo avrebbero volentieri fatto a pezzettini. Tutto grazie all’appoggio di
quell’altra parte del paese, che lucrava con la disfatta di quella che
chiamavano ancora patria.
Intendiamoci: la nostra idea era piuttosto
internazionale, ci tenevamo a chiarirlo nei nostri comunicati, volevamo e vogliamo
colpire duro ovunque ci fosse del marcio a grandi livelli e c’era l’imbarazzo
della scelta, bastava guardarsi intorno.
Naturalmente uno dei nostri punti forti è avere un
basista o addirittura gruppi che abbiano interesse contrari alla nostra futura
vittima, non necessariamente per amore della libertà, ma a volte solo per
prendere il suo posto. Per questo non dobbiamo mai rivelarci o aprire il nostro
gioco, con nessuno.
La corruzione era il modus operandi di Gino e noi
riuscimmo a farlo spiaccicare al suolo dopo una caduta da venti piani, con i
suoi stessi metodi, cioè grazie a uno dei suoi uomini della sicurezza, che
avremmo pagato bene, ma riscosse solo la metà, cioè l’acconto, perché fu
massacrato dai suoi colleghi.
Industriale di armi, il padre di Charles sarebbe stato
un uomo da colpire come tanti altri, ma lui lo voleva fare in maniera
intelligente, senza ammazzarlo o rovinarlo, come certo meritava, piuttosto
eliminando, grazie ai suoi soldi, quelli come lui.
Il prossimo nome era Joachin Whitebread.
"Per più di un secolo, gli estremisti ideologici
ai due lati opposti dello spettro politico hanno colto al volo incidenti ben
pubblicizzati per attaccare la mia famiglia, per l'influenza eccessiva che
sostengono noi maneggiamo sulle istituzioni politiche ed economiche americane.
Alcuni credono che facciamo parte di una cabala segreta che lavora contro
l'interesse anche degli Stati Uniti, oltre a quelli di tutti gli altri paesi, definendo
me e la mia famiglia come internazionalisti
e di cospirare con altri nel mondo per costruire una struttura politica ed
economica globale più integrata. Se questa è l'accusa, mi dichiaro colpevole, e
sono orgoglioso di esserlo ".
Ecco cosa ha avuto la faccia tosta di dire in
un’intervista recente. La moneta unica, magari i microchip in un secondo
momento, sono gli obbiettivi, in verità e tutto questo orchestrato a forza di
crisi globali, al costo di tante vite distrutte di persone economicamente
insignificanti.
Una volta dei falsi terroristi italiani dicevano colpirne uno per educarne cento, qui la
dimensione è molto maggiore, la ripercussione sarebbe stata una Tsunami, se ci fossimo
riusciti. Certo, ma non era facile, riuscire a raggiungere uno che da sempre è stato
oggetto di odio, aveva una notevole esperienza nel difendersi, mentre attaccava
il mondo con delle altre armi più ipocrite e nascoste, gestendo il consenso
insieme ad altri figli di puttana del genere.
Dopo Bottaini e alcune altre teste parziali e fottute
dall’avidità, la stampa di tutto il mondo si era accanita contro di noi, lo
stesso Milo Mörbach, già nella nostra lista, acerrimo nemico di Gino, ma molto
più ricco e potente, proprietario di testate giornalistiche e di reti
televisive in lingua inglese tra le più importanti e numerose del mondo.
Charles dice spesso:
“Ora tutte le merde più importanti stanno pensando che
potrebbe toccare a loro, chi lo sa, magari la prossima volta, i nostri
comunicati sono vaghi ma precisi, e noi andiamo in crescendo.”
Whitebread bisognava colpirlo nel suo relax quando non
ci pensava neanche, infiltrare un uomo trai suoi era possibile, ma ci voleva
tempo, pensammo allora al vecchio e caro fucile col cannocchiale, ma la
mongolfiera non andava bene, la sua villa era circondata da un parco, c’erano
troppi alberi, la vegetazione era fitta. Il banchiere aveva una specie di
castello finto antico, nel Vermont, faceva spesso passeggiate nel parco, magari
parlando col cellulare tutto il tempo.
A Charles allora venne l’idea dell’esplosivo dentro il
cellulare, ce ne entrava poco, se usava il vivavoce non andava bene, doveva
scoppiare mentre lo teneva accostato all’orecchio, per farlo senza uccidere
altre persone vicine era necessario vederlo e il parco era l’ideale, anche se
tra un ramo e l’altro. Riuscimmo ad arrivarci attraverso la cameriera, ce lo
fece avere di notte, lui lo lasciava sempre nel suo studio, in un cassetto chiuso
a chiave. Col cannocchiale lo seguimmo a stento finché iniziando una
conversazione tra le tante, la testa gli esplose in modo assai spettacolare, anche
se purtroppo non si poté filmare. I suoi uomini cercarono il punto da dove
fosse partita la fucilata ma non lo trovarono, perché non esisteva, c’era solo
un potente telecomando.
Ci fermammo per qualche mese, anche perché il nostro
uomo che aveva ucciso Vaia aveva venduto la sua intervista ai giornali e ci
venne paura che potessero risalire a noi.
Meno male che l’avevamo contattato per internet e tra
noi c’erano due hacker formidabili, gente che aveva le nostre stesse idee e che
ora faceva parte del nostro staff in pianta stabile.
Ora ci stiamo preparando per colpire a livello
ambientalistico quelli che non accettano di dare limiti all’inquinamento,
l’inesorabile distruzione delle condizioni di vita sulla terra è un aspetto determinante,
ormai allacciato e mischiato con altre magagne politiche a livello
internazionale.
Insomma le rivoluzioni ci sono anche state al mondo, e
pure spesso, anche se meno di quante avrebbero dovuto essercene, e comunque sono
servite come simboli magari anche notevoli, ma di poca durata, perché chi
prendeva il potere poi si comportava ugualmente se non peggio, un esempio
recente è stata la Primavera Araba. Comunque le rivolte riuscivano a provocare
del disturbo, dei costi e allora i potenti sono corsi ai ripari. Ora c’è una rete di menzogne impenetrabile
che manipola tutto e tutti, in maniera sistematica, il consenso viene venduto e
comprato come una merce qualsiasi, ma sempre più preziosa.
E non dimentichiamoci, anche se i professionisti lo
disdegnano, che è difficile sfuggire a un buon cecchino armato di un moderno
fucile col cannocchiale e computer integrato; gli americani ne hanno inventati
e realizzati di quelli che calcolano anche l’incidenza del vento. Come cazzo fanno
le guardie del corpo a proteggere questi potentissimi coglioni, se si possono
ammazzare anche da distanze oltre il chilometro?
Una delle nostre vittime è stata giustiziata da un
pallone aerostatico, tutti l’avevano visto e salutato con la mano, ma nessuno
ha pensato che i colpi erano partiti proprio da lì, ci sono diventati matti e
non c’hanno capito una beneamata.
Non è anche un’ironia che i soldi di Charles presi dai
genitori, siano proprio quelli a castigare gente come loro, che fabbricano armi
e le vendono in tutto il mondo?
Alla fine tra quello forte e quello intelligente chi
vince? Per molto tempo ho pensato che purtroppo vinceva quello più forte, ora
penso invece che la spunti quello più intelligente, perché la sua mente gli ha
permesso di capire che non è astuto come sembra vivere sulle disgrazie degli
altri e che doveva trasformarsi e diventare anche forte. Insomma lo diceva pure
Darwin, chi sopravvive sarà colui che saprà adattarsi meglio alle situazioni.
Magari uccidere le teste di cazzo non serve a niente,
perché poi ne arrivano altre, a volte sono famiglie con tradizioni secolari,
come nel caso di Whitebread. Forse è una cosa solo simbolica, ma almeno ci si
sfoga un po’, non ci si sente impotenti, non si sta colle mani in mano.
Chissà che poi invece facciamo nascere una moda, che
una volta tanto possa servire a qualcosa di concreto e gli schifosi associati
capiscano finalmente che non vale più la pena di rischiare.
Magari
a forza di calci in culo lo capiscono che la prepotenza è anche un metodo
efficace, sì, ma solo finché non trovano qualcuno più prepotente di loro.
Se la natura ha fatto sviluppare l’umanità in questo
senso, la Fine della Pazienza è ancora solo un virus, spero pericoloso però come
quel casuale asteroide che a un certo punto, per caso o per destino scritto da
chissà chi, mise fine al dominio di 160 milioni di anni dei dinosauri sulla
terra.
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