Thursday, January 21, 2021

LA FINE DELLA PAZIENZA



Un giorno costruiranno della bombe talmente intelligenti che non scoppieranno più.

(Anonimo)

 

Adailton e Odair

 

Adailton detto Ada viveva nella favela Rocinha di Rio de Janeiro, faceva il camelô, cioè vendeva cose per strada, su un tappeto di velluto bordeaux al quale era piuttosto affezionato e che cercava di tenere più pulito possibile, ma la polvere era troppa.

Rocinha era un quartiere della Zona Sud della città di Rio de Janeiro in Brasile. È ancora una della 700 favelas che fanno parte della città di Rio de Janeiro. È la favela più grande del mondo e conta più di 150 000 abitanti ufficiali.

Ada stava cominciando alla non più verde età di cinquant’anni a soffrire di solitudine, sebbene avesse passato ogni giorno della sua vita in mezzo a un formicaio di persone. Da un poco di tempo aveva perso la voglia di vivere, e ne aveva sempre avuta poca. Ada non aveva amici, né una donna, nemmeno un cane, aveva solo una tartarughina Ninja, cioè Ninja era il suo nome e si ricordava di lei una volta al giorno, quando gli dava il mangime. Un povero animaletto inespressivo ma testardo, che insisteva caparbiamente nel sopravvivere e che, a volte, gli sembrava che gli assomigliasse, non solo fisicamente.

Adailton era sempre sorridente, ma dentro era un’altra cosa, in Brasile nessuno sembrava triste, tutti scherzavano e parlavano assai, a volte erano veramente felici, o almeno si sentivano vivi, perché sapevano che non potevano abbandonarsi troppo alla malinconia, come nei paesi più sviluppati nei quali la gente andava dallo psicologo e si lamentava - senza accorgersene - di avere pochi autentici problemi.

D’accordo, poi con la crisi mondiale sorsero dei problemi veri, ma non li sapevano affrontare serenamente, proprio perché avevano vissuto degli anni inventandosi i loro stessi guai.

In Brasile invece le persone si divertivano con poco, il giorno per giorno le spingeva, lavoravano tanto e non guadagnavano quasi niente, la vita non era facile, ma era pur sempre la cosa migliore che avevano, insomma: l’unica. Chissà, invece, che cosa sarebbe successo dopo.

Ecco che una domenica mattina qualcosa convinse Adailton che doveva proprio andare a visitare suo cugino Odair. Da anni non lo vedeva, l’ultima volta avevano fatto un churrasco da lui, una tradizionale grigliata, una grande riunione di famiglia e di amici. perché Oda si stava per sposare e voleva far conoscere la sua fidanzata francese Chantal a tutti i parenti.

Nell’euforia alcolica, alla quale non era nemmeno troppo abituato, Ada si era dimenticato di riportare a casa i suoi spiedi nuovi. Fu proprio quel pensiero che lo fece decidere di smuoversi dalla sua solita apatia. Quegli spiedi di Ada abbandonati a casa di Odair detto Oda, da anni, Ada doveva proprio andare a riprenderseli.

Oda e Ada erano di origine meridionale, la loro cultura era quella Gaúcha, le loro famiglie avevano stazionato alcune generazioni nella terra del churrasco, e questo fatto fu decisivo, affinché Ada si decidesse a fare quei chilometri che lo separavano da Oda e da un grande cambiamento della sua vita. Non sapeva il vero motivo di quel viaggio attraverso le favelas di Rio de Janeiro, credeva di andarci per via degli spiedi. Insomma il destino è sempre stato una roba sottile ma insinuante, a volte impercettibile, ma forte, a volte, specialmente quando non sembra proprio.

Detto fatto, dopo una sommaria colazione con caffè, pane e margarina, scese verso la strada attraverso i vicoli cementati della favela. Era una giornata di sole incerto, sulla strada al di sotto il transito era caotico, come sempre, il rumore assordante era un misto di centinaia di suoni. C’era la feira de rua (mercatino di strada), tirava un venticello fresco che veniva dal mare, dalla Baia di Guanabara.

La favela Urubu (Avvoltoio) era lontana, Ada cambiò due autobus e la vide finalmente su una collina che, da lontano, pareva perfettamente ovale, le casupole attaccate con la forza dell’ostinazione sulla curva ripidissima del pendio. Adailton dovette attraversarla dal basso verso l’alto e gli ci volle quasi un’ora, anche perché si perse più volte e finì per chiedere informazioni in giro.

Quando chiese di Oda, gli domandarono se quello che cercava era Oda il Distante di Responsabilità, (Oda o Distante de Responsa), lui disse di no, insomma che non lo sapeva, ma loro replicarono che era l’unico Oda che conoscevano e allora che abitava lassù in alto, dove finiva la favela e cominciava il boschetto sullo strapiombo detto cimitero dei giustiziati.

La casupola di Oda era l’ultima, le rocce e i grandi alberi rendevano difficili gli ultimi cento metri della collina, prima del grande roccione, luogo di esecuzioni dei trafficanti traditori o presunti tali e alla base del quale, in mezzo ai cespugli e alla spazzatura più resistente ai fattori atmosferici, i cadaveri, in mezzo ai cespugli, senza fretta diventavano scheletri.

 

 

 

 

"Il timore di essere sopraffatti e distrutti da orde barbariche è vecchio come la storia della civiltà. Immagini di desertificazione, di giardini saccheggiati da nomadi e di palazzi in sfacelo, nei quali pascolano le greggi, sono ricorrenti nella letteratura della decadenza dall'antichità fino ai giorni nostri."

 

                                              (W. Schivelbush)

 

Favela

 

Con il termine favela (in portoghese; al plurale:  favelas) si indicano le baraccopoli brasiliane, costruite generalmente alla periferia delle maggiori città. Le abitazioni sono costruite con diversi materiali, da semplici mattoni a scarti recuperati dall'immondizia e molto spesso le coperture sono in Eternit. Problemi comuni in questi quartieri sono il degrado, la criminalità diffusa e gravi problemi di igiene pubblica dovuti alla mancanza di idonei sistemi di fognatura e acqua potabile. Sebbene le più famose fra esse siano localizzate nei sobborghi di Rio de Janeiro, vi sono favelas in tutte le principali città del paese.

Il nome favela deriva da un fatto storico: rifugiati ed ex soldati reduci della sanguinosa guerra di Canudos (1895 - 1896), nello stato di Bahia, occuparono un terreno collinare libero presso Rio de Janeiro, poiché il governo che alla fine della guerra aveva smesso di pagarli, non diede loro delle abitazioni in cui vivere. Questa collina, chiamata in precedenza Morro da Providência, fu da loro denominata Morro da Favela come il luogo sede del principale accampamento militare nella guerra di Canudos (essi crearono in questo modo il loro accampamento nei pressi dell'allora capitale). La favela o  faveleira (Cnidoscolus quercifolius) è una pianta che cresce prosperosa nel semi-arido sertão brasiliano dove ebbero luogo le battaglie contro i ribelli di Antônio Conselheiro.

Nel corso degli anni la maggior parte della popolazione povera, costituita per lo più da ex schiavi liberati in seguito alla legge Aurea del 1888, si trasferì lì rimpiazzando gli originali rifugiati e divenendo il gruppo etnico maggioritario. Tuttavia, molto prima che il primo insediamento chiamato "favela" diventasse una realtà, i neri liberati venivano allontanati dal centro della città verso i sobborghi. Le Favelas erano abitativamente vantaggiose per loro poiché gli permettevano di essere vicini al lavoro, e nello stesso tempo di tenersi lontani da luoghi nei quali non erano benvenuti.

La maggior parte degli abitanti di una favela (chiamati in senso dispregiativo favelados) sono poveri e vivono con meno di 100 dollari al mese. Le abitazioni sviluppate in maniera irregolare e con materiali di bassa qualità sono spesso costruite sui fianchi delle colline (in portoghese morros) su un terreno franabile in precedenza ricoperto da vegetazione. Le piogge torrenziali tipiche di queste zone causano numerosi crolli e anche un elevato numero di vittime. Il degrado sociale e la povertà favoriscono anche il sorgere di attività criminali. Nelle recenti decadi, le favelas sono state disturbate dai crimini legati alla droga e alla guerra tra gang. Secondo alcuni un codice sociale comune proibisce ai residenti delle favelas di essere coinvolti in attività criminali all'interno della loro stessa favela e l'ordine viene mantenuto dalle organizzazioni criminali che si sostituiscono al potere dello Stato. Le Favelas sono spesso considerate una disgrazia e una vergogna dai brasiliani, ma possono essere viste come una conseguenza della distribuzione ineguale della ricchezza nel paese e alla mancanza di politiche a sostegno della popolazione più povera.

La maggior parte delle attuali favelas carioca crebbero negli anni settanta, quando il boom dell'edilizia dei quartieri più ricchi spinse un gran numero di lavoratori a una sorta di esodo dagli stati più poveri del Brasile verso Rio de Janeiro in cerca di fortuna. Vasti allagamenti nelle aree povere a bassa quota di Rio contribuirono inoltre a far muovere la gente verso le favelas, le quali si trovano sui versanti collinosi della città.

Secondo una ricerca del 2011 fatta dal Istituto brasiliano di geografia e statistica, IBGE, oltre 11,4 milioni di cittadini brasiliani, ovvero circa il 6% della popolazione, vivono nelle favelas.

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Favela

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non disperare la tua anima gemella è lì fuori! Tra 7 miliardi di persone. In 5 continenti diversi. Supponendo che sia viva e che sia single.                                                               

                                                                (Iddio, Twitter)

 

 

Chantal e Odair

 

Le donne, il sesso e l’amore sono robe problematiche, per noi uomini, dal nostro punto di vista. Certo lo sono anche per le femmine, dall’altro lato, gli uomini il sesso e l’amore, ma io comprendo già poco il mio, per occuparmi anche del loro.

Per esempio, quando entrai in casa di Chantal rimasi subito conquistato dal gusto sobrio dell’arredamento, dalla vista meravigliosa sul fiume, poi dalla sua simpatia, dalla sua calma, dalla sua maniera di guardare, di toccare le cose, ma prima ancora dalla sua bellezza fisica.

Finalmente una creatura francese di sesso femminile che sapeva ascoltare e che parlava solo quando aveva qualcosa da dire, non che gli uomini moderni lo facciano meglio, in genere, ma le donne m’interessano di più.

Mi fece strada tra le stanze arredate con gusto e le varie sfumature del beige contrapposte ai marroni di legni chiari, scuri e intermedi, sfumati e misti, dalle vetrate la vista sotto, su quel favoloso circostante era da togliere il fiato.

Certo che anche i suoi movimenti non favorivano la mia più serena respirazione, ma dopo poche sue parole non la vedevo già più come un oggetto sessuale, ma come una magnifica compagna, una donna completa, simpatica, affabile, sicura di sé ma non interessata a dominare, piuttosto a condividere.

Ovviamente mi sbagliavo, come tutte le altre volte, ma non lo sapevo e mi volevo illudere, perché quell’illusione mi dava una voglia di vivere che in altre maniere non riuscivo a ottenere.

La lezione in sé  era diventata un particolare insignificante per me, un professore veterano, le regole e la didattica divennero poi routine, dal punto di vista tecnico, quello che cambiava era come venivano ricevute, con tutte le vibrazioni, le piccole cose che avvenivano quasi di nascosto e che si capivano tra le righe, poi i derivanti pensieri del professore di lezioni private, cioè io.

Ammettiamolo: per un modesto professionista del mio genere la vita poteva essere interessante, bastava saper stare al proprio posto.

Si conoscevano persone di vario tipo, antropologicamente parlando, ma anche di classe e livello culturale assai differenti, e poi se c’erano persone moleste si poteva inventare una scusa e sparire subito dal loro libro paga e conseguentemente dalla loro vita. Si guadagnava né poco né tanto, ma si lavorava quando e quanto si voleva, insomma era una meraviglia. Bastava non confondere l’amicizia col lavoro e se c’era qualche bella ragazza non si doveva fare troppo i lumaconi e invadere la sfera della loro vita privata.

Riassumendo non si doveva prendere l’iniziativa e se dall’altra parte chi la prendeva non era ben accetta, bisognava farglielo capire senza offenderla, magari senza perderla come cliente.

Se si vive da soli, se da sempre si è sognato di trovare una donna come quelle dei film, che non esistono, ma quando se ne trova una, cioè si crede che sia una di quelle, il difficile è rimanere imperturbabili.

Per farla breve mi trovai innamorato, a quasi cinquant’anni, di una donna di trenta che ne dimostrava venticinque, in più ricca e tremendamente differente da tutto quello a cui ero abituato.

Coll’andar del tempo notai che la sua intelligenza era diversa da come mi ero immaginato idealizzandola, era molto meno arguta e intellettuale di quello che voleva far credere, ma riusciva a darla a bere in diversi tipi di occasione, il suo forte era il modo di fare, era molto soave e gradevole in tutto quello che faceva e anche quando non faceva niente non lo faceva nel modo giusto.

Mi accorsi ben presto che avrebbe potuto ottenere da me quello che voleva.

Quello che mi rovinò però era che non stava funzionando come le altre volte, perché questa pareva starci, pareva apprezzarmi, cosa che di solito non mi succedeva e quando mi capitava me ne accorgevo sempre in ritardo.

Comunque tenevo sempre presente il principio di agire di rimessa, cosa che facevo naturalmente da sempre, non riuscendo a prendere mai l’iniziativa con le donne.

Aspettavo la sua mossa che non arrivava mai e mi piaceva quasi, una volta tanto, quel cammino d’incertezza, per arrivare a un qualcosa che forse non sarebbe mai giunto, ma proprio questa insicurezza mi faceva sentire assai interessante la mia routine.

Mentre aspettavamo chissà cosa e chissà per quanto tempo, ci scambiavamo, libri, dischi, consigli, barzellette, impressioni frizzanti sul mondo e sui loro personaggi.

Ho sempre pensato che le donne assai belle sono le più disgraziate, insieme agli uomini molto ricchi, perché tutti vogliono da loro quello che loro non hanno nessuna intenzione di sganciare, anche se ovviamente sono cose differenti tra di loro. Nella mia riflessione da curioso esterno, sono arrivato alla conclusione che la loro vita diventa un tira e molla noioso e ripetitivo e finiscono per considerare che vorrebbero magari essere apprezzati per qualcos’altro. Intanto ho sempre trovato irrimediabilmente antipatici tutti i facenti parte di queste due categorie.

Con lei era differente, però, perché il suo modo di comportarsi non era per niente comune, per una bellezza tridimensionale di quel genere.

I libri, le musiche, i film scaricati in internet diventarono la nostra merce di scambio ripetuta, i nostri gusti erano diversi e le cose che mi dava lei non mi piacevano, in genere, ma le studiavo sia per capire come era di carattere, (cosa pensava, come viveva,) sia per non doverglielo dire, che non mi avevano affatto entusiasmato, fingevo che mi fossero invece risultate gradite.

Ogni tanto qualcosa m’acchiappava, qualcosa di successo, un film recente o qualcosa sui cui gusti più superficiali e universali era più facile incontrarsi.

Lei invece diceva sempre bene delle cose che gli mandavo per internet o le consegnavo personalmente e non mi pareva che mentisse, come invece io facevo regolarmente.

Lei era più aperta di me, o sapeva mentire bene, oppure io ero più fesso in senso generale e questa è l’unica cosa sicura.

Tutto scorreva bene, dopo quattro mesi di lezione io ero praticamente cotto, quando gli mandai un libro on-line che avevo scaricato e che stavo leggendo con estremo interesse, sia perché seguiva alcuni miei principi fondamentali della vita, sia perché aveva un dialogo interessante, in un francese attuale e perfino ironico e divertente, in più seguiva un ritmo incalzante. Da aggiungersi anche che ne era stato tratto un film di successo, in Francia.

Insomma la trama del nostro romanzo d’amore iniziò così: un’allieva ricca e bellissima, piena del suo gioco di potere. Un professore atipico, sognatore ma coi piedi per terra, gli mandò un libro on-line che non aveva ancora completamente letto.

Poi lo finì di leggere e scoprì che nel finale c’era una scena quasi porno. Si domandò se doveva avvertirla, di non leggerlo, ma pensò che lei ugualmente non lo avrebbe fatto. Però rimase in dubbio per dei mesi, a volte gli parve che qualche frase detta, qualche cenno rimasto a metà, alludessero a qualche cosa…

Potrebbe essere stata una dichiarazione di pessimo gusto, sul sesso spinto e magari da considerarsi volgare… ma forse lei non leggeva mai un libro intero, e poi in un idioma che stava imparando. No, no.

Lei era francese di famiglia ma nata e cresciuta in Brasile, per questo faceva lezioni di lingua con me, che a quel tempo portavo anche in giro i cani dei ricchi a pagamento. E poi non mi ha mai fatto pesare il fatto che vivevo in una favela, anzi questo fatto la incuriosiva.

Alla fine ci sposammo e andammo in Francia, a spese di suo padre. All’inizio quella vita era troppo bella, ma durò poco, insomma cinque anni non sono tanti, ma non furono inutili, almeno per me.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

"Não quero ser mais, e nem menos que ninguém. E o que você quer pra mim, eu quero em dobro pra você também."

 

“Non voglio essere di più, e neanche meno di nessuno. E quello che tu mi auguri, lo auguro raddoppiato anche per te.”

 

(Dina Di – Cantautrice Rap)

 

 

 

La realtà delle favelas

 

In Brasile il fenomeno di degrado di molte città è ben conosciuto. Negli interstizi o nelle periferie delle metropoli sorgono e crescono spontaneamente agglomerati di baracche o case di fortuna, un fenomeno conosciuto in loco come favelizzazione, ovvero la trasformazione dello spazio urbano in favela. Le favelas sono agglomerati di abitazioni e baracche sorti spontaneamente dalla fine del diciannovesimo secolo in tutto il centro e Sudamerica. Dal secondo dopoguerra in avanti, soprattutto a partire dagli anni cinquanta, la favelizzazione ha avuto un incremento esponenziale. Oggi è una realtà enorme in continua crescita ed espansione che interessa tutto il mondo e coinvolge l’intero pianeta sia per le dimensioni del fenomeno, sia perché agglomerati urbani che soffrono di carenze e problematiche economiche e materiali sono presenti ovunque. Le favelas nascono, esemplificando estremamente, come necessità di trovare un tetto e una sistemazione, anche di fortuna, da parte di persone che dalle campagne e dalle foreste emigrano verso i grossi centri urbani. In realtà lo sviluppo del fenomeno è notevolmente complesso e coinvolge numerosi fattori. Allo stato attuale le favelas sono in parte situazioni urbane non ufficialmente riconosciute, dove violenza, narcotraffico e altre attività illegali prosperano e si diffondono rapidamente, in parte comunità di persone alla ricerca di identità e dignità, nonché portatrici di un grandissimo potenziale. L’atteggiamento nei confronti di questi agglomerati di persone è contraddittorio. Le istituzioni sono costrette a prenderle in considerazione, sia sul piano della sicurezza che su quello dello sviluppo urbano. I cittadini che non ci vivono, che siano più o meno benestanti hanno diversi approcci. Chi le ignora tranquillamente rimuovendole persino sul piano della coscienza psicologica, chi le disprezza e ne è infastidito, chi cerca di operare sul piano dell’aiuto umanitario, spesso con risultati poco incoraggianti o a volte disastrosi, chi le sfrutta come bacini di mano d’opera a basso costo per attività sia lecite che illecite. Oggi è in via di sviluppo un fenomeno detto pacificazione che in realtà è una sorta di accordo tra narcotrafficanti e istituzioni per mantenere una situazione vivibile. In Rio de Janeiro si trovano circa 700 favelas. In questa città in particolare, paradossalmente, le favelas sono anche un terreno culturale particolarmente attivo e fertile. Basti pensare che il famoso Carnevale, insieme al Samba, trae in buona parte la propria origine da questi ambienti, che talvolta videro al proprio interno, all’inizio del XXº secolo, la fondazione di scuole di Samba rinomate. I rapporti tra Carnevale, Samba, cittadini comuni, favelados, delinquenza e istituzioni è altamente complesso, ma sta di fatto che si tratta di una realtà culturale molto profonda con radici antiche e che influenza gran parte della cultura del mondo odierno. In tale contesto, molto sinteticamente descritto, si trovano favelas grandi e piccole. Tra queste ultime si trova Vila Canoas. Agglomerato di case nel quale vivono circa 3.000 persone. Si trova nel quartiere di San Conrado, sulle pendici di rilievi poco sopra la spiaggia nella zona Sud di Rio. Sopra l’agglomerato urbano svettano le montagne di Pedra da Gàvea e Pedra Bonita che arrivano a ottocento metri di altitudine. I monti sono ricoperti di foresta pluviale che si estende per molti chilometri quadrati a costituire il bellissimo Parco Nazionale della Tijuca. È difficile rendersi conto di trovarsi in una metropoli e non in un piccolo paese. Inoltre le ville della zona residenziale insieme al Campo da Golf adiacente sono a ridosso della favela creando, come accade di consueto a Rio, il fronteggiarsi di mondi sostanzialmente diversi. Nell’agglomerato di abitazioni si trovano diverse attività commerciali e artigianali. A 300 metri si trova la bellissima spiaggia di San Conrado. Da Pedra Bonita gli appassionati possono praticare il volo libero con deltaplano e parapendio. Nei pressi si trova la favela della Rocinha, la più grande del Sudamerica. Da San Conrado si possono raggiungere con diversi mezzi le spiagge di Ipanema e Copacabana e di Barra. Il centro città è facilmente raggiungibile in bus, metrò e taxi.

 

http://www.parationg.org/it/la-realta-delle-favelas

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E pensare che ho perso il mio tempo con un passato che non è mai stato presente

                                                     (Internet)

 

 

Oda e Ada

 

 

Oda, seduto sotto un grande salice, leggeva pigramente gli ingredienti di una scatola di cioccolatini che aveva appena finito di massacrare senza pietà, ma con calma tibetana. Vide arrivare Ada, sudato e incurvato dalla lunga camminata in salita, sulla stradina di cemento, tra le casette di materiale misto. Capì in un attimo che era meglio dire addio agli spiedi, al cui saltuario usufrutto si era ormai piacevolmente abituato. Ogni tanto Oda faceva un churrasco per i suoi clienti più affezionati, secondo le sue tradizioni gaúche. Ricordò, pur senza essersene mai veramente scordato, che la visita precedente di Ada era stata prima del suo matrimonio, approssimativi cinque anni prima.

Visto che ne aveva pochi, Oda gli aveva chiesto in prestito gli spiedi, assurdamente Ada non poteva confessare di non averne, era stato pronto a sacrificarsi, se li era andati a comprare, i più economici possibile, è chiaro, ma erano spiedi da churrasco, magari indovinava che in futuro, per lui,  avrebbero avuto un significato simbolico e gaúcho. Poi, abbastanza ubriaco, con la mente placida di chi non ne aveva mai posseduti, a notte fatta se ne era tornato a casa dimenticandoseli là da Oda.

Dopo aver abbassato la testa, concentrato nel suo sforzo, nell’ultimo tratto di salita ripida, entrava dal cancellino, attorno al quale lo steccato era stato abbattuto dai fattori atmosferici e dal Cupim, minuscolo animaletto che divora il legno. Ada salutò con la mano in direzione del salice piangente, ma Oda era sparito.

Mentre Ada si guardava intorno recuperando il fiato, stanco e sudato, Oda ricomparve con gli spiedi che spuntavano da un grande involto di panno nero, decorato da realistiche bianche ragnatele e polvere, che trasportava con entrambe le mani mentre andava incontro a Ada, che gli strinse la mano, poi si abbracciarono, si sedettero sotto il salice, su due fresche e originali poltrone di cemento e mattoni ricoperte di muschio soffice.

“Passavo di qua e mi sono detto, vado a trovare Oda, che mi fa sempre piacere vederlo, che poi sono anni che non lo vedo, a proposito, come va la vita dell’uomo sposato?”

Oda lo guardò serio e calmo, ma lo sguardo lo sorpassò, volò oltre, si perse a valle, in direzione del mare.

Poi, finalmente disse:

“La vita dell’uomo sposato andava anche bene, almeno dal mio punto di vista, però per lei no, ora potrei dirti come va la vita dell’uomo divorziato, se ti interessa, che è abbastanza differente da quella dello scapolo... a proposito, come va la vita dello scapolo?”

“Bene, anzi male, sono stanco di stare solo e di fare questa merda di lavoro che faccio, ma non sapevo che ti eri separato... divorziato hai detto?”

“Divorziato, divorziato, è una maniera di dire, per la sua stessa forza d’espressione, ma senza fare i documenti, anche sposarci non c’eravamo mica sposati in comune, solo in chiesa. Comunque, invece di divorziato, sarebbe più appropriato dire abbandonato.”

“Ah, è scappata? E ora dove è?”

“Non lo so, qui non c’è, di questo sono sicuro, ho guardato bene... e poi non c’è molto spazio per nascondersi, ma tu forse volevi sapere se lei ha qualcun altro?”

“No, solo che cosa fa, dove si trova, non l’hai più vista o sentita?”

“Certo. Sentita dentro al cuore, vista nei sogni... che però ora si chiamano incubi... ma non esageriamo, ormai sto bene, anzi benissimo... ”

“Ho capito, cambiamo argomento...”

“Non ti preoccupare, cugino, stavo scherzando, sto bene, di nuovo e la mia vita è già cambiata molto da quei tempi, ho avuto un salto di qualità. ”

“Da quei tempi? È già così tanto che se ne è andata?”

“Circa due anni fa, dopo tre di convivenza, proprio in questa epoca estiva, ma credo che la mia vita sia migliorata, ti dico la verità...”

“Perché? Stai facendo qualcosa di nuovo?”

“Ecco, a proposito e per esempio, questo è il salto di qualità che ti dicevo: da qualche tempo, ho scoperto che sono più abile ad aiutare gli altri che me stesso, anzi, che aiutando gli altri aiuto anche me stesso, e chissà che non sia proprio questo il senso della mia vita?”

“Come sarebbe a dire? Che cosa è che stai facendo ora?”

“Sarebbe a dire che lavoro come aiuto psicologico per i viventi in difficoltà di qua intorno, ma già mi arriva gente anche da Niteroi, figurati... dalla Barra da Tijuca, anche gente ricca, sto quasi diventando un professionista di moda, e non sono nemmeno due anni che ho cominciato, ho già bisogno di un aiutante, se tu fossi un poco più colto e intelligente...”

Risero insieme, ma poi Ada disse:

“Non ho capito tanto bene.”

“Insomma è un aiuto per la testa, se non lo sai, dovresti saperlo: la testa, ce l’hanno data nascendo, ma non ci hanno dato il libretto delle istruzioni, né tantomeno ci hanno insegnato a usarla, in maniera di favorirci invece di ostacolarci, e poi non è così facile come sembra. Qui entro io, per aiutare le persone a capire la propria testa, che anche per loro che ce l’hanno sempre avuta attaccata al collo, è sempre stata un oggetto misterioso.”

“Ma tu non hai studiato lingue?”

“Sì, sono professore di francese. Questa è stata la prima, ma anche unica questione che mi sono posto.”

“E allora?”

“Allora che cosa?”

“Allora, come hai risposto a questa domanda?”

“Ah già. Guarda, è stato troppo facile. Vedi io non ho studiato, tecnicamente parlando, questa roba a scuola, quando ero più giovane, perciò non ho diplomi e carte timbrate, ma frequento, anche da prima di conoscere Chantal, vari tipi di scuole, prima superiori e poi università, negli ultimi anni, alcuni corsi privati, o pubblici, anche se sempre in qualità di clandestino, cioè senza dare esami e soprattutto senza spendere un soldo.”

“Ah! Questa è nuova, e non se ne accorge nessuno?”

“Quando se ne accorgono mi scuso e non ci vado più, almeno per un poco di tempo, poi ci ritorno con la faccia camuffata, occhiali, baffetti, capelli differenti, ma non succede spesso, perché io non vado là per avere abilitazioni scritte o voti o lauree, solo per rendermi conto e imparare, almeno l’essenziale, quello che mi può essere utile e non di più.”

Alternandosi passaggi di nuvole e raggi di sole nel cielo, sopra di loro, le facce si illuminavano e scurivano, i due erano mulatti e anche abbastanza somiglianti, ma Ada aveva i capelli più corti, Oda con la sua barbetta e i piccoli occhiali da vista rotondi che gli davano un’aria quasi da intellettuale.

“Lo sai che sei cambiato Oda? Sei molto più magro, poi quella barbetta da capra, mi sembri anche più chiaro di pelle, non lo so. Ma, quell’altro discorso che stavamo facendo?”

“Sì, un poco di marketing, l’immagine è importante, il saggio non può avere l’apparenza di un ladro e la povertà del look deve essere ben studiata. Scusa, sono un po’ distratto, ma di quale discorso stai parlando?”

“Hai parlato di psicologia...”

“Una parolaccia, eh? Ah sì, a proposito e non per caso, stavo dicendo che frequentando varie facoltà, per un poco ho visto insegnare vari tipi di professori.

Ho capito che pochi hanno la vocazione, insegnano per guadagnare i soldi, che anche quelli servono, per carità, ma insegnare è una cosa completamente diversa dagli altri lavori, ci vuole entusiasmo, didattica e competenza della materia, soprattutto psicologia, ci si deve saper comportare con le persone, tutte cose che tu non puoi capire, non c’è niente da fare.”

Adailton rise, Odair anche, si alzarono e si dettero delle pacche sulle spalle, poi si abbracciarono.

“Gli studenti, poi, i giovani, sono lì perché ce li hanno mandati, la maggioranza non ha la minima idea di che cosa ci sta a fare lì, guarda, come possono si distraggono, scappano sia mentalmente che, quando possono, materialmente. Ma anche quando ci stanno e si sforzano, non hanno la nozione dello spazio e del tempo, faticano solo per tentare di concentrarsi, gli manca la motivazione, invece io sto lì solo per quello, mi riesce facile e bene, e mi piace anche, ma pagare non pago. No. Sono un uomo di principi solidi io.”

Ada rise e Oda lo guardò fintamente offeso, al che Ada rise di più, si sganasciò.

“Ma come ti è venuto in mente di fare carriera in questa maniera? L’ultima volta che ti ho visto eri un negrão ignorante, molto più colto di me, va bene, ma sempre ignorante, non mi dire di no.”

“Ignorante lo sono sempre di più, se è per questo, più studio e più mi accorgo che non so niente, ma questa è già una saggezza, un’altra parolaccia per te, è ovvio che non sai cosa sia e, anche se lo sapessi, applicarla alla vita sarebbe tutto un altro discorso.

Aspetta che ti spiego, allora, uno dei punti fermi della mia vita è diventato questo: fai quello che ti piace e ti riesce bene, se ti piace poi ti riuscirà, qualsiasi cosa, anche se all’inizio avrai difficoltà. Cioè se hai entusiasmo, la competenza verrà col tempo e poi farai contenti tutti e, in più, sarai contento anche tu, non è questo quello che conta?”

“È vero, ma tu parli come uno che ha studiato, io non ce la farei, poi tu cosa racconti alla gente e che cosa significa esattamente questa psicologia in parole povere?”

“Quante domande, ma quest’ultima è una signora domanda, questo è importante, allora: la psicologia è lo studio del nostro cervello, in pratica, che cosa facciamo nella nostra vita e perché lo facciamo, che meccanismi si formano dentro la testaccia di un vivente come te, per esempio, perché te ne stai da solo e non vuoi nessuno intorno. Ci sarà un perché, no? Questo perché è la psicologia. Un altro disgraziato, per esempio mio fratello Duda, invece, ama la compagnia della gente, ma non riesce a dormire la notte, soffre quando qualcuno spara un fuoco di artificio e odia i cani.

Perché?

La psicologia spiega che la storia personale di questo particolare Eduardo, detto Duda, con una testa piccola e un cuore grande, con i suoi genitori ignoranti come capre e nell’ambiente dove è cresciuto, che è lo stesso nostro, il mondo, hanno formato il carattere di questo negrinho nella maniera in cui questo negrinho è, quello che gli piace, quello che non gli piace, il suo comportamento e il suo perché nascosto. Sembra uguale a tanti altri ma è differente da tutti gli altri.

Capito?

Che cosa racconto alla gente? Mi sono documentato, ho letto e sto leggendo vari libri presi in prestito nelle varie biblioteche, non costano niente, basta restituirli poi, dopo averli letti. Ora poi c’è l’internet che è anche meglio.

Nella vita basta mettersi d’accordo, assumersi i propri compromessi, dare soddisfazione agli altri, perché dentro la loro soddisfazione si nasconde parte della nostra, non si può vivere da soli, cioè, va bene, si potrebbe anche, ma invece siamo abituati a stare con gli altri, per questo dobbiamo imparare a farlo nel migliore modo possibile. 

Capito o no?

I libri li scelgo in base alle domande che mi fanno i pazienti o che io stesso mi faccio nel cervello, cervello che ora sto usando più e meglio di quanto facevo quando ci siamo visti l’ultima volta, per questo dici che sono cambiato.

E meno male, dico io.

Sia riguardo i libri che le informazioni teoriche che devo insegnare e anche insegnare a mettere in pratica, prima devo capire ciò che vale la pena e ciò che non vale nemmeno l’emozione, tra quello che è la letteratura specializzata e tra quello che è la spazzatura commercializzata.

Lascia perdere quest’ultimo discorso, fai conto che sono stato zitto, non serve a niente e non so nemmeno perché te l’ho detto.”

“Invece ho capito, ho capito, che cosa credi che sono un idiota?”

“Va bene, scusa, meglio ancora. Stavo dicendo, inoltre, che la mia esperienza di vita è stata molto varia e sono uno che fa macinare bene la logica... anche se sono un poco distratto, il mio ragionamento fila che è una bellezza, non è forse vero?”

“A dire la verità non ci avevo mai pensato, ma ora che me lo dici mi pare di sì, però se sei molto distratto e perdi il filo del discorso, questo non ti ostacola?”

“Il filo del discorso? E chi se ne importa? Me lo ridanno loro quando lo perdo, basta non preoccuparsi, tanti non se ne accorgono nemmeno… o sennò dopo lo ritrovo, senza cercarlo, viene da sé, lasciando scorrere le parole su se stesse, facendo rotolare i ragionamenti sulle cause, i loro effetti se ne escono da soli, le conseguenze cioè... insomma, il popolo è confuso, molto più confuso di me, in più è anche stressato e questo è un altro vantaggio che ho, mi capisci?

Figurati se notano che io perdo il filo del discorso, la maggior parte non sa nemmeno che cosa sia il filo del discorso... Ha! Hahaha! Questa è buona... tu, Ada, con tutta la tua spaventosa ignoranza, magari sei uno che una logica la sa sviluppare, sei uno che pensa tanto, forse anche troppo, ma il popolo pensa poco, la maggior parte di quelli che vengono qui, se sapessero pensare non avrebbero bisogno di me, dammi retta!

Anche io dico delle cretinate, a volte, chi è che non ne dice? Ma dopo me ne rendo conto, sono anche capace di correggermi, accetto critiche e consigli, dove lo trovi un saggio più saggio di me?”

“Sì, va bene, ma che gli dici alla gente?”

“Io? Quasi niente, in pratica ascoltano la loro stessa storia... però, tieni conto che se non ci fossi io non avrebbero occasione di raccontare la loro storia a se stessi e tutti gli altri non hanno tempo di starli ad ascoltare.

Finalmente sentono il suono di quello che la conchiglia magica chiamata Oda gli dice che è il mare, non avevano mai avuto la calma per farlo, le loro facce rimangono meravigliate, come se io gli avessi detto una grande verità, ma lo sforzo lo hanno fatto loro... io gli ho aperto una finestra che avevano da sempre davanti a loro, ma non se ne rendevano conto, così, dopo, pieni di gratitudine nei miei confronti, decidono autonomamente...”

“Ma, allora, non potrebbero farlo da soli?”

“Sì, ma non lo sanno. E poi se lo sapessero non ci crederebbero. E se ci credessero non sarebbero capaci di farci niente lo stesso, perché gli manca la struttura, la sistematica, la competenza, il senso della misura e potrei dirti tante altre cose che gli mancano, ma tutto questo si riassume in un’unica parola, una cosa che hanno tutti, in grande quantità, che rende inutili tutte le altre: l’ignoranza.

Dalla faccia mi pare che tu mi stia seguendo, mi sbaglio?

Cioè le persone si stressano tutti i giorni per la sopravvivenza, o per altri motivi... i ricchi hanno più bisogno di aiuto dei poveri da questo punto di vista, lo sapevi?

E perché?

Perché hanno già risolto il problema della sopravvivenza ed entra in loro un problema più complesso: qual’è il senso della vita?

Quelli che hanno risolto il problema della sopravvivenza, nel farlo, si sono creati un insieme di altre piccole e grandi malattie mentali, che il povero non conosce... lo sai che cosa significa aver paura di perdere milioni di dollari?

È una questione che ti piacerebbe risolvere, lo so, ma non credere di dormire tranquillo, quando hai qualcosa da perdere, più grande è e meno ti senti tranquillo, ma è inutile che te ne parli, tu non ne avrai mai bisogno.”

Risero di nuovo insieme, a lungo, poi ci ripensarono e risero di nuovo.

“Ritornando a me, quello che mi permette di essere al di sopra della mischia dello stress è la mia attitudine greca, di ozio contemplativo, come potrei essere così tranquillo se lavorassi insieme a te nel centro infernale di Rio?”

“Eh già. Ma che cosa è l’ozio?”

“L’ozio è il non far niente, contemplativo perché non facendo niente ho il tempo di contemplare, cioè di ammirare i dettagli delle cose. Sia le bellezze che le bruttezze.

A volte la bruttezza è tanto brutta da diventare bella, per esempio il viso scavato dal tempo e dalla storia personale di un vecchio marinaio di Santos ma forse è più facile per te capire il contrario, hai mai visto una di quelle modelle alla televisione, che sono tanto belle che danno noia agli occhi?”

Ada ci pensò un poco, ma l’espressione della sua faccia non indicò nessun tipo di variazione.

Per capire meglio cosa era successo al cugino Oda, ma anche perché la faccenda cominciava a interessargli anche personalmente, domandò:

“Insomma, i tuoi clienti, ricchi e poveri, vengono qui, raccontano i loro guai e capiscono che cosa devono fare per cambiare la loro vita, senza che tu faccia o dica quasi niente?”

“Beh, non esattamente, a proposito io gli dico delle piccole cose, le più logiche conseguenze delle loro esagerazioni...”

“Per esempio, cosa gli dici?

“Per esempio, se loro dicono che fumano tanto, dico che devono fumare meno...”

“Mi sembra troppo facile.”

“Difficile non è, la maggior difficoltà è fargli credere che io sia qualificato per farlo, ma se loro hanno una referenza di una persona che conoscono e che gli parla bene di me, allora l’ostacolo è già aggirato e dimenticato.

Quello che conta veramente, poi, è che li faccio riflettere, li obbligo a fermarsi e ad analizzare le cose senza ingannarsi... come sono abituati a fare normalmente, da soli o seguendo consigli degli altri che ne sanno ancora meno e che non hanno voglia di perdere tempo dietro ai problemi di chicchessia... vedi che molte persone sono convinte di pensare, ma invece non fanno altro che rincorrersi la coda, il popolo è confuso, perché il mondo è confuso e lo diventa sempre di più, almeno per chi non ha mai avuto tempo di fermarsi e di riflettere...

Io li metto semplicemente con le spalle al muro, li obbligo, ma con la massima calma e determinazione, a guardarsi dentro e attorno, gli do la sicurezza di un’ora a seduta, ascoltandoli e consigliandoli.

Li faccio respirare profondamente, perché la maggior parte della gente non sa nemmeno respirare, in maniera corretta...

Non ci credi?

Fammi vedere tu come respiri, per esempio, respira normalmente, come fai sempre... lo vedi?

Anche tu respiri troppo rapidamente, prenditi la tua calma, Ada, il respiro deve essere profondo ed è una cosa che puoi fare sempre e bene, che ti da’ sollievo, ma che nessuno ci pensa che sia una cosa importante, anzi decisiva.

Prova.

Così... profondo e leggero... leggero e profondo... profondo e leggero... su e giù... giù e su, con calma, regolarmente... prova a respirare bene e vedrai che già tutto migliora.

Perché ossigenare il cervello e il corpo intero significa farli stare meglio, allora anche la nostra povera mente si sente differente, più disposta e in forma, tutto è legato e in contatto, tieni conto che il corpo e la mente sono una cosa sola.

Hai capito?

Io li ascolto i clienti, anche se le loro parole dicono cose che i fatti dimostrano essere false, sono solo bugie, ma bugie alle quali loro credono automaticamente, senza fare ragionamenti, senza usare una logica qualsiasi.

Perciò sono importanti per capire il loro mondo, la loro giornata, la loro vita.

E poi guarda che già trovare qualcuno che ti ascolta, veramente, dico, senza fingere, non è facile.

Gli faccio delle domande, questo è importante, per comprendere come vivono, quello che dico dopo è facile e soprattutto logico, vedi che la gente di qua è molto confusa, non so se è la stessa cosa dovunque, ma qua è così, e poi anche se la gente sapesse le cose, ha bisogno di sentirsele dire da qualcuno, ci vuole una persona autorevole, che loro non sanno bene come deve essere, ma io, seduto qua placidamente sotto l’albero simbolico del pianto, il salice, io sono l’ideale, un mistico, un saggio, un amico disponibile, che tutti si possono permettere di consultare, anche perché accetto qualsiasi tipo di pagamento.”

“Qualsiasi cosa? Stai scherzando!”

“L’ho detto e lo ripeto: qualsiasi cosa.

Uova, galline, anatre, chiodi, meloni, legna, televisioni vecchie... hai visto quella scatola di cioccolatini che mi sono spolpato orora? È il pagamento di una visita a domicilio, qua sotto, al bar di Caio.

Insomma, accetto quello che loro possono darmi, uno ieri mi ha dato una scarpa già un po’ usata, mi ha detto che l’altra me la darà se e quando sarà guarito. Io gli ho chiesto di non camminarci troppo nel frattempo, lui ha riso, è chiaro che il suo problema più grave è la diffidenza, non so se riuscirò a guarirlo, ma sono sicuro che migliorerà.

Chi può pagarmi meglio, mi paga in denaro e poi non importa, perché io non ho bisogno di molto per vivere, ho il mio orto, la mia casetta, ho rinunciato al consumismo, non guardo la televisione, (solo qualche partita del Botafogo) e non mi vengono più certe idee storte nella testa, insomma ho la mia disciplina di vita...”

 

Parlando e parlando si fece tardi e Adailton doveva tornare a casa, ma per la strada ci pensava e gli pareva strano che Oda gli avesse fatto tutti quei discorsi.

Visto che il viaggio era lungo, Ada pensava anche a come era diverso Oda, a come era cambiato dall’ultima volta che si erano visti.

Pochi anni prima, quando si era sposato, il cugino gli sembrava un ragazzotto normale come lui, forse amava la compagnia, certo più di lui, parlava di più e meglio... ma ora si sentiva la enorme differenza tra di loro, in soli cinque anni era stata una trasformazione totale.

Forse Oda era più intelligente degli altri, questo si vedeva, ma anche lui, Ada, era intelligente, anche se non si vedeva, gli altri non lo sapevano, ma lui sì, aveva solo bisogno di un’occasione, ma non ne aveva mai avuta una, o forse non se ne era accorto.

Oltre a questo si sentiva che era passato attraverso dei libri, delle lezioni, Odair, diceva parole difficili, in più spiegava bene assai cosa voleva dire. Anche lui, che era rimasto ignorante e limitato al suo lavoro di venditore per strada, capiva tutto quello che Oda gli spiegava. Però non sapeva ancora se ci credeva o no, forse gli piaceva crederci, sarebbe stata una porta nuova, per un mondo che gli pareva già tutto chiuso e senza mai essere stato effettivamente aperto.

 

 

 

 

Chi ha perso l’anima e perché? Oppure no, magari hanno deciso semplicemente di fare senza: non è più pratico?

 

(Adailton Machado da Silva)

 

 

Odair e IV

 

 

Secondo i concetti del mondo occidentale, gli indios sudamericani non sono affatto un buon esempio di apertura mentale, né di cultura globalizzata, ma rappresentano, un po’ per tutti, un ritardo incredibile sull’orologio della macchina del tempo. C’è da notare, altresì, che loro non hanno la pretesa di essere qualcosa di somigliante ai nostri gusti.

Indio Velho, chiamava se stesso con la corta e pratica sigla IV, insegnando il francese, io all’inizio pensavo che fosse scritto Ives. Lui chiarì e poi si corresse subito, dichiarando che nessuno avrebbe mai avuto motivo di scriverlo e qui si sbagliava, ma non poteva saperlo.

Era uno che aveva viaggiato in diagonale per i cinque continenti conosciuti, studiato da autodidatta un po’ di tutto e vissuto con i bianchi e altri popoli di vario tipo e colore, prima di ritirarsi, come diceva lui, a vita privata.

Lo conobbi lassù nel suo boschetto, sulla collina più alta, di fronte  alla favela. Ero andato a fare un giro con il cane di un mio cliente e lui, Argo, l’aveva scovato, seduto su un sasso, con gli occhi chiusi e le mani sulle ginocchia.

Dopo avergli abbaiato per un po’, quando IV lentamente aprì gli occhi, Argo si chetò miracolosamente, poi si lasciò accarezzare da lui e io mi avvicinai, sembrava un rugoso indiano apache di un film americano, aveva anche la regolamentare fascia sulla fronte.

Dopo, quando lo incontravo, pensavo alle condizioni, spesso penose, in cui si trovava la sua gente. Eppure vedevo in lui quasi l’opposto, c’era qualcosa che li univa e che li divideva, che mi affascinava troppo: la ribellione tranquilla e pacifica a tutto ciò che gli accadeva intorno, da secoli.

 

Usurpato e massacrato, ripetutamente violentato sul suo stesso territorio, l’indio brasiliano ha rifiutato di mischiarsi al popolo invasore e ultimamente  - amara ironia della fine del nostro secondo millennio - ci si è perfino stupiti se ha protestato per i festeggiamenti dei 500 anni della scoperta del Brasile, dichiarando che lui era qua da prima e che è stato scoperto, sì, solo nel senso che gli hanno tolto la coperta.

 

Insomma, essere un indio non è mai stato facile, in Brasile come in tutta l’America Latina, ora coma prima. 

Però IV aveva deciso di essere prima di tutto un essere umano e una persona, vincendo la resistenza di secoli di mentalità completamente estratta da quelle classiche occidentali o anche di altri tipi di popoli. Secondo lui un indio era solo un indio ed era diverso da tutto e da tutti, questo almeno nella gran maggior parte dei casi. IV aveva scelto la sua strada senza protestare, non avevo mai conosciuto nessuno più soddisfatto di lui, eppure sapeva benissimo tutto ciò che era successo prima, quello che stava succedendo in quel momento, anche meglio di me, quello che sarebbe successo poi.

La logica per lui risolveva tutto, filtrata dalla sua filosofia, certo, a sua volta derivante dalla sua esperienza di vita.

“Come va l’esistenza?” Mi disse con uno sguardo indescrivibilmente pacifico e serio.

“Bene, bene… stavo facendo un giretto.”

“Bravo. Ti piace la natura, eh?”

“Mi piace sì, vivo in quella casa là nella favela, sull’altra collina, vede?”

“Ah sì, ma non c’è bisogno di darmi del Lei, uomo, non che me ne offenda, via… insomma fai come vuoi.”

“D’accordo.”

Indio Velho, autonominatosi senza cerimonie Sceriffo della palude collinosa, viveva lì, in una baracchetta di legno che aveva appena lo spazio per stare sdraiati su una brandina e per un rudimentale fornello a legna che si era fatto con le pietre.

 

In Amazzonia l’indio continua a campare alla stessa maniera di migliaia di anni fa e questo in generale viene detto con disprezzo, ma certo là in mezzo alla foresta, non si sa nemmeno cosa è lo stress, come non si conoscono, parimenti, altre malattie moderne.

 

Quando potevo mi trasferivo volentieri nello spazio e nel tempo, in quel luogo ideale e calmo, insieme al cane Argo o da solo, verso quella piccola palude romantica, che era sulla collina di fronte alla mia favela.

C’ero stato spesso, anche prima di conoscere IV, ma ora avevo un motivo in più per andarci, almeno una volta alla settimana, a fare un giro, era un boschetto incontaminato in mezzo a un banhado, una specie di palude periodica del Brasile.

Lassù dove i tramonti mandavano una luce primitiva e autentica, piena di bellezza incantatrice, i rumori delle automobili e sirene della polizia e di ambulanze parevano lontani, il vento fischiava un poco di più, insetti e uccelli dialogavano intrecciando i loro rispettivi ronzii e cinguettii sotto il sole che andava e veniva, tra le nuvole basse. Mai viste nuvole così basse come in Brasile.

Argo, il cane, si godeva la libertà della natura e correva soddisfatto di qua e di là, con la lingua penzoloni.

 

Nelle periferie delle grandi metropoli vive in capanne di nylon nero (quello dei sacchi della spazzatura) e il suo stato è di miseria e abbandono, ai margini più sporchi e insalubri, l’indio intreccia e vende cestini di vimini.

 

Anche da prima che me ne andassi in Europa avevo sempre sentito il bisogno di uno come lui, cioè mi mancava e non lo sapevo, lo scoprii appena lo trovai.

Per esempio perché potevo chiedergli cose e ricevere in cambio delle signore risposte articolate, IV addirittura mi ascoltava quando parlavo e non m’interrompeva. Se gli chiedevo qualcosa pensava bene alle parole che stava per dire, ci metteva un bel po’, a volte pareva che non avesse nemmeno udito la mia domanda. Poi gli uscivano delle robe magari utili e illuminanti, riguardo i miei recenti interrogativi, oppure anche semplicemente per intavolare una conversazione interessante, o solo piacevole. Era già difficile trovare qualcuno che avesse tempo, in più lui ci metteva una serie di altre qualità entusiasmanti.

Indio Velho aveva una grande esperienza in conversioni, si era sempre dato, anima e corpo, a quel che credeva. Quello che aveva imparato, di conseguenza, era forse il contrario di quello che la gente normalmente faceva. IV diceva che era bello capire e riconoscere di aver sbagliato tutto fino a quel momento, perché ricominciare ci faceva sentire vivi. L’umiltà di ammettere il proprio errore era fondamentale per riuscire a imparare qualcosa di utile, per l’immediato futuro. Trincerarsi sulla propria posizione era quanto di più idiota poteva esistere, era come tapparsi gli occhi, infilare la testa in un buco, come gli struzzi, di fronte al pericolo. Spesso la gente agiva così, per debolezza, per non affrontare la necessaria rivoluzione che ne sarebbe sortita fuori.

Questo vecchio saggio rappresentava un’essenza atavica e filosofica, per la cui esistenza nessuno avrebbe mosso un dito, là in basso, dove io passavo le mie giornate di lavoro. Era un esperto attraversatore del mondo, uno che poteva dare regole e mostrarne addirittura l’applicazione, non c’erano in giro molti esseri umani del genere e, disgraziatamente, non se ne sentiva affatto la mancanza, perché non si aveva nemmeno il tempo di pensarci.

IV chiamava le persone che vivevano là sotto i Valligiani, mentre io, che abitavo in collina, ma lavoravo soprattutto in città, ero un Collinare, il mio vicino, di cui gli parlavo spesso, era un Valligiano, perché abitava in collina, sì, ma gli sarebbe piaciuto abitare in città. Lui, Indio Velho, era un Montanaro. Nessuno pensava alla saggezza, tra i Valligiani, i Collinari forse ci riflettevano un poco di più, per motivi puramente geografici e per certe necessarie conseguenze. In montagna ecco che avevamo i pochi casi conosciuti di umani persi in un mondo in cui non si faceva male a nessuno e si ragionava del più e del meno, senza pestare i piedi al proprio prossimo, non perché ci piacesse, il prossimo, non necessariamente, ma perché faceva parte di una certa maniera di essere.

Indio Velho parlava un portoghese perfetto, con grande varietà di vocaboli, ma conservava un tipico accento indio. Aveva la faccia liscia, senza rughe, gli occhi diagonali, non era un selvaggio, ma aveva scelto di vivere nei boschi del Morro Teresinha, perché la sua idea di vita, in progressivo cambiamento, glielo aveva suggerito e per questo era un esempio refrigerante e rigenerante per me, che passavo le ore perso per le rumorosissime vie della capitale, in mezzo a gente anche piacevole, simpatica e tutto, ma un po’ troppo agitata e che faceva agitare anche me. IV diceva che in genere, la gente non sceglieva, s’infilava in un tunnel di situazioni concatenate e usciva, viva o più frequentemente morta, molto tempo dopo, dall’altra parte.

 

Nelle loro comunità, nelle foreste pluviali, l’indio pratica caccia e pesca, un po’ di agricoltura e nel rapporto uomo e donna non prestabilisce limiti o canoni, di nessun tipo: esistono nuclei di due uomini e una donna, come di tre donne e un uomo, a differenza della maggior parte delle civiltà occidentali e orientali, tranne poche eccezioni e tutte a vantaggio dei maschi.

 

Indio Velho era un indio vecchio, lo diceva il suo nome stesso in portoghese, saggio come un diavolo di angelo bonario, che viveva di non so quali alimenti, giacché non me ne voleva parlare mai,  anche se glielo chiedevo sempre, su una collina ai limiti della grande città.

Mi piaceva vederlo mentre si cibava di valori veri e dimenticati nella corsa al denaro, nel giorno per giorno dell’uomo comune che, secondo lui, era una specie in estinzione, che veniva progressivamente sostituita dall’uomo banale, l’uomo che non sapeva quello che voleva, ma lo voleva fino in fondo, perché credeva di non avere alternative. Per IV, vivere male significava non concedere a se stessi più di una opzione possibile.

Per andare a trovarlo dovevamo risalire la collina a piedi, il cane ansava e bilanciava la lingua verso il basso, io avevo una lingua più corta e i miei polmoni faticavano a mantenere il ritmo, ma a differenza di Argo, potevo sudare e già che c’ero, sudavo a volontà.

Arrivati sul falso piano, usciti dal bosco grande, dovevamo attraversare la palude, di acqua non ce n’era molta, ma era seminascosta da questa specie di giunchi, era sufficiente per bagnarsi fino ai ginocchi, se si incappava nella pozza giusta… o sbagliata. Ecco che dovevo studiare meticolosamente ogni mio passo, Argo invece ci s’infilava dentro, per lui pareva una goduria, che in un certo senso gli invidiavo. Lui superava le punte vegetali di una testa, ma la sua era una testona triangolare e in più le sue orecchie ritte sfidavano ancora di più il cielo. Entrati nel boschetto lui sapeva già dove andare e lo seguivo, perché io invece mi sarei perso, non c’erano viottoli, certo quell’uomo non amava fare due volte lo stesso percorso… ma lui sentiva l’odore di Indio Velho, mentre io non lo distinguevo dall’odore caratteristico che c’era in giro, di natura più meno selvaggia.

L’umidità era forte e odorosa di muschi e acque ferme, c’erano degli avvoltoi che volteggiavano nel cielo, li vedevo apparire e scomparire tra i rami, mi pareva di sentire dei tamburi, ma forse era il mio cuore che batteva troppo forte. Mi fermai a riposare un momento. Quando il mio respiro ritornò alla normalità, sentivo un improbabile rumore alla mia sinistra e girandomi scoprii Indio Velho che stava placidamente voltando la pagina di un libro, seduto su una pietra larga e piatta e disegnata dai licheni di vari colori e consistenza, in una minuscola radura dove il sole, fuggito per un attimo dalle nuvole, riusciva a battere su pochi metri quadrati di terra erbosa, forse solo per qualche minuto.

Indio Velho mi guardava profondo e serio, chiuse il libro lentamente, accarezzò il cane, i suoi occhi come due fessure, c’era una pace liquida e sonnolenta, la luce era dorata, a fette, il verde attorno vivissimo.

“Olà professore di lingua e cultura francese.”

La sua voce pareva adattarsi bene alla natura circostante, la mia invece era meno armonica, spezzava la qualità di quel silenzio fatto di mille piccoli rumori, sarà stata colpa dei miei polmoni stanchi:

“Olà Indio Velho, come va la vita in mezzo alle frasche?” Gli dissi avvicinandomi.

“In mezzo alle frasche niente di nuovo, perciò la vita va bene, si riesce a leggere e anche a meditare, a fare un’osservazione minuziosa e piacevole della natura, la respirazione funziona a dovere anche perché la facciamo quasi esclusivamente col naso, le orecchie filtrano i sussurri della boscaglia e da lontano si sentono gli infernali rumori che fate voi laggiù, scoreggioni, che dite di correre dietro alla felicità…”

“Sì, lo so, siamo gente abituata non solo ai rumori forti, vogliamo emozioni violente, la televisione sempre accesa e a tutto volume, e se te li portassi qui, i Valligiani, il tuo silenzio li farebbe impazzire…”

“Il silenzio non è mio, è alla portata di tutti, almeno in teoria… anche se nessuno lo vuole, ma tu dici che non resisterebbero, a questo fragoroso silenzio?”

“Non lo so, non ci sono abituati, di sicuro non gli piacerebbe. Magari gli spaccherebbe i timpani…”

“Beh, allora è meglio che non ci vengano qui, pazienza.”

“Pazienza, sì, sì, ci vuole pazienza, ma tu di pazienza ne hai da vendere, mi pare…”

“Ma la pazienza nessuno la compra…”

“Hai provato a offrirne in giro?”

“Sì, ma per quanto sia preziosa, non è quotata in mercato. Ne ho immagazzinata un bel po’, l’ho mostrata alla gente e gliene ho decantato le proprietà miracolose, ma sembrano considerarla senza valore, allora sono costretto a tenermela.”

“Per me ha un grande valore, invece, potresti darmene un poco, te la pago, ne ho un gran bisogno io, con il mio lavoro…”

“Prendine quanta ne vuoi, io ne ho di avanzo, non voglio niente in cambio.”

Disse con aria solenne e poi sorrise.

Stavo pensando seriamente a come fare per prendere e portarmi via un carico della preziosa pazienza di Indio Velho, ma la soluzione si trovava già in questa pausa del dialogo, solo a vederlo mi veniva naturale e automatico essere più paziente e tollerante, esattamente come a vedere certe persone stressate mi stressavo anch’io, queste cose magari erano trasmissibili o forse anche contagiose…

Quando mi sentii di aver immagazzinato abbastanza pace e serenità, poi gli domandai:

“Ma tu, piuttosto, non ti senti solo, qui?”

“Mi sono già sentito solo, all’inizio, ma per fortuna avevo avuto tanta compagnia, prima, ora è stivata in deposito, tu non lo sai, ma io ho attraversato il mondo, in lungo e in largo, ne ho conosciuta di gente, sono un po’ stanco di tutto quel parlare, sì… parlare è bene ma stare zitti ha anche il suo fascino… quelli che parlano di più sono quelli che hanno meno da dire, la conversazione è un’arte, ma la gente ha bisogno di fare tutto alla svelta, non ha tempo e poi, quando ne ha, pensa ad altro… comunicare è importante e necessario, ma dovrebbe essere anche un piacere. Invece è diventata esclusivamente una necessità. Ed ecco che il suo fascino è diminuito, almeno per me.”

Il sole stava scendendo e nella boscaglia stava diventando sorprendentemente assai meno caldo, Indio Velho si alzò e io lo seguii, camminammo insieme senza parlare.

La sua presenza era rassicurante, per me, non come quella di una guardia del corpo, cosa da Valligiani, ma piuttosto come quella di una guardia della mente, che era invece roba da Montanari.

Uno che sapeva attraversare ogni quesito con il suo ragionamento, la sua filosofia personale, senza pretendere di risolverlo, senza dover credere che tutto avesse necessariamente una risposta urgente o definitiva.

Insieme a lui non mi sentivo in dovere di parlare, riusciva a trasmettermi la sua energia quieta a sguardi, a gesti, anche nella sua immobilità in mezzo al cinema esotico della natura circostante.

Usciti dal boschetto, attraversata la salita coperta da erbe basse, certo spuntate da poco e di un verde chiaro vivissimo, arrivammo su un altopiano più largo, vicini al crinale, il vento era aumentato.

Ci sedemmo su una pietra, dove il vento sembrava più caldo, nella boscaglia invece l’aria era ferma e umida.

I suoi occhi si spostavano lentamente attorno e il suo naso sembrava fiutare a lungo, come quello di un cane:

“Hai sentito qualche odore o qualche variazione nello spazio e nel tempo?” Gli domandai ironicamente.

“Sì. Domani pioverà, o forse stasera, o stanotte.”

“Come fai a saperlo?”

“Aria di pioggia, dal lato della laguna, di là gli odori arrivano in anticipo.”

Non mi sorpresi, in città non ci riuscivamo più a sentire gli odori della natura, ma una volta la gente era più legata a queste cose. Indio Velho era come un vecchio cane selvatico della boscaglia, sentiva tutto e tutto aveva il suo bravo significato, là in mezzo, per lui.

Là sotto, nella grande città, invece noi barcollavamo nel buio, non capivamo la metà di quel che ci succedeva, eravamo barchette in mezzo alla tempesta.

Indio Velho fiutava e vedeva e ascoltava, era sempre padrone del suo presente e non pensava troppo al passato e al futuro.

“I cani lo fanno ancora. Fiutano. Loro non perderanno mai il loro contatto con la campagna, il loro bagaglio di memoria gli viene trasmesso, istintivamente e spontaneamente. Noi da piccoli dobbiamo imparare tutto, gli animali invece hanno tante nozioni acquisite dai loro predecessori, che sono praticamente autosufficienti da subito, noi invece, senza i nostri genitori moriremmo, nei primi giorni.”

“E allora?”

“Allora la nostra scarsa attitudine fisica, ai primordi, ci ha fatto sviluppare l’intelligenza.”

“Secondo te eravamo predestinati?”

“Non lo so, ma se fossimo stati ugualmente abili a procacciarci il cibo, come gli altri animali, forse ora non saremmo così complessi.”

“Questo sarebbe il famoso elogio all’inferiorità?”

“Esatto, ma se ora abbiamo sviluppato tutto questo progresso attorno a noi, ci siamo distanziati da loro, gli animali, e dalla natura e siamo diventati di nuovo inferiori, è perché non stiamo bene…”

“In che senso?”’

“Non capiamo più qual è il senso della vita.”

“Ma come, non è il denaro?” Chiesi con uno stupido sorriso indagatore.

Indio Velho sorrise, guardò lontano, dietro alle mie spalle, diventò serio e pensieroso, forse perché laggiù il denaro dettava la sua inesorabile legge. Era proprio per quello, per le sue dannate e ramificate conseguenze, che lui aveva scelto di vivere lassù.

“Il denaro è il prezzo della vita, non mi ricordo chi lo ha detto, ma credo che sia vero. Io però, credo che il senso della vita sia da cercarsi nella natura, più ce ne allontaniamo e meno ci sentiamo bene.”

“Allora tu cosa suggeriresti?”

“Di cambiare argomento.”

Tre giorni dopo, nella mia visita seguente, iniziammo a parlare dei giovani. A proposito dei giovani, lui voleva che gli raccontassi i dialoghi che sentivo in giro per la città, lo facevano ridere, si divertiva e diceva che imparava tante cose nuove, specie quando riuscivo a trovargli qualche storia inedita.

Quel giorno ne avevo una che forse gli sarebbe piaciuta:

“L’altro giorno ho sentito una conversazione interessante per strada.” Proposi, con sguardo intrigante.

“Tra giovani?” M’incalzò avido Indio Velho.

“Giovanissimi.” Dissi orgoglioso di me e del mio ruolo di testimone della società moderna brasiliana.

“E com’è stata?”

“Rapida, ma simpatica e indicativa.”

“Sono pronto. Raccontamela allora. Che diavolo aspetti?” Disse preparandosi seduto Indio Velho.

“Sì, va bene, ma non c’è bisogno di sedersi, è velocissima.

Dunque: ieri pomeriggio c’erano due ragazzine che passavano camminando davanti a me, avevano forse quattordici o quindici anni, non lo so, siccome avevano quasi la mia stessa velocità di passi, prima che attraversassero la strada, le ho sentite raccontarsi le loro cose… e qui devo dirti che, per loro, quello che dicevi, qualche giorno fa, della necessità del comunicare e dello scarso piacere nel farlo, non vale, sembravano veramente contente di parlare tra di loro…”

“E che dicevano, che dicevano?” Domandò lui.

“Bene, una di loro, quella che parlava di più, ha iniziato: ieri ho incontrato Mello, e lui mi ha detto: Perché non facciamo non so cosa, non so quando, uno di questi giorni, magari, insieme?

“Ah, bello, e lei che cosa ha risposto?” Chiese Indio Velho.

Ma quanto tempo ci vuole? Ha domandato. Già che la seconda ragazzina glielo aveva chiesto immediatamente, come te. ”

“E l’altra, e l’altra?” Domandò IV.

Ah, questo non lo so! Ha risposto la prima ragazzina.”

IV rise, lo sguardo alto oltre di me, come se si immaginasse la scena, per qualche secondo. Poi disse entusiasta:

“Meraviglioso, piccola-grande storia, sei un grande osservatore Odair, questo è uno stupendo esempio di stringata banalizzazione moderna, pieno di mancanza di significato e perciò autenticamente significativo e significante, ma… a proposito: cosa diavolo significa?

Magari ti dico la mia interpretazione: i giovani non specificano più le situazioni che già appartengono a schemi standardizzati e conosciuti da tutti e si riferiscono a essi con parole e frasi cortissime e convenzionali.

(Un po’ come la barzelletta del club dei raccontatori di barzellette, che ormai le raccontavano citandole e ridendo usando i loro relativi numeri di riferimento dopo averle catalogate…)

Insomma, le persone nel mondo globalizzato pensano di non avere tempo per stare a conversare e allora usano i nomi per le situazioni, avendole da tempo catalogate e divise in categorie… la totale assenza di specificità appiattisce e semplifica tutto, senza doversi dilungare in descrizioni noiose e fuori moda, dato che il tempo corre… Fenomenale.” Aggiunse lui cercando forse in me una qualche reazione.

“Fantastico.” Dichiarai io, con malcelato poco entusiasmo.

“Incantevole.” Terminò Indio Velho con autentica e grande gioia bambina.

“Ma questo non è anche un poco triste?” Rincarai allora, da mezzo avvocato del diavolo, per capire meglio cosa ne pensava Indio Velho e perché pensavo, in fondo in fondo, che fosse triste veramente.

“Non lo so se è triste.” Disse lui. “Ma la gente è così, specialmente quella giovane che studia e quella che lavora, mi pare che veramente non abbia tempo, per conversare come vorrebbe e comunque non ci è più abituata. Non si sente più piacere nella conversazione, nella modernità tutto si frammenta, tutto diventa rapido e necessario, allora si va al passo con i tempi, oppure si viene dimenticati. Basta pensare ai computer, all’economia virtuale, ai dialoghi tra persone che lavorano, ai cellulari e ai messaggi di testo o di voce, agli incontri rapidi e in più interrotti da continue telefonate, la comunicazione sta correndo come impazzita, per forza diventa uno stereotipo, perché la descrizione sarebbe molto più lenta, no, no, si deve sintetizzare al massimo, per mantenere il ritmo…” Aggiunse lui, con entusiasmo, come se fosse una catena di cose positive.

“E questo non è malinconico?” Domandai io.

“Forse sì o forse no, ma quello che noi dobbiamo pensare è che la natura stessa non si fa questa domanda, va avanti e non pensa alle soluzioni, ma vive la sua realtà dolorosa o meravigliosa che sia, dipende dai punti di vista, la natura non ha punti di vista è qualcosa di enorme e mischiato, e in movimento. Io cerco di ragionare in questa maniera, essendo io stesso poco ragionevole ma assai pratico, le soluzioni per me sono diventate automatiche, da qualche anno a questa parte non ne ho più, di decisioni, tutto si muove da solo. Come la mia maniera di isolarmi, che non è stata cosciente né improvvisa, ma il risultato di tutto quello che ho vissuto prima, sommato al mio carattere, alle condizioni di vita che stavo attraversando…”

“Ma per fare così bisogna un po’ disumanizzarsi…”

“Certo, ma non fa così male come si pensa, animalizzarsi un poco, perché è il ritorno alle nostre origini, io sto meglio ora di prima, certo non posso consigliarlo a tutti, ma chi se ne importa?”

“E allora non ti rattrista per niente questo processo di diminuzione del valore della cultura? L’appiattimento del dialogo, la morte della piacevole conversazione?”

“Forse sì, ma solo se fossero cose prese separatamente.”

“Che cosa vuoi dire?”

“Voglio dire che tutta questo progressivo peggiorare è solo una sensazione di gente che è abituata a cercare i difetti e non i pregi, a separare e non a associare, ma questa tristezza la maggior parte della gente non la sente, secondo me, perché si è abituata a vivere in questa maniera…”

“Certo che l’ignoranza e la povertà, almeno qui, fanno parte della vita di tutti i giorni…”

“Non solo qui, la storia si ripete come la geografia, la religione e la storia dell’arte, sì, sì, anche come la matematica… ridi? Ma è la pura verità, amico caro, tutto è copia di tutto, io non so immaginare un mondo differente, è sempre stato così e lo sarà ancora, nei secoli dei secoli…”

“Ma noi, però, dovremmo sperare che il mondo migliori, non è vero? Magari anche fare qualcosa affinché questo possa succedere.”

“Certo sarebbe bene, ma non tutti lo possono fare.”

“Non sono d’accordo. Secondo me tutti quelli che se ne rendono conto dovrebbero fare qualcosa, attivamente, non solo parlare.” Dissi io con una certa convinzione.

“Il difficile è non guastare la propria vita, nella ricerca di un qualcosa del quale probabilmente non vedremo risultato.

Beh, il mondo è stato infelice sempre, più o meno come ora, anche se in maniera differente, si può scegliere un’epoca preferita del passato, ma non si sa se le persone erano più felici di ora. Si potranno sempre migliorare alcune parti, ma allo stesso tempo altre peggioreranno, almeno dal nostro punto di vista. Dal punto di vista di altre persone, invece, proprio le cose che per noi saranno peggiorate, per loro sembreranno migliorate e ogni cosa e il suo contrario si avvereranno puntualmente, insieme alle mezze misure, nelle minuzie come nelle cose importanti, ci sarà eternamente una mistura confusa, sarà sempre difficile trovare la verità, ognuno ne avrà sempre un’idea differente, in un momento, e in un altro sarà già cambiato.

Per esempio: siamo abituati a dire come nostre le parole di un commentatore televisivo, a crederci veramente come se fossero nostri pensieri, le frasi udite in giro e che ci sono piaciute, ma il nostro pensiero sarebbe assai differente se veramente conoscessimo i fatti e non le notizie… perché i fatti sono già stati presi e filtrati, mangiati e digeriti da quel giornalista, che magari parla così per un suo interesse personale, per proteggere o promuovere qualcosa o qualcuno. ”

Rimanemmo zitti per qualche attimo, gli uccelli cantavano forte, erano in tanti, mi pareva che ci fosse in loro una particolare agitazione. Me ne accorgo solo ora, che Indio Velho mi aveva aperto una nuova porta, come sempre. Insistere nel mio punto di vista però mi portava a capire meglio, a sviscerare più completamente possibile l’argomento, come se immaginassi il punto di vista di chi sta di fronte a me e come se le parole di IV fossero le mie. La pausa finì quando io gli dissi:

“Ma quella maniera di parlare, se ho ben capito, non ti piace, così rapida, disturbata, frammentata, sintetizzata, senza personalità. Se la gente vive in questa maniera, non è peggio anche per noi?”

“No, o almeno solo in parte, quella è la loro vita, come potremmo fare per uniformare il nostro pensiero a quello di loro? E anche se potessimo, non può essere che in alcune cose loro abbiamo ragione e noi torto? E poi noi chi siamo? Tu sei diverso da me, siamo tutti diversi… anche se ci sforziamo di apparire uguali.”

“Va bene, va bene, ma vedere gli altri che stanno male non fa stare male anche noi?”

“Sì, in un certo senso, ma è la condizione dell’uomo, se anche tutti gli uomini stessero bene, non sentiremmo pena per gli animali? Se potessimo anche risolvere tutti i problemi animaleschi, poi le piante e le pietre ci parrebbero sfruttate e mal retribuite della necessaria e dovuta gratitudine… la pietà, insomma, nel senso classico, la compassione, certo, è bene avercela… ma non dobbiamo esagerare, prima di tutto perché non siamo per niente onnipotenti.

Come fanno gli stessi animali? Il tuo cane, per esempio - sì, lo so che non è tuo - pensa a se stesso, o forse nemmeno a quello: cammina, abbaia, mangia, poi dorme, se glielo lasci fare si procrea e non pensa mai, tanto per dire, a come sta male il cane del vicino che invece è legato e non può nemmeno farsi un giretto per il terreno recintato, e che nessuno lo accarezza mai…

Ecco: la pluralità porta la diversità e la diversità è più da accettare che da capire, il senso della vita è godersi la bellezza che c’è in giro, approfittare di quello che abbiamo e non stare a riflettere troppo su quello che non abbiamo noi o che gli altri non hanno. In sintesi, se noi stiamo male per gli altri, è solo perché non sappiamo dare, a loro o alla situazione, la opportuna collocazione nell’ordine delle cose. Invece, se le dedichiamo un po’ del nostro prezioso tempo, formiamo la nostra filosofia personale e solo allora possiamo accettare, perché allora non è più una cosa passiva, ma attiva. Ecco che possiamo aiutare gli altri, non dico materialmente, ma anche solo con la nostra presenza, una frase, una parola… cosa che non possiamo certo fare se stiamo in pena, se soffriamo, se la vita ci pare ingiusta e penosa, il bene che potremmo fare si tramuterà in dolore, questo sarebbe ciò che doneremmo agli altri, solo che di questo nessuno ne ha bisogno, però.”

 

 

 

 

 

"Vou com fé, vou na fé porque a fé não costuma falhar. Eu aprendi que só Deus pode julgar..."

 

“Ci vado con la fede, ci vado con la fede perché la fede non ha l’abitudine di sbagliare. Ho imparato che solo Dio può giudicare...”

 

(Realidade Cruel – Realtà Crudele - gruppo rap)

 

 

Zico e le favelas di Rio

 

A Rio de Janeiro la divisione è nitida. Le tante volte che sono stato a RdJ questa divisione l’ho assorbita. Fatta mia mentalmente. Un muro invisibile spacca in due la metropoli carioca.

Le favelas isolate sulla collina (morro) e gli abitanti “per bene” che vivono nei quartieri dove ci sono le strade (asfalto).

La spiaggia è l’unico luogo d’incontro tra questi “due mondi” dove la diversità non emerge. Come un frullatore, la spiaggia detronizza le diversità di chi vive nei palazzi rinomati d’inizio novecento (con prezzi al metro quadro uguali a quelli di Londra) con chi invece sopravvive tutti i giorni nelle favelas come la Rocinha.

Domenica mattina, spiaggia di Copacabana. Mi chiedo come posso capire se il palleggio perfetto, a piedi nudi di quel ragazzino di dieci anni (non di più) e la sua velocità nel dribblare la squadra avversaria siano o no Made in Favelas.

Magnetizzato a guardare il pallone che resta incollato ai piedi del riccioluto, ambrato ragazzino che tutti chiamano Zico. Anche i più grandi di lui usano quel soprannome. Con grande rispetto. E il ”piccolo Zico”, come una vera star, finita la partita, non si lascia coccolare da complimenti o richieste di foto dei turisti che, come me, sono rimasti sbalorditi. Da giornalista sportivo, mi chiedo se ho veramente visto in anteprima un nuovo “fenomeno”. Tornano alla mente le immagini in bianco e nero di Maradona, a dieci anni che palleggia in un campetto di un quartiere malfamato di Buenos Aires. Accostamento esagerato. Forse sì. Il piccolo Zico fugge via dalla spiaggia solo. Nessun genitore ad aspettarlo nonostante ormai sia buio e le strade del centro di Rio siano pericolose. “Meninos de rua”? Chi lo sa.

Povertà e irregolarità sono la normalità per Rio. Sono censite ufficialmente tra le 600 e le 700 favelas. Droga, miseria e armi. Ma anche sfruttamento e violenze sui minori. Ognuna di queste favelas possiede una sua storia che la distingue in termini sociali, culturali ed etnografici. La metropoli carioca, basta guardarla per capire. Costruita nel mezzo di alcuni complessi montuosi ricoperti di foresta. Le sue favelas adagiate su costoni rocciosi, per tutti zona franca, distanti e differenti dal resto della città.

La favela è un fenomeno antico. A Rio, la prima risale addirittura al 1897 quando i soldati di ritorno dalla campagna di Candudos si trovarono senza casa e occuparono l’area dell’attuale Morro da Providencia nella zona nord della città. Negli anni trenta si assistette al dilagare del fenomeno, che fu alimentato dalla crisi economica e dal crollo del prezzo del caffè, che mandò in rovina una buona parte della classe media carioca.
In vista dei campionati del Mondo, Rio è alle prese con il tentativo di urbanizzare e bonificare queste aree franche dove ancora una parte della popolazione non è censita.
Le immagini della diretta televisiva di O Globo del dicembre 2010, con i soldati e che guerreggiavano con le bande di narcotrafficanti delle favelas è stato il punto di svolta per Rio. A distanza di dieci mesi, oggi, in molte favelas la polizia può entrare senza essere attaccata a colpi di bazooka. La violenza, dicono le statistiche, si è drasticamente ridotta.

Un primo passo per abbattere quell’ancora imponente muro invisibile tra morro e asfalto. E sperare che non sia solo la spiaggia luogo d’incontro tra questi due mondi. E non doverci più chiedere se le magie sulla spiaggia del “piccolo Zico” siano o no “Made in favelas”.

 

 

http://www.24emilia.com/Sezione.jsp?titolo=Zico+e+le+favelas+di+Rio&idSezione=29343

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel mio modesto angoletto sto studiando da sempre, anche prima se non me ne accorgevo, dove va a finire questo mondo. Insomma la civiltà che direzione sta prendendo, forse la civiltà stessa fa parte di un disegno più grosso, di un movimento perpetuo tracciato da non so chi, forse da un Dio, o magari dall’uomo stesso, inteso come umanità. O forse è tutto a caso?

Solo che noi uomini non ci vogliamo credere.

 

      (Odair Ribeiro Diaz)

 

 

Ada

 

 

Il giorno dopo Adailton, per strada andando verso il quartiere Cinelandia, poi mentre lavorava, pensava e ripensava a Oda e agli spiedi. Se li era dimenticati di nuovo. A sera, stanco e incuriosito decise che non aveva niente da perdere, (a parte quei diavoli di spiedi) e telefonò a Odair che aveva un cellulare, gli aveva dato il numero il giorno prima.

“Tutto bene Oda? Qui è Ada...”

“Olà Ada, come va l’esistenza? Senti, sono in seduta, dimmi rapidamente, magari ti chiamo dopo...”

“Niente, volevo provare a fare una... seduta anch’io, come pagamento accetteresti anche il prestito retroattivo di spiedi di churrasco?”

“Certamente! Visto anche che ho in mente una certa cosa per te... poi ti spiego. Va bene!”

“Ottimo, a che ora vengo?”

“Stasera, domani, ti va bene la sera? Così non perdi il lavoro, alle otto di domani sera va bene per te?”

“Sì... ma ci vuole un poco di tempo per arrivare lì,  può essere alle otto e mezzo?”

“A posto! Otto e mezzo qui sulle poltrone di Napoleone!”

E riattaccò senza aspettare risposta. Ada rimase soddisfatto e andò a dormire, si addormentò subito, ma la solita sparatoria tra trafficanti lo svegliò verso le quattro di notte. Dopo si sognò Oda vestito da indiano dell’India, che gli faceva un sermone dalla roccia del Cristo Redentore, lui, là in basso, sdraiato sulla spiaggia di Copacabana lo ascoltava perfettamente concentrato, Oda diceva cose incredibili e che gli pareva che non avessero niente a che fare con lui, ma dopo, da sveglio, non se le ricordava più.

Alle otto e quindici minuti Oda gli aprì la porta, prima che lui bussasse, sul fornello c’era una pentola fumante che mandava odore di fagioli neri fumanti, con spezie e carne grassa per insaporire: la feijoada.

“Ah, sei in anticipo, pensavo che fosse Jorginho da Cruz, il mio amico-cliente-macellaio, sto aspettando i pezzi di maiale per la feijoada...”

Ada si guardò intorno e si sedette sulle poltrone di Napoleone, così chiamate perché vecchie e di panno blu, con i bottoni che una volta dovevano essere stati dorati.

“Allora quando comincia la seduta?”

“Può cominciare da questo momento.”

“E quanto dura?”

“Il tempo necessario, che generalmente è un’ora, ma qui non ci sono orologi e non ce ne saranno mai, o meglio: mai più. Dopo un’ora più o meno esatta di discorsi, il gatto, Soneca de Ouro (Pisolino d’Oro), che puoi vedere lì sdraiato nella penombra di una terza poltrona napoleonica, quella più sfondata, comincia a diventare annoiato e miagola, questa è la fine della seduta. Non c’è da sbagliarsi.”

“Bene. Cominciamo subito, allora.”

“Aspetta, vado a scaldare l’acqua per il chimarrão.”

“La feijoada è inclusa nel prezzo?”

“Sì, ma dobbiamo aspettare Jorginho, per i pezzi di maiale... doveva essere già qua, si sarà fermato a bere... quello beve che sembra pagato... spesso coi soldi miei, infatti, ma è un bravo ragazzo, ogni tanto una bella bastonata lo rimette sui binari, ne ha un bisogno fisiologico e a quello ci pensa sua moglie, per fortuna, che sennò è faticoso.”

Dopo pochi minuti Oda ritornò con il termos e la cuja già preparata, (recipiente ricavato da un tipo di zucca seccato, dove si beve il chimarrão), davanti a un’enorme televisione a valvole spenta, con sopra un vaso di folte felci ornamentali, che sembravano i capelli dell’apparecchio antidiluviano, ecco che sprofondati entrambi nelle poltrone antiche, sorseggiavano a turno l’infuso caldo dell’erba mate, il famoso chimarrão gaúcho, un bastoncino d’incenso bruciava attaccato al lampadario di gocce di vetro, in lontananza una musica strana, strumentale, forse qualcosa d’indiano...

“Vogliamo iniziare?” Disse Oda.

“Sì, sono pronto, o quasi.” Rispose Ada.

“Allora, come stai vivendo all’epoca attuale?”

“Male.”

“Tutto quello che vedi è negativo?”

“No, ci sono anche cose positive...”

“E quali sono?”

“Non dovrei dirti quello che non va?”

“Chi è qui il saggio paziente, e chi l’avaro cliente del disgraziato saggio?”

“Hai ragione, ma ora non mi viene in mente niente di positivo...”

“Ah, ecco. Però è importante che tu sappia che c’è qualcosa di buono, è già importante che tu dica che esiste qualcosa di positivo... da questo capisco già un bel po’ di cose...

Comunque pensaci bene e poi dimmi che cosa vedi di bello.

Solo le cose più importanti.”

Adailton pensò per qualche minuto. Poi disse:

“Gli spiedi, oggi me li posso finalmente riportare a casa...” Sottolineò con un sorriso ironico.

“Questa è già una cosa positiva, non mi pare molto importante, ma forse per te gli spiedi lo sono... dimmene un’altra, qualcosa di meno materiale...”

“Che non sono rimasto a casa a rimuginare come al solito, la domenica sera mi sento più solo del normale...”

“Questa mi è già piaciuta di più. Qualcos’altro?”

“Forse che fra poco ci mangiamo una bella feijoada che è tanto tempo che non ne mangio una decente?”

“Vedi qual’è il nostro problema?

Non offenderti cugino, ma il nostro problema è l’opposto di quello dei ricchi, da questo si capisce che siamo poveri, lo sapevamo già, va bene, ma quello che è più brutto è che abbiamo la mentalità da poveri. Pensiamo solo a quello che stiamo vivendo al momento, il che sarebbe una cosa buona, ma il fatto è che siamo incapaci di astrarci, voglio dire, di uscire immaginariamente da noi stessi, dall’ora di questo momento, per poter guardare noi stessi dal fuori, per capire che tipo di cetrioloni sgocciolanti abbiamo piantati dentro gli orecchi, che ci impediscono di intendere quello che succede fuori dalla nostra testona grande e vuota, ma che sorprendentemente non smette di rimuginare un secondo su cose inutili. No, non ti offendere, anch’io ho provato questa sensazione d’impotenza: tutto difficile, tutto lontano, tutto complicato, tutto fuori portata, tutto quello che conta veramente è irraggiungibile.

Perché?

Solo per mancanza di competenza, poi di conseguenza di mancanza di occasioni, quindi conseguenza di mancanza di soldi, semplicemente nascere nel luogo sbagliato, con la famiglia sbagliata, al momento sbagliato?

Purtroppo sì.

Non te la prendere, succede a tanti ed è successo anche a me, se ti racconto come ho messo in carreggiata la mia automobilina, nella confusione del transito di tutto quello che mi era successo, non ci crederesti nemmeno...

Sì, ammettiamolo, la vita non è troppo difficile, in fondo, ma siamo noi che siamo stati buttati qua in mezzo, da chi ci capiva meno di noi, i nostri ignoranti genitori e per questo noi stiamo qui a piangere senza la possibilità di capirla.

I ricchi?

I ricchi invece pensano troppo al domani, a conservare e in un futuro prossimo ad aumentare la loro proprietà e tu, che invece non hai niente, puoi solo pensare agli spiedi e alla feijoada? Certo, sono le cose più piacevoli che puoi trovare in giro. Cerca di sforzarti un poco ancora, che cosa è veramente importante, che fase sta attraversando la tua vita, oppure quali sono le tue prospettive?”

“Ma tu non sei povero, almeno la tua famiglia non lo è, sei tu che hai scelto di venire a vivere qui, o no?”

“No, ma questo è un altro discorso, questa povertà mi è stata utile, prima di tutto per abbandonare la protezione dei miei genitori che mi avevano fatto diventare un inutile totale e mia moglie ha fatto proprio bene a lasciarmi, detto tra noi. Poi mi è servita per trovare la mia strada. Ora lascia perdere la mia storia e pensa a te stesso, a qualche cosa di positivo.”

Silenzio, Oda ne aveva dette tante e la testa di Ada ci stava pensando, dopo una decina di secondi disse:

“Una cosa positiva è anche che, se tu mi dai una mano, posso sentirmi meglio in futuro...”

Lo dichiarò sorridendo con quell’espressione tagliata nell’ironia che nasceva automaticamente sulla sua faccia scettica, che la vita di favela aveva abituato a diffidare anche dei fatti più sicuri, perché se nella vita niente era sicuro, beh, in una favela ancora meno.

“Molto bene. Stiamo migliorando, a parte quel sorrisino ironico, che fa parte della nostra cultura irriverente, quello è più difficile da estirpare, lo so. Continuiamo: dimmi ancora una cosa positiva.”

“Lo sai che sei cambiato tantissimo da quando ti ho visto l’ultima volta?”

“Si, lo so, lo sapevo anche prima e poi tu me lo hai già detto. Questa ti pare una cosa positiva?”

“Sì, perché prima eri diverso... eri un negrone come tanti...”

“Come esattamente?”

“Ignorante. Stupidotto come me. Più attaccato ai soldi forse, ne avevi di più e allora ne volevi di più.”

“Bravo. I miei genitori hanno fatto il possibile per educarmi a credere che il mondo girasse intorno al mio ombelico. Alla convinzione che i soldi sono l’unica cosa veramente interessante. Certo avere una certa cifra sviluppa il pensiero di aumentarla, se non hai niente o poco, ecco che pensi alle piccole porzioni di tempo, alla giornata, magari anche con meno ansietà. La tua filosofia è tirare a far notte.”

“Beh, non esageriamo.”

“No, meglio di no. I soldi per te sono un problema, oppure l’ideale soluzione? Sono o non sono il motivo del tuo star male?”

“No, almeno non credo. È solo la loro mancanza a volte che mi obbliga a fare una vita che non mi soddisfa troppo...”

Ne risero insieme, un poco amaramente, si potrebbe aver pensato, ma non c’era amarezza nelle loro espressioni. Il modo di comportarsi di un brasiliano è rotondo, inafferrabile, per abitudine non si infila mai nelle pieghe della sua tristezza, prende in giro se stesso, le sue stesse tragedie, perché la vita è tragicomica e dentro una favela lo è anche di più.

“Vuoi guadagnare dei soldi o no?”

“No, è il lavoro che non mi piace, certo qualche Real in più mi aiuterebbe, ma non è questo il problema, sono abituato a vivere con poco.”

“E allora che cosa vorresti da questa vita meravigliosa e stupenda, ma a volte un po’ feroce?”

“Non lo so... vorrei vincere a una lotteria milionaria, per esempio.”

“Stai giocando alla Super-Sena?” (Lotteria miliardaria brasiliana)

“No, non credo che potrei vincere.”

“Ada, non ti offendere, sei un ragazzo intelligente, ma quello che stai facendo è rinunciare a sognare, la differenza tra il Brasile e la Germania, per esempio, è che loro non sognano molto, la loro vita è molto razionale. Loro hanno una permanenza più regolare su questa terra, più condizioni economiche, miglior livello di vita, ma noi abbiamo un clima migliore, siamo più ingenui e questa è una fortuna, perché crediamo di più nel domani, in sostanza sogniamo di più. Siamo anche più ignoranti e questo forse non è bello, né utile. Siamo più aperti a quello che è l’esterno, i tedeschi sono più chiusi, ma studiano di più. È anche una questione di clima, là sono più chiusi perché è freddo.

Allora, se tu prendi ciò che abbiamo di migliore e lo mettiamo insieme ai lati più positivi dei tedeschi otteniamo esattamente il contrario di quello che sei tu. Hai capito? Ridi eh? Bene, quello che volevo dire era questo... e credo che tu lo abbia capito, almeno la tua faccia, si mostra ironica e divertita. Non ci sei rimasto male? Molto bene. Quello che volevo dire era che nella tua persona tu unisci il lati peggiori della cultura europea e di quella brasiliana, l'esagerata e colta introspezione tedesca con l'aperta ignoranza brasiliana, per questo ho pensato che saresti la persona giusta, quella che fa per me.”

“Come sarebbe a dire?”

“Ti ho già detto che gli affari vanno bene,  che io sto pensando d’ingrandirmi, insomma un aumento di capitale e qui il materiale umano è l’unico capitale che abbiamo, lo sai, è solo la nostra abilità mentale e pratica, non abbiamo qualifiche e dobbiamo studiare più degli altri, tu sai leggere e scrivere no?”

“Sì, ma perché me lo domandi, vuoi dire che dovrei lavorare con te?”

“Perché? Non ti piacerebbe?”

“Sì, ma sono ignorante come una capra, l’hai detto anche tu, non ho speranza di capire tutto questo.”

“Quello chi lo deve stabilire sono io, cugino mio, ho visto che sei molto più intelligente di quello che vuoi mostrare, sei introverso, cioè ti interessa capire meglio come sei dentro, sei povero, hai voglia di guadagnare di più, anche se non lo ammetti a te stesso è normale, (anzi  normalissimo,) e ti piacerebbe fare qualcosa di gratificante, che significa di livello più alto e di maggiori soddisfazioni, non solo finanziarie ma anche a livello di piacere personale nel farlo.”

“Stai scherzando? Vuoi mettermi a studiare?”

“Sì, ma noi abbiamo un grande vantaggio, il cammino che farai tu io l’ho già fatto, sto cominciando a coglierne i frutti, io lo conosco già. Adailton Machado Da Silva: noi abbiamo giocato insieme da bambini, se c’è una decina di persone al mondo, tra quelle poche ancora vive, che fanno parte della mia infanzia, quella sei tu e altre nove, più o meno, che me ne dici?

Ti ho già spiegato che ho scoperto che la mia vocazione è quella di aiutare gli altri, ma potrei aiutare più gente e sentirmi anche più in pace con me stesso se aumento il mio esercito, ti sto chiedendo di farne parte, che ne pensi? ”

Ada non sapeva proprio cosa dire e la seduta continuava, in maniera diversa dal momento che Oda aveva aperto il suo gioco:

“Ti devo confessare che questa mezz’ora di seduta è stata differente da quelle che faccio con gli altri clienti, perché ti ho già inquadrato nel tipo di cose che io penso, dalla mia parte, per aiutare gli altri, ti stavo spingendo, ora, a capire cosa penserai e cosa dovrai fare al mio posto... perché qui si dovrà sdoppiare la mano d’opera, prima si dovrà studiare, certo, fare un poco di sedute come questa, tra poco tempo sarai tu a ricevere qui e io andrò a casa dei clienti... o al contrario, diventerai un saggio come me, uno che lavora per il bene degli altri.”

Lo stupore di Ada era evidente, ma, visto che Oda incalzava e Ada non reagiva, significava che la cosa stava già funzionando, nessuna obiezione, allora si passò già alla pratica:

“Prima di tutto il cliente deve collaborare, per farlo deve credere che ha di fronte a sé una persona nelle mani della quale si può mettere tranquillamente, deve avere fiducia, un’estrema fiducia: allora, cerca di dimenticarti che questo qua è il tuo cugino Oda, perché gli altri che vengono qui non lo sanno.

Respira a fondo, con calma, lentamente.

Normalmente dico: rilassati e dimmi tutto, senza ordine, poi facciamo l’ordine insieme, ecco.”

“Allora, se ho capito bene il paziente deve parlare della sua vita, che se viene qui significa che funziona male, si deve fare uno schema di quello che fa e di quello che non fa...”

“Benissimo, vedi che stiamo già entrando nel vivo? Ma che cosa significa vivere secondo te?”

“Vivere? Essere qui, a Rio de Janeiro, alzarsi la mattina, andare al lavoro, tornare a casa la sera, mangiare, dormire... tutto questo, no?”

“Mi pare un’idea stanca e ripetitiva... non ti diverti nella vita?”

“Poco, quasi mai.”

“Perché?”

“Non lo so, lo chiedo a te.”

“La risposta me la hai già data tu, proprio ora, dicendo che cosa è vivere per te: una routine senza senso, una ripetizione di atti senza valore alcuno e senza possibilità di essere interrotta, se non con la morte, a che cosa serve vivere così?”

“Se la risposta te l’avevo già data, perché mi hai domandato perché?”

“Per tre motivi essenziali: primo, perché tu ascoltassi le tue stesse parole rassegnate; secondo, perché tu gli dessi l’opportuno peso; terzo, affinché tu capissi che chi deve fare qualcosa sei tu e non io, al massimo io posso portarti sulla pista, insegnarti il passo, ma chi deve ballare sarai tu e solo tu.

Un altro problema che hai, come tutte le persone rassegnate, è dare la colpa agli altri, delegare la tua responsabilità, così potrai sempre dire che la colpa non è tua... può anche essere vero, la vita può essere anche stata ingiusta e poco generosa con te, ma invece di lamentarti incomincia a fare qualcosa!

Anche se dentro di te la verità esiste, la devi trovare, anche si nasconde in te ma non sai dove, poi la devi portare alle tue labbra e pronunciarla davanti allo specchio, all’inizio per esercitarti, da quel momento comincerai ad averne coscienza, in seguito potrai cominciare a fare qualcosa a proposito. Anche questo non sarà facile, ma questa è l’unica strada possibile.”

Ada rimane a bocca aperta.

“Lo sai che sei molto cambiato dall’ultima volta che ti ho visto?”

“Lo sai che è la quarta volta che me lo dici e che lo sapevo anche prima che me lo dicessi?

Anche tu sei cambiato, ma in peggio, dall’ultima volta che ti ho visto, sappi che dobbiamo lavorare molto, ma qui e ora stiamo già lavorando per farti una bella revisione.

Le persone possono cambiare, te lo giuro, basta che siano motivate e che sappiano cosa devono fare per  cambiare.

Io ho bisogno di te e tu di me, QUESTO è l’affare intelligente, allora guardati alle spalle e confessati con papà Oda: che cosa ti stava succedendo?

Pensavi che il niente ti stesse lentamente uccidendo?

Ma questo niente lo hai cresciuto tu, lo alimenti ogni giorno, se continui così diventerà più grande di te.

Ti dominerà.

Da quel momento la tua carriera di uomo sarà giunta al termine.

Se vieni dalla mia parte, sarà completamente differente, aiuterai gli altri e facendolo aiuterai te stesso...”

Ada si era già convinto, in meno di mezz’ora, il resto fu una ripetizione a spirale, ritornava più volte, senza fretta, sugli stessi punti.

Oda gli fece capire che lo aveva scelto perché era un tipo tranquillo, cioè una persona paziente che sapeva ascoltare gli altri e poi la loro somiglianza all’inizio gli avrebbe fatto comodo, perché lo avrebbero acettato come uno che possedeva giá quel tipo di autorità.

Una non molto esatta ora dopo la seduta era finita, Soneca de Ouro miagolava e sbadigliava, subito dopo arrivò Jorginho abbastanza ubriaco e finalmente i pezzi di maiale finirono dentro alla feijoada che ansiosa li stava aspettando da un bel po’.

Jorginho parlava tanto ma non si capiva niente, Ada rideva, si sentiva peggio e meglio, ma così tanto peggio e meglio che gli sembrava quasi di stare bene, di essere vivo, finalmente, la testa gli ronzava un poco, si stava dimenticando di nuovo gli spiedi.

In presenza del suo amico Jorginho, Oda non parlava più di lavoro, ma cominciarono a bere insieme qualche bicchiere di cachaça (distillato di canna da zucchero).

Quando Ada se ne andò via, Oda, sul cancelletto sgangherato di legno, gli disse che lo aspettava il giorno dopo allo stesso orario, gli avrebbe fatto trovare un churrasquinho pronto e anche del  refrigerante (bibita analcolica in genere, tipo aranciata o gassosa).

Il giorno dopo Ada lottò inutilmente con se stesso, per quasi tutto il tempo, la sua maniera di vivere precedente rifuggiva ogni cambiamento. Ma la sera andò da Oda, il quale gli consegnò i primi due libri, gli spiegò di leggere e d’imparare solo le parti sottolineate, di chiedergli eventualmente se non capiva qualcosa, glielo avrebbe spiegato, anche per telefono andava bene.

Mangiato il churrasco e bevuto Guaranà (bibita analcolica a base di bacche della pianta del Guaranà), Oda mise seduto Ada in uno sgabuzzino e gli disse di fare ben attenzione alla seduta che lui stava per fare, sia alle parole che alle facce, dalla penombra avrebbe potuto vedere bene la stanzetta illuminata.

Poco dopo arrivò un uomo ben vestito, paziente e terapista si accomodarono di fronte l’uno all’altro, sulle poltrone di Napoleone disposte tatticamente, ben visibili e udibili dal punto di osservazione di Adailton che rimase subito impressionato dalla capacità professionale di Odair. Il cugino affrontò con sorridente calma i problemi e i dubbi, aveva una risposta convincente per ogni domanda, l’uomo si dimostrò sempre più soddisfatto e sollevato, le risposte di Oda erano corte e semplici, ma andavano diretto al punto e anche se lui non se ne intendeva, sembravano soluzioni vere, forse non facili da applicarsi, però proprio per questo oneste ed efficaci solo con l’impegno del paziente, come Oda puntualizzava ogni tanto.

Il passo e la pista dovevano essere mostrate dal saggio della favela, ma il ballerino era il paziente, su questo non ci pioveva. L’autorità della maniera di fare di Oda era presa molto sul serio dal cliente, era convincente perché era convinto, ogni piccolo particolare era preso in considerazione e sviluppato. Il signore doveva essere un riccone, anche perché al momento del pagamento tirò fuori il portafogli e pareva che le banconote che consegnò a Oda fossero due grandi e celesti.

Duecento reais?

Ada cominciò a pensare rapidamente, fece due conti e confermò a se stesso che valeva la pena studiare.

 

Tutti i giorni Ada andava a farsi il suo tirocinio, ma studiando un poco e continuando a lavorare a mezzo servizio, leggendo e mettendo in pratica con gli stessi suoi clienti di bancarella quello che stava imparando, vide i primi risultati concretizzarsi in poche settimane, cominciava anche a vendere di più e a guadagnare, in cinque ore, quello che prima guadagnava in dieci.

Ancora più importante: vide una soluzione ai suoi problemi, dava consigli gratuiti ai suoi clienti, ai conoscenti un po’ più intimi, iniziò anche ad aver piacere della sua stessa conversazione, perché si rendeva conto che ora aveva qualcosa da dire e cominciava a prendere l’aspetto di Oda, cambiò il suo look: capelli e barbetta, occhialini tondi, all’inizio avrebbe dovuto sembrare suo cugino, per il resto la naturale somiglianza li avrebbe aiutati, aveva compreso e accettato che il piano era anche questo, ma non solo questo.

 

 

Se una cosa vende molto vale poco, ma che cosa è importante in fondo: la qualità o il portafoglio? E poi per chi?

 

(IV)

 

 

IV e Oda

 

 

“Ma allora come fai a giustificare a te stesso che esistono persone che muoiono di fame e altre che invece hanno milioni di dollari in banca nelle isole Kaiman? Come puoi sentire giustizia nel fatto che questi secondi si arricchiscano sfruttando i primi?”

“Non sto dicendo che è giusto, ma solo che è inevitabile, perciò non me ne sento responsabile, come mi sentivo un tempo, che pensavo e dicevo che volevo cambiare il mondo e poi mi sono accorto che invece era me stesso che volevo cambiare e che il personaggio di lottatore politico che mi ero costruito addosso, anche lavorando come sindacalista, era quasi tanto falso quanto quello dell’industriale arrogante e vorace di sangue dei suoi operai… con le debite e necessarie proporzioni, naturalmente.

Insomma, ho pensato che tutti rientravamo nei modelli stereotipati di una società costruitasi nel tempo e nello spazio, progressivamente dimenticandoci della propria natura e calcificando e pietrificando odio nei propri ruoli, per arrivare a dimenticarsi anche degli obbiettivi, difendendo le proprie posizioni senza pensare più alla realtà al di fuori della mentalità standard del partito o della propria condizione - privilegiata, da un lato e scomoda dall’altro - di difendere coi denti la proprietà, senza accettare critiche o variazioni, ma solo difendendoci e attaccando, esattamente come facevano e fanno gli animali, nella foresta, gli uomini primitivi.

Però noi siamo uomini, invece, adesso più civilizzati di prima, almeno in teoria, abbiamo la nostra libertà - seppur relativa - a disposizione di tutti, o quasi.

Ecco che la pratica la dobbiamo sviluppare personalmente, ognuno in maniera diversa, evitando ogni tipo di schiavitù.

Cominciando da noi stessi, prima di tutto dobbiamo capire come siamo fatti noi, ognuno deve farsi un esame di coscienza regolare e cercare di non ingannarsi nelle risposte, perché rappresenteranno la base del nostro cammino futuro.”

Indio Velho si era scaldato più del normale, aveva alzato la voce, aveva accelerato il ritmo delle frasi.

Lo guardai incuriosito e cercai di infilarmi in quella fessura, in quel punto debole, perciò, di approfittarne, domandandogli subito in maniera leggermente provocatoria:

“Che cosa vuoi dire, che secondo te non vale la pena di fare attività politica? Che nemmeno i sindacati servono a niente?”

“No, al contrario, molte cose sono migliorate grazie agli scioperi e ai sindacati, all’esistenza di un’opposizione che controbilanciasse un potere che non deve mai diventare assoluto, sennò sono guai per tutti.”

“Qual è allora il tuo pensiero? Non ci ho capito niente.”

“Aspetta, non sono ancora arrivato al punto principale… però, rispetto all’attività politica e a quando facevo il sindacalista in Italia, quello che volevo dire era questo: in genere i ruoli diventano stereotipati, nessuno fa quello che dovrebbe essere fatto, si è legati al personaggio e si fanatizza in maniera perlopiù fanatica, con le mani legati da un lato e l’etica del partito dall’altra, senza mai uscire dai binari, si andava avanti come un treno, senza decidere né come né dove, in mano a meccanismi che non si capivano, ma si correva come matti.

Ecco, per questo ho messo metaforicamente in parallelo i due ruoli del politico di sinistra e dell’industriale di destra, tutti e due non escono mai dal loro ruolo e si portano avanti lotte standard con proteste e contro-proteste su un sistema binario che non ha mai variazioni significative.

Quando mi sono reso conto di questo aspetto ho abbandonato la politica, e l’idea di cambiare il mondo, è troppo dannatamente difficile spostare un sassolino, dentro a un sistema di sistemi, in modo che abbia una qualsiasi importanza, in compenso è molto più facile riuscire a frustrare e a rovinare di conseguenza la propria vita.

E noi di vite non ne abbiamo due o tre, io alla reincarnazione, non ci credo.”

“Sì, ora ti ho capito, ma il punto principale qual’era?”

“Ah, secondo me il nodo grande è questo: nella natura i pesci grossi mangiano quelli piccoli, la legge del più forte esiste, da sempre, è crudele e spietata, quello che vuoi tu, ma fa parte della natura.

Il comunismo predicava: pesci tutti uguali nello stagno, ma alcuni pesci erano più uguali degli altri, quelli che dedicavano la loro vita al partito, non tanto per il bene del popolo, come dicevano, ma per il loro tornaconto personale. Denaro potere e sesso, è chiaro finivano per essere di nuovo pesci grandi, un nuovo tipo di pescioni, capitalisti anche loro, mangiando i pesci piccoli, giurando che era per il loro bene.

Esistono animali erbivori e altri onnivori, i carnivori sono i più pericolosi,  l’uomo è un animale progredito, ma è sempre un animale. Nella società moderna cambiano i metodi, la mentalità è più complessa e in costante evoluzione, ma esistono vari tipi di persone e alcune non si accontentano, altre sì, alcune vogliono una vita tranquilla, altre invece hanno bisogno di emozioni violente.

Certo, gli animali uccidono solo per necessità, l’uomo ha sviluppato molto di più questo lato, perché soprattutto dopo la rivoluzione industriale ha iniziato, come fenomeno di massa, a immagazzinare ricchezza, a pensare al domani, lavorando oggi per prevenire i tempi duri.”

“Facendo i suoi tempi attuali indurire, per qualcosa che domani forse non avverrà mai, economizzando un’esagerazione per quello che poi, nel futuro, non avrà mai luogo.”

 “Anche, anche. Ma l’industriale è convinto che può mantenere il suo stato di privilegio, conquistato duramente, solo sfruttando il lavoro altrui, estraendo il suo bastardo plusvalore, mettendosi sotto i piedi tutto e tutti, per lui è necessario come per il Tirannosauro sgozzare la sua vittima ogni giorno, sennò muore di fame, o almeno è quello che crede, questo è ciò che hanno in comune, hanno bisogno del sangue altrui.

Io non dico che bisogna sottomettercisi, al contrario, ma che ognuno ha il suo ruolo ed è proprio questo che ogni uomo deve scoprire, prima di tutto.

Esistono uomini pacifici e altri aggressivi, come gli erbivori e i carnivori degli animali, secondo me l’onnivoro avrà sempre una vita migliore, perché saprà riconoscere il pericolo da che parte viene e non dovrà pensarci più di tanto e vivrà di conseguenza, divertendosi abbastanza, se mancherà la verdura mangerà anche la carne e il pesce, metaforicamente, insomma si adatterà meglio a ogni condizione di vita e ai cambiamenti costanti, ma irregolari e discontinui che la vita gli impone.

Questo per dire che gli uomini non sono né cattivi né buoni, ma semplicemente grandi e piccoli, aggressivi e pacifici, eccetera eccetera.

È sempre e comunque una questione di sopravvivenza, in teoria, o di economia, in pratica, ma i risultati sono più o meno quelli dei tempi passati, come tra gli animali, anche per noi è cambiato poco, i metodi si sono trasformati progressivamente, a volte anche improvvisamente, ma ora c’è più stress, perché ora il pericolo è più difficile capire da che parte viene, come si manifesterà, e c’è più ansia, perciò.

Una volta, non troppo tempo fa, si cacciava per mangiare o si era cacciati per essere mangiati, si scappava dal predatore o s’inseguiva la preda, non esistevano altre possibilità, non c’era da lambiccarsi troppo il cervello.

Ora no, ora le maniere in cui le cose possono andare storte sono moltissime e quando uno sta troppo attento a tutto quello che gli può succedere vive una vita che non vale la pena…”

“Aspetta un po’, sennò me lo dimentico: tu hai detto poco fa, che tutto è una questione di economia. Io non sono completamente d’accordo. E il potere? Dove lo metti il potere? Non credi che tanta gente sia ammalata di sete di potere?”

“Certo, il potere. Ne abbiamo parlato anche prima. Anche quello è antico, mi pare che, quando qualcuno alza la testa, già gli vengono automaticamente manie di potere.

Magari è vero che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, ma era meglio se non lo diceva a nessuno.

E poi, per me, è più facile che invece sia successo il contrario, è l’uomo che si è costruito un Dio nel cervello, a sua immagine e somiglianza.

Quello è nato appena ci si è creata l’idea dell’essere superiore, è un istinto di imitazione, tanto infantile quanto innato, purtroppo dannoso e in nome del quale tutto passa in secondo piano, è una malattia, fa parte dell’ordine a volte apparentemente disordinato delle cose. Ma è un disegno a fantasia, sebbene complesso ha la sua logica.”

“Allora dobbiamo accettare tutto pacificamente, no? Certo, basta risolvere nel cervello tutto questo e ci siamo conquistati la pace? Vorresti lasciar governare il mondo dalle multinazionali?”

“No, prima, infatti, parlandoti dei Tirannosauri, volevo dire che la multinazionale è come un enorme Tirannosauro moderno fatto di macchine e gente, che per il proprio lucro sacrifica ogni cosa altrui, ma indirettamente anche sua… provoca ogni genere di danno, all’economia e all’ecologia, insomma alla qualità di vita di più paesi, in generale.

La loro tattica è esternalizzare i costi, produrre a basso costo e vendere a prezzi competitivi… o meglio, a prezzi che strangolano senza pietà le piccole fabbriche, i piccoli commercianti.

Quando vogliono fargli pagare qualcosa che loro non hanno intenzione di pagare, rispondono con frasi fatte, perché non si tratta più di persone, ma di macchine di lucro, di mostri senza testa.

Per esempio, a Porto Alegre si tentò di negoziare, insomma, di trattare questi esagerati costi esternalizzati alla comunità di Guaiba e la Ford, che voleva metterci su una grande fabbrica, recitò a memoria la famosa frase, attraverso un suo rappresentante:

“Non potete farci carico di questi costi, sennò i nostri prezzi non saranno più competitivi…”

 E detto fatto, rotta la trattativa, se ne andarono a 3000 chilometri di distanza, nello stato di Bahia, dove c’era più povertà e avrebbero accettato ogni tipo di condizione.

Dentro la multinazionale le persone cessano di comportarsi come tali e si vendono l’anima, è l’unica maniera di sopravvivere nella tempesta dei mercati globalizzati, il mondo è un mercato, solo i mostri carnivori sopravvivono, gli onnivori vengono a scoprire metodi alternativi e vivacchiano, gli erbivori spesso soccombono.

La multinazionale inquina la natura, abbassa i salari nella regione in cui opera, diminuisce i prezzi della merce in maniera che l’impresa piccola fallisce, in generale, nel mondo intero, obbliga le persone a comprare i prodotti a un prezzo più basso, ma solo relativamente, pagando stipendi anche più bassi, visto che il costo della manodopera è uno di quelli su cui può giostrare, non importa se poi le persone che si scannano per lavorarci fanno la fame e le condizioni di lavoro non sono sane. La multinazionale non ha coscienza e le persone che ci lavorano anche non ne devono avere.”

“Che cosa proporresti allora?”

“Non lo so, che ne diresti di parlare di qualcos’altro?”

“Va bene… o magari potremmo anche stare in silenzio…”

“Come quando si ascolta il vento?”

“Sì, ecco, ascoltiamo il vento.”

Quando IV si stancava preferiva riposare, non voleva forzare, ecco cosa lo contraddistingueva dagli altri, se non aveva più voglia, se non ne ricavava piacere, ecco che smetteva, semplicemente.

Che cosa c’era di più naturale?

Se non resistevo troppo ad ascoltare il vento, non provavo il gusto che avrei voluto, non sentivo tutti gli odori e i segnali conseguenti che portava, il mio piacere era guardare Indio Velho che lo faceva.

 

Alcuni giorni dopo, eravamo seduti su un gruppo di rocce, con il vento sferzante e alcune nuvole che ogni tanto ci facevano rabbrividire, perché tagliavano il cammino del sole in direzione dei nostri corpi.

Indio Velho parlava molto lentamente, lo punzecchiai su un argomento del quale mi sarei potuto anche pentire: gli chiesi quale fosse, insomma, la sua dannata filosofia di vita.

Lui ne rimase tutto soddisfatto, come mi aspettavo, anche perché potenzialmente poteva sfoderare il suo concetto di base, del quale aveva un orgoglio quasi infantile, ma non lo faceva, ci girava intorno, voleva testare la mia capacità, la mia resistenza, forse mi voleva insegnare la sua arte di essere paziente.

O forse aveva troppi argomenti, che si ingorgavano per trovare la via della bocca

Intanto io diventavo sempre più nervoso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo scambio d’idee e opinioni costruito nella fabbrica della vita concreta è di per sé consiglio. 

 

      (Walther Benjamin)

 

 

Ada 2

 

Tutte queste cose le studiai, ma non le presi al volo, entrarono nella mia testa a forza di spiegazioni di Odair, molte delle quali per telefono, è vero, ma sempre con grande pazienza e determinazione. All’inizio ci credevo poco, a giorni alterni pensavo di non farcela, ma poi mi entusiasmai e in un secondo momento misi su anche un computerino usato e un’internet modesta, ma la comunicazione con mio cugino era diventata continua e capillare.

Passarono dei mesi.

La prima cosa che notai è che la realtà era molto più complessa di quello che pensavo prima, e che non necessariamente si risolveva tutto coi soldi. Poi che sapevo esprimermi meglio, cioè approfittai delle parole e della lettura, della ricerca di una verità più stabile, per poi applicarla nella vita di tutti i giorni, nella comunicazione con la gente.

Dopo un po’ Oda volle che mi documentassi su cose più specifiche del nostro mestiere, ma qui ero già operativo, con una decina di sedute alla settimana.

 

Partiamo dagli inizi, di solito è meglio:

Ippocrate (400 a.C.) individua nella pazzia una forma di malattia del cervello

S.Basilio (450 d.C.) dà la prima definizione della schizofrenia “Come il  folle non vede le cose reali, ma i fantasmi del suo cervello malato…”

1900 ca.  Si dimostra definitivamente che la pellagra (20% dei ricoverati in Ospedale psichiatrico) è una avitaminosi.

1911.   Durante una epidemia di febbre gialla nell’isola di Hispaniola (Haiti) si riscontrano straordinarie guarigioni nei ricoverati nel locale manicomio. Si introduce quindi la malario-terapia.

1938.  Cerletti scopre l’elettroshock. 40% di risultati positivi nei trattamenti di depressione maggiore e di schizofrenie catatoniche.

1945.  Scoperta della penicillina. I manicomi si svuotano dei degenti con psicosi organiche da sifilide.

1950.  Si scopre che il coma insulinico può avere effetti più duraturi e più positivi dell’elettro-shock.

1951.  Un nuovo farmaco teoricamente antitubercolotico  si dimostra di nessuna efficacia.  In compenso ha effetti calmanti e antidepressivi sui pazienti terminali di tubercolosi.  Nascono gli psicofarmaci.

Per effetto degli psicofarmaci, dal 1955 al 1970 si assiste in tutto il mondo alla drastica diminuzione dei pazienti  ricoverati negli Ospedali psichiatrici. 

 

Vediamo alcune tra le più diffuse terapie in uso:

 

Ad alta influenza freudiana

 

Psicanalisi: se i problemi vengono dall’infanzia sotto forma di impulsi repressi, si passa la maggior parte della sessione parlando per mezzo di libere associazioni. Il terapeuta parla poco e cerca di analizzare le parole e i sogni, senza emettere un giudizio, è il modello più antico ma è stato modernizzato dagli studi di Jacques Lacan (1901 - 1981).

Psicanalisi Junghiana, o psicoterapia analitica: Carl Jung, discepolo di Freud, introdusse nell’analisi il concetto di incosciente collettivo , immagini ed esperienze comuni a tutto il genere umano. Il metodo Junghiano considera, oltre le questioni individuali del paziente, le influenze esterne e collettive che possono tormentarlo.

Psicodinamica, o psicoanalisi light(leggera): si basa sulle nozioni tradizionali della psicanalisi, solo che è più breve, il terapeuta cerca di coinvolgere attivamente il paziente in un dialogo che gli faccia riconoscere e risolvere antichi conflitti. È anche più mirata a raggiungere obiettivi concreti prestabiliti tra paziente e terapeuta.

 

Media influenza freudiana

 

Gestalt: si usano il teatro e altre forme di espressione artistica, sfrutta tecniche drammaturgiche per costruire pensieri e attitudini creative. Con blocchi di gommapiuma, pupazzi o cuscini, il paziente è incoraggiato ad adottare nuovi ruoli e a esprimere sentimenti, con l’obiettivo di capirli meglio.

Terapia di gruppo: sfrutta altre correnti, ma è praticata in gruppo: il convivio con gli altri pazienti funziona come un microcosmo sociale, un ambiente sicuro per un nuovo comportamento. È indicata per chi soffre di problemi comuni del suo ambiente e ha difficoltà nelle relazioni con gli altri

Interpersonale: raccomandata a chi soffre di lieve depressione legata ai conflitti personali, lutto o cambiamento di ruolo (matrimonio o nuovo incarico professionale). Il tempo della terapia è predeterminato e le sessioni si concentrano sul tempo presente, senza legare le esperienze attuali al passato.

Centrata sulla persona: si concentra sulla relazione tra paziente e terapeuta senza interpretare pensieri e comportamenti, il terapeuta crea un clima di empatia che permette al paziente di esplorare questioni che lo disturbano e di sviluppare autostima, perciò è indicato per chi si sente oppresso dal mondo e ha una bassa accettazione di se stesso.

 

Bassa influenza freudiana

 

Terapia Comportamentale: indicata per chi soffre di reazioni indesiderate del corpo per manie e fobie (come paura dei ragni, paura di volare ecc.) Si utilizzano tecniche fondamentali tipo esposizione e condizionamento, nel tentativo di cambiare il comportamento usuale con reazioni più gradevoli. Secondo i critici è una specie di addestramento del paziente.

 

Terapia Cognitiva: basata sull’idea che ci disturba di più la nostra visione delle cose, che le cose stesse, secondo il pensatore romano Epiteto (60 – 117). Il terapeuta cerca di alterare i modelli di pensiero che disturbano il paziente insegnandogli a controllare le idee automatiche e a correggerle. Indicata per chi soffre di depressione e deve cambiare quello che pensa di se stesso.

Terapia Cognitiva Comportamentale (TCC): utilizza le due precedenti tecniche affinché il paziente identifichi pensieri e convinzioni distorte di se stesso. L’idea è far percepire al paziente i suoi pensieri e correggerli, generando nuovi modelli di ragionamento. Indicata per chi soffre di depressione, ansia e disturbi per causa di traumi.

Oggi vi è un numero notevole di molecole, a effetti più o meno marcati, che hanno permesso di ridurre moltissimo (dall’80% al 20%) l’elevata mortalità delle depressioni maggiori. Esistono farmaci calmanti e antidepressivi di molti tipi.

Limitato è purtroppo ancora il numero dei neurolettici, dei farmaci cioè che hanno effetto sui deliri e sulle allucinazioni schizofreniche.

Limitata  è la possibilità di azione sulle caratteristiche negative della schizofrenia: apatia, aridità affettiva, autismo. Inoltre sono sempre importanti gli effetti secondari e spiacevoli dei neurolettici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Democrazia è quando io comando te, dittatura è quando tu comandi me

 

         (Millôr Fernandes)

 

 

IV 2

 

 

La mia personale filosofia fu deformata e poi modificata dal pensiero di IV, in quei mesi, non glielo dissi mai, ma lui certo lo sapeva.

Quando partiva a tutto gas dalla filosofia in generale, sebbene non ce ne fosse nessun bisogno, forse lo faceva solo per me, non per insegnarmi cose che sapevo già, ma per temprare i miei nervi.

“Essere un filosofo significa credere a qualcosa e applicarlo, nel mondo ci sono tante variazioni, tante apparenti o effettive opzioni, ma la gente non sceglie quasi mai la sua strada, si prende strade già pronte, prefabbricate.

La gente dice cose a cui non crede completamente, udite da altre persone, pensa in una maniera, parla in un’altra e agisce in una terza ancora.”

“E tu, invece?” Cercavo d’incalzarlo.

“Io sono uno scettico tranquillo, lo sai, dopo averne attraversate tante, di strade, ho visto che quelle che portano ai dogmi non m’interessano, i grandi filosofi sono stati quasi tutti dogmatici… secondo me erano gente geniale, non dico di no, ma con i piedi lontani dalla terra, io no, io cerco di essere più pratico, non pretendo di risolvere tutto subito, lascio gli interrogativi aperti, se non riesco ad arrivare alla risposta, non m’invento delle storie suggestive, delle dimostrazioni forzate, aspetto di vedere la soluzione in seguito, col correre del tempo e della mia esperienza.

Non ho paura di dire non lo so, anzi mi pare una dimostrazione di attaccamento alla realtà, giacché non si può sapere tutto.

Quello che conta è che non forzo il mio ambiente a darmi quello che non può, non cerco cose assolute e definitive, perché per me non hanno troppa importanza, se tutto si muove ed è in costante evoluzione, perché perdere tempo con statue di verità formale che forse non erano vere nemmeno ieri, già che stanno attraversando l’oggi e diventando un altra cosa ancora nel domani?”

Aveva detto tante cose, ma non aveva detto ancora niente, che cosa diavolo significava essere uno Scettico Tranquillo?

Secondo me non ce n’era bisogno di buttarsi in quelle lunghe spiegazioni delle filosofie greche, tra cui il mito della caverna di Platone. Quando partiva per questi viaggi, però, nella storia della filosofia, non c’era maniera di fermarlo, ci avevo già provato, ma non serviva a niente, allora io mi mettevo a cercare le zecche nel pelo folto del cane.

Tra le altre cose, Indio Velho mi aveva insegnato a infilarle dentro a un barattolino con un forte detersivo per tappeti, là morivano narcotizzate e non potevano spargere uova in giro, come facevano se uccise schiacciandole col piede o un sasso.

Anche quella era una dimostrazione della legge del più forte, mi aveva spiegato a suo tempo, la pietà era un’altra cosa, da usarsi, magari, con chi non ci succhiava il sangue.

Il sentimentalismo, in sé, era una specie di autocommiserazione, secondo lui gli italiani erano troppo sentimentali e questo li fregava sistematicamente, io non ne conoscevo nessuno e non potevo dire niente.

Dopo qualche mezz’ora di racconti e di storie, di filosofie legate e slegate, moderne e antiche, eravamo arrivati forse e finalmente alla definizione della sua: perché Indio Velho era un cazzo di Scettico Tranquillo?

Manco per niente: se ne scappò di nuovo da un’altra parte, magari limitrofa, adiacente se non consecutiva e complementare, ma non quella che io volevo, vedendo che cercavo le zecche del cane, ecco che prese una ramificazione a caso ma non troppo del suo frondosissimo pensiero e la seguì:

“Il difficile nel mondo è il non alterare l’equilibrio della natura, perché la natura quando s’arrabbia non le si può più domandare scusa, spesso è troppo tardi.

L’attenzione che dobbiamo dedicargli è una cosa delicata, ma è estremamente naturale, non uccidere nemmeno una formica, quando possiamo evitarlo e non usare la violenza se non è necessario e soprattutto se è dannoso.

Rispettare animali e alberi e perfino le pietre, amarne la purezza, come rappresentanti molto più semplici e nobili di noi esseri umani, ecco che ci fa essere migliori.

La vedi questa pietra qui, dove sono seduto? Non so niente della sua storia, ne deve aver viste e sentite di cose, a volte è anche troppo dura con il mio sedere, che non se lo merita e allora io ci potrei anche litigare, ma altre volte mi fa da poltrona in maniera egregia, ecco, pensa quello che vuoi, ma io ci sono affezionato, la rispetto e ne sentirei la mancanza, se non ci fosse.

Non si muove da lì da millenni, non dice niente, non puzza e non profuma, eppure…

Dare il valore giusto ai vari elementi significa non essere rigidi, statici, ma sempre in costante movimento, ogni cambiamento di posizione, di punto di vista, è necessario per accompagnare una realtà che non è mai stata ferma, non lo è ora e non lo sarà mai.

Come diceva Kant la nostra idea delle cose le modifica dentro di noi, ma la cosa è reciproca, perché loro, le cose, intese come tutto, in generale, ci influenzano anche dal fuori.

È, cioè, un processo di andata e ritorno continuo, l’unica maniera per poterne usufruire con continuità e soddisfazione è l’elasticità, che è grande nemica dell’assoluto, almeno apparentemente, secondo la concezione umana.

Kierkegaard risolveva tutto dicendo “Non si può realmente sapere, ma solo aver fede”, io sono parzialmente con lui, ma quell’aver fede è un poco delegare la nostra propria responsabilità a qualcun’altro o a qualcos’altro, che potrebbe essere indifferentemente: un dio qualsiasi, magari inventato da un leader spirituale, un boss mafioso e un conseguente grasso e apparentemente pratico conto in banca garantito da un lavoro materialmente e moralmente sporco, ma chi se ne frega?

È vero, però, lateralmente, che non si può realmente sapere, gli interrogativi sono troppi e non sempre possiamo rispondergli, ma quello che dovremmo fare noi, secondo le mie esperienze passate, è un poco provare a noi stessi tutto quello che succede, anche attraverso le discussioni con gli altri, ma partendo da un dialogo interno, che ci stimoli a metterci anche in dubbio e perciò ci dia costantemente, anche se a volte faticosamente, una posizione nello spazio e nel tempo, cioè ci faccia capire chi siamo e cosa stiamo facendo al mondo.

Allo stesso tempo dobbiamo accettare che la nostra sete di verità non sempre sarà saziata, non dobbiamo rinunziare, ma non possiamo nemmeno credere che tutto si possa regolare al momento, che si debba dare un corso a tutto, per arrivare ogni giorno a qualcosa di nuovo, perché è una capacità che non abbiamo, noi, come non ce l’ha nessuno.

Dobbiamo invece mantenere l’attenzione costante, magari alle risposte, anche arrivate in ritardo, di domande fatte nel passato, o alle novità assolute passate di fronte a noi all’improvviso, se ci facciamo attenzione queste cose ci accadono continuamente, ma di solito, purtroppo, noi siamo troppo distratti per accorgercene…”

Rinunciando su suo recente insegnamento all’insistenza su un unico punto, non gli rinnovai la domanda che avevo ancora dentro di me, no, anche se con difficoltà, pazientavo.

Il suo ultimo suo ragionamento mi era parso logico, ma difficilmente attuabile, allora domandai a IV:

“Come facciamo a fare attenzione a tutte queste cose, se dobbiamo lavorare, tirare su una famiglia, confrontarci tutti i giorni con i cimenti quotidiani della nostra vita nel mezzo degli altri, una vita che diventa sempre più rapida e complessa?”

Indio Velho sorrise, forse contento che avessi lasciato perdere la sua filosofia personale e allo stesso tempo individuato il punto essenziale del discorso:

“Ti posso dare due risposte, entrambe sono verosimili, ma sono estreme e la verità è una media tra le due, che tu potrai fare, non oggi né domani, ma nel correre del tempo: la prima è quella che mi viene più naturale, per la scelta che ho fatto, ma questo non significa che io non mi renda conto delle difficoltà che si trovano là sotto, tra i Valligiani e i Collinari, per cercare un equilibrio.

La mia prima risposta è che non si può e proprio per questo io me ne sono uscito e sono venuto qui, a fare il Montanaro.

La seconda risposta, più aperta e flessibile, meno assoluta, è che dentro la vostra realtà di lavoro di tutti i giorni voi potete scegliervi una strada poco battuta, che è quella di seguire il vostro cuore.

È la scelta più difficile eppure è la migliore.

Non fare come gli altri è difficile, certo, almeno all’inizio, ma poi scivola meglio, è indispensabile saper separare, distinguere, ragionare su tutto quello che succede e può succedere, vivendo insieme a tanta gente tutto è più complicato, ma ragionare col proprio cervello, agire secondo il nostro pensiero e dire cosa pensiamo veramente, per quanto apparentemente la strada più faticosa, è la meno stancante, perché andiamo dietro a noi stessi e non agli altri e non ci sentiamo stressati, perché facciamo, in fondo, quello che è naturale, anche se tutti intorno si sono dimenticati di come è, e in più, grazie a noi, tanti ritroveranno questo anello di congiunzione con se stessi.

È inutile parlare e dire cose importanti, se poi nella vita agiamo in maniera differente da quello che diciamo, quello che conta sono i fatti e la gente ci vede e confronta le nostre idee con quello che facciamo. Se facciamo come loro non gli pare strano, in fondo è ciò che vedono e sentono tutti i giorni, ma se invece la nostra armonia è maggiore, se siamo più compatti, vedono e sentono la differenza e inevitabilmente gli piace, ma questa non è la nostra unica prospettiva, quella di piacere agli altri, il nostro fine è piuttosto quello di stare bene, anche piacere agli altri è importante, certo, ma dobbiamo anche farci piacere gli altri e quello è più difficile, che è possibile, anche se sono diversi da noi.

Quello che è profondamente sbagliato, nella tendenza umana occidentale, è di voler parere tutti uguali, mentre dal dentro le persone vogliono affermare la loro individualità e non sanno come.

Questo provoca una grande frustrazione.

Hai visto gli adolescenti come vogliono vestirsi in maniera originale e invece seguono sempre e solo le mode?

Si stanno aprendo al mondo, cercano di affermarsi, di capire chi sono e di impressionare gli altri, poi finiscono per fare esattamente quello che tutti si aspettano, e se non lo facessero sarebbero guai. La gente ama l’originalità, ma solo dopo che si sia affermata, prima, invece, qualsiasi cosa è sbagliata, perché è nuova, non è conosciuta, perciò può essere solo un errore.

In seguito le loro ali - quelle dei giovani - verranno immobilizzate, fasciate da una realtà molto differente da quello che avevano immaginato e finiranno per vivere come formichine casa e lavoro e lavoro e casa, il mondo ha tarpato i loro sogni in pochi anni e li ha standardizzati.

Forse questo è necessario, forse sono solo fasi, caratteristiche delle varie età, ma quello che conta, poi è riuscire, presto o tardi, ad avere una meccanica di vita che funzioni e per funzionare deve dare all’individuo soddisfazione, prima di tutto dal punto di vista del divertimento, non c’è cosa peggiore della noia. O forse sì, peggio ancora di annoiarsi c’è il fingere di divertirsi, ma sono due cose che vanno bene insieme, le vediamo ogni giorno nella gente che ci circonda, in tutta questa indifferenza che c’è in giro.

Hanno perso l’anima? Dirai te. No, hanno scelto di farne senza, e come hanno fatto a scegliere? Non sono stati dei singoli ma è un movimento collettivo, in fondo l’anima è un’invenzione dei borghesi, ne avevano bisogno per affermarsi, perché stavano cominciando a esistere in un mondo in cui la classe media era una novità.

Il successo diverte, certo, affascina, ma spesso schiavizza, pochi hanno l’umiltà di scegliere e poi di realizzare sogni semplici eppure costruttivi, tante cose distraggono dal punto focale, dal baricentro del ragionamento necessario, gli esseri umani.

Uno di questi è il sesso, ma il denaro e il potere sono altri, sono collegati e intrecciati, ma il nostro riferimento deve sempre essere la natura, invece. Ed è esattamente il contrario di quello che sta succedendo…”

 

Per la visita seguente, già durante la ripida salita, mi ero preparato a mantenere IV sul punto, a non farlo fuggire e a farmi spiegare finalmente e definitivamente cosa significasse essere uno Scettico Tranquillo. Ero uscito presto, perché tutte le volte, quando lui sembrava al punto di rivelare la regola fondamentale, era tardi e non aveva più voglia di parlarmene o io me ne dovevo tornare a casa.

Lo trovai sdraiato sotto il sole, trascorremmo i nostri primi minuti insieme senza parlare.

Argo stava pascolando, appariva e scompariva, cercando odori, tracce e relativi animaletti di appartenenza, i quali non sempre ne erano divertiti e in alcuni disgraziati casi, venivano addirittura spiaccicati senza che lui ne avesse alcuna intenzione, magari per il bene della scienza canina, testandone - per esempio - la consistenza con le robuste zampe.

IV mi guardò per un po’ alla sua maniera. A volte mi pareva che fissasse lo sguardo su un oggetto o una persona, senza realmente vederla, ma andando oltre. Poi finalmente partì con quello che volevo e aspettavo da giorni:

“Ma te l’ho già detto varie volte cos’è uno Scettico Tranquillo, lo scettico tranquillo è uno come te, che non crede a tutto quello che gli dicono e non ha nessuna fede fissa, uno che non ha bisogno di piattaforme di regole fatte da altri, ma semplicemente vive in maniera empirica, provandosi tutti i giorni la propria capacità in modo pratico e cercando di imparare cose nuove.

È scettico perché non usa mai, senza filtrarlo, un consiglio dato da un altro, è tranquillo perché non ha bisogno di risposte immediate.”

In genere, nella mia vita, e in particolare in quel determinato momento, mi sentivo assai poco tranquillo, anzi, al contrario, piuttosto ansioso di risposte urgenti.

Ero scettico, sì, ma principalmente per quanto riguardava la mia capacità di usare il suo consiglio di portare pazienza.

“Io sono Scettico, con la S maiuscola, per determinare non uno stato momentaneo, ma, se possibile, quasi definitivo. Perché?

Ecco un esempio: in Brasile la filosofia e i filosofi sono scarsi, tutto è abbastanza materiale, per motivi storici e geografici che ora, per mancanza di tempo, magari lasciamo perdere.”

Visto che io non ribadivo, i motivi venivano per il momento lasciati di lato e IV continuava la sua arringa:

“Ma la filosofia s’insegna a scuola e all’università, una materia come un’altra, ci si confonde facilmente, tra gli stessi specialisti, tra l’essere professore di filosofia e l’essere filosofo, addirittura!! Che sono due persone che potrebbero anche coincidere in una, ma non lo sono quasi mai. Il professore pensa una cosa, ne dice un’altra e ne fa un’altra ancora. Il filosofo non può, lui, almeno lui, se mi permetti, deve pensare, dire e fare la stessa identica cosa, sennò perde la sua identità speciale, la sua credibilità eccetera.

Ora, come abbiamo detto la filosofia qua è insegnata male, da cattivi professori, come spesso in tutto il mondo moderno, professori che non sono filosofi e che contraddicono il loro pensiero con la loro azione.

Bada bene che la mia presunzione di essere un filosofo è basata solo sul fatto che penso, dico e faccio quasi la stessa serie di cose.

Ci riesco poco ma meglio di tanti altri e questo già non è facile, ma è importante, e bisogna rinunciare a tante cose, alle comodità per esempio, e ad altre che non sto qui a elencarti.

Sono Tranquillo, perché la mia filosofia mi permette di incastonare il tutto al suo dovuto posto, di capire come funziona il mondo e come ha funzionato fino a questo momento, certo, tutto abbastanza approssimativamente.

Ciò non significa che domani un gruppo di giovinastri non possa venire qui ad appiccarmi il fuoco e a tramutarmi in una torcia umana, solo per farsi quattro risate.

So che sono indifeso, ma ne ho coscienza e non sto a perdermi dietro polizze di assicurazione e a mettere denaro da parte per il futuro, perché, sebbene sia quello che tutti fanno, per me è pazzia pura.”

“Anche perché non hai un soldo.”

“Certo, ma anche quando ne avevo non mi sono mai perso dietro a queste cose, perché cercare di controllare il futuro partendo da ora, è solo una trovata di marketing, le assicurazioni sono nate per guadagnare soldi, non per proteggere le persone, loro cercano di non pagare i danni, e spesso ci riescono anche.

E poi il mondo è burlone e ti farà facilmente succedere una delle tante cose non previste dalla polizza, lo sai meglio di me.

Ma dicevo che sono Tranquillo perché, questa mancanza della totalità delle risposte, che tanto fa soffrire l’uomo, non significa per niente l’inutilità delle mie domande, io sono disposto a pazientare e anche a dibattere i temi polemici con chiunque, anche ad ammettere di aver torto, per me proprio questo è un punto di arrivo migliore che quello di aver ragione, perché ammettendo di aver torto io capisco qualcosa d’importante e questo può rivoluzionare la mia vita, avvicinarmi un po’ di più alla verità, insomma: che ben venga.

Ciò non significa che in una discussione io non faccia appello a tutte le mie forze dialettiche per difendere la mia tesi.”

Rimasi un po’ in silenzio a pensare, IV stava accarezzando Argo e il vento fischiava un’armonia sommessa, sul ronzio di insetti tra cui api sui fiori e pio-pio di uccelli sul pino solitario, lì vicino, a una ventina di metri, che ci faceva un’ombra enorme perché allungata dalla posizione del sole e dal pendio della collina.

Trovavo tutto giusto, quello che aveva detto e forse avevo anche capito, finalmente, cosa voleva dire con la definizione della sua filosofia. Però c’era qualcosa che non avevo capito bene, tra le sue ultime frasi e glielo chiesi:

“Aspetta un po’: hai forse rinunciato ad amare una donna, tra le rinunce che mi hai detto prima, per le quali riesci, o quasi, a pensare, dire e fare la stessa serie di cose?”

“No, non ho rinunciato ad amare una donna, in quella maniera fisica che tu probabilmente intendi, anche se non mi capita quasi mai di poterlo fare.”

“Sì, ma ieri hai detto che il sesso, come il potere e il denaro, è una distrazione…”

“Sì, non che lo sia in generale, ma lo diventa, perché viene strumentalizzato nella propaganda di articoli di consumo, forzato dalle mode del momento e dai mass-media, o addirittura ci si rinuncia, perché è rischioso, ma in ogni caso ci si pensa troppo… se fosse una cosa più naturale, come dovrebbe essere, sarebbe meglio, sarebbe più bello.”

 “Allora: vuoi per caso dire - con tutto questo - che tu hai rinunciato al sesso?”

Il suo sorriso se ne uscì fuori differente dal solito, mi parve profondo e triste.

“Questo è un punto dolente, non è che io abbia rinunciato al sesso perché non mi piaccia, anzi, cosa c’è di più bello che fare all’amore?”

“E allora come fai?”

“Mi astengo. Anche se per me la donna è meravigliosa, è la purezza della bellezza, hai visto che ho delle riviste pornografiche, che hanno per me due funzioni, come ho già detto, quella della ammirazione della bellezza pura…”

“E la seconda?”

Pausa imbarazzata.

“E anche quell’altra.”Rispose alla fine.

Mi venne da ridere a pensare a un filosofo qualsiasi che lavorava di mano dietro a un cespuglio, anche se quel filosofo lì, in quel determinato momento della sua vita, non aveva nessuna voglia di ridere, evitava addirittura di guardarmi in faccia.

Allora gli domandai ancora, incuriosito:

“Ma allora come fai: senza-senza?”

“Beh, non è proprio senza, sai… il mio sesso è autogeno, come ti stavo dicendo - e per favore non fare quella faccia – perché  semplicemente non trovo nessuna donna che mi piaccia che sia disposta a farlo con me.”

“Ah.”

Rimanemmo in pausa di nuovo, per pochi attimi in cui le nuvole coprirono il sole e di nuovo lo lasciarono uscire.

Dopo mi parlò di sesso e distrazione, di funzione distorta, di quanto avesse a che fare con denaro e potere, (almeno nel mondo moderno, e invece non avrebbe proprio niente da spartirci,) ma ero troppo distratto dalla sua precedente rivelazione, per fare attenzione alle sue parole.

Pensavo piuttosto che lui avesse rinunciato a tutte e tre le cose. Sesso, denaro e potere. E lui me lo confermò, come se avesse letto nel mio pensiero:

“Se per avere quel sesso che tanto mi piace, io devo rappresentare una porzione di successo nella società, se devo essere uguale agli altri o più uguale ancora, perciò migliore,  secondo il concetto di regole fatte dagli altri, e che io non accetto, che ti devo dire? Io ci rinuncio.”

Poi recitò come se fosse una cosa seria:

“Se è per denaro, non è amore, disse la prostituta.”

Ci ridemmo su. Poi gli domandai:

“Ma mi dici una cosa? Una curiosità: ma quanti anni hai?”

“Settantadue… pensavi di più o di meno?”

“Pensavo di meno. Sembri più giovane.”

“Negli ultimi anni sono stato bene, mi sono stressato poco o niente.”

“Ma da quanti anni ti sei ritirato a… diciamo così: vita privata?”

“Una ventina.”

“E quando l’hai fatto il sindacalista?”

“Subito prima, è stato il mio punto di scoppio, da lì è cominciato il cambiamento.”

“Ah. E il coso laggiù in basso ti funziona ancora?”

“Certo, il coso funziona ancora bene e senza additivi moderni, poi il desiderio quello non passa mai, anche per chi non riesce più a farlo alzare…”

Sorrisi e ci fermammo di nuovo a guardare le nuvolette.

Il mio silenzio lo incoraggiava a parlare ancora, a rivelarmi a pieno quella sua parte nascosta:

“Non è che negli ultimi anni io non avessi mai fatto sesso, qualche volta mi era capitato, ma l’amore non c’era, sono esperienze che svuotano gli organi e stappano le orecchie, tirano le ragnatele, ma sono un po’ vuote, se non c’è niente che le accompagna; e poi vivendo quassù, non frequentando né la bassa, né l’alta società… lo sai da te, le occasioni non sono molte e allora l’attività manuale offre due vantaggi in uno.”

Lo guardai in maniera interrogativa, lui mi riguardò in maniera a suo modo significativa e disse:

“La prima funzione è quella puramente sostitutiva, l’altra è per la buona manutenzione della prostata.”

 

Un mio amico medico poi mi confermò che il mancato uso dello sperma fa peggiorare negli adulti lo stato della prostata, pare che la manutenzione dell’organo riproduttivo funzionasse coi due tipi più comuni di sesso: autogeno e/o in collaborativa compagnia.

 

Intanto io cominciai a preoccuparmi per la sua salute, avevo un gran bisogno di avere qualcuno con cui conversare, come facevo con IV, mi ero assai affezionato a lui. Allora, visto che lui a valle non scendeva per principio, gli portai su un tipico Valligiano, Mariano Ruiz, il mio amico medico, e lo feci visitare.

Mariano disse che era in perfetta salute, aggiunse però che una prosperosa professionista a buon mercato, ogni tanto, sarebbe stata una piacevole diversione, non solo per la sua prostata.

Finita la nostra risata, IV partì con una acuminata serie di teorie concatenate, che Mariano, che se ne stava andando, si sedette e si mise ad ascoltare.

Il mio amico medico, per quanto assai intelligente e sensibile, era proprio uno di quelli che nella vita aveva scelto poco, era partito che si trovava già dentro al tunnel, per lui denaro, potere e sesso erano essenziali, era un formidabile e fottuto materialista.

Proprio ultimamente, però, aveva ammesso che la competitività del mondo occidentale era un rincorrersi la coda senza senso, poi uno si rendeva conto, alle soglie della vecchiaia, che aveva girato e rigirato, ma solo su se stesso: non si era mai mosso dal posto.

 

IV diventò suo paziente e Mario accettò di essere suo discepolo, in cambio un po’ di spiritualità lo aiutava a proteggere materialmente il suo vecchio corpo. Anche se, per questo vecchio, piccolo e grande filosofo contemporaneo, il problema del sesso rimaneva ancora irrisolto.

Non c'è virtù così grande che possa essere al sicuro dalla tentazione.

(Immanuel Kant) 

 

Ada 3

 

 

Dopo tre mesi e venti giorni di tirocinio Oda lo mise alla prova: una prima seduta con un cliente nuovo, un commerciante di Barra da Tijuca al quale Oda era stato raccomandato da un amico che era un cliente o paziente abituale da più di un anno.

L’uomo era grasso e nervoso, accendeva una sigaretta dopo l’altra, la nuova a quella che stava terminando, si guardava intorno diffidente, con la fronte corrugata, gli occhietti maialeschi cercando il pericolo negli angoli della stamberga di Oda.

“Si sieda, accetta un tè, o meglio una cachaça? Va bene. Torno subito.”

Ada si sentiva agitato ma stranamente anche abbastanza preparato, si bevve anche lui una cachaça, ma in cucina, non davanti al cliente. Cercò di muoversi armoniosamente, Oda gli aveva insegnato che l’intenzione si esprimeva con i gesti, anche nel camminare, nel porgere gli oggetti, soprattutto nella maniera di guardare. Meglio non guardare troppo un cliente nervoso alla prima seduta, prima si doveva stabilire un contatto rassicurante, guadagnare la sua fiducia, se si sentiva troppo osservato lui si sarebbe sentito studiato, in un certo senso ancora braccato dal mondo attorno di cui aveva perso il controllo. No, no, bisognava prima di tutto farlo sentire a suo agio.

Ada pensò che fargli fare la respirazione corretta, in quel momento era sbagliato, anzi tirò fuori anche lui una sigaretta e si mise a fumare. Da fuori dalla finestra aperta, alle spalle dell’uomo grasso, Oda confermava con bandierina verde quando le cose andavano bene, rossa quando doveva fare particolare attenzione, gialla quando c’era bisogno di più energia e convinzione. Dopo qualche tirata, iniziò a bere cachaça con quell’uomo che gli sembrava già meno stressato, cominciarono a parlare del più o del meno, l’argomento del calcio funzionava sempre. Si chiamava Pedrinho ed era tifoso del Flamengo, Ada invece era del Vasco Da Gama ma naturalmente finse di essere anche lui Flamenghista. Dopo pochi minuti, Ada sentì che la fase di rottura del ghiaccio si era conclusa e bene, accese allora il registratore, che era il suo segnale convenzionale d’inizio della vera e propria seduta, la musica che aveva scelto era brasiliana, strumentale e calma, uno chorinho. Là fuori Oda sbandierava e approvava vorticosamente. Ada sorrise sollevato e disse, stavolta guardando negli occhi Seu Pedrinho:

“Spegniamo le sigarette, ora. Segua questa musica, per favore, respiriamo insieme lentamente e mi dica, con tutta la calma necessaria, cosa c’è di positivo in quello che sta vivendo...”

“Niente, niente di positivo tutto sbagliato... è solo stress, la mia vita è una confusione... sarà difficile rimetterla in sesto! Glielo dico subito.”

“Non ci credo, qualcosa di positivo ci deve essere, mi dica una cosa che le piace, una cosa sola...”

L’emozione forte era svanita quando aveva visto che il cliente era più nervoso di lui, dopo un poco si accorse di averlo messo a suo agio, che conversava tranquillamente con lui. Il copione di una seduta era più o meno sempre lo stesso, il cliente poteva cambiarlo con le sue domande, che Ada era stato allenato a rispondere con semplicità e profondità, i problemi delle persone erano quasi sempre gli stessi, anche se mischiati, camuffati. Il brasiliano simulava e dissimulava molto bene, faceva parte della sua storia, del suo DNA. L’importante era capire di che tipo di persona si trattava, per dargli il modello di attenzione che più si adattava al suo carattere. L’attenzione era essenziale e poi si doveva cominciare molto lentamente a insegnargli ad avere un dialogo interno, un piccolo passo alla volta, non era facile ma fondamentale.

Dopo le cose positive, quelle negative, dopo l’ordine e i commenti, i consigli nel finale, le lezioni pratiche di Oda non fallivano, perché Oda non lasciava più niente al caso, sapeva che avrebbe potuto essere molto dannoso alla persona con la quale stavano cercando di stabilire una collaborazione, per poter scoprire e combattere i suoi difetti di forma e contenuto, per costruire insieme una linea di azione pratica ed efficace.

Il commerciante uscì tranquillizzato, avevano già fissato il prossimo appuntamento a casa di Pedrinho, durante il pomeriggio, Ada sarebbe andato a vedere personalmente cosa andava bene e cosa era sbagliato, anche nel suo negozio di ferramenta, cosa doveva essere incoraggiato ed eventualmente ampliato e cosa invece andava modificato o tagliato fuori.

 

Ada si preparò puntigliosamente, voleva che la sua vita cambiasse e per farlo doveva cambiare prima quella degli altri, per riuscirci doveva fingere prima di essere competente in materia, poi diventarlo veramente. In realtà ci volle un periodo interminabile in cui Ada si dette da fare instancabilmente, ma ancora difettava su un argomento in particolare, la cultura generale. Stava lavorando anche su quella, naturalmente, leggeva e vedeva tanta roba impegnata: film, documentari eccetera, ma non si poteva colmare tanto vuoto in poco tempo già anche troppo pieno.

 

 

"Ecco un consiglio che una volta sentii dare a un giovane: fai sempre quello che hai paura di fare" 

(Ralph Waldo Emerson)

 

Ada 4

 

 

 “Non so se io sapevo dialogare con me stesso, probabilmente no, penso che me lo abbia insegnato mio cugino Odair. Forse lui è stato avvantaggiato dal fatto di non essere esattamente un poveraccio come me, di famiglia sarebbe stato un borghese, eppure a un certo punto delle sua vita si è ribellato ai suoi genitori e ha mandato tutti e tutto affanculo: se ne è tornato a vivere in una favela, per scelta sua.

La sua storia è un po’ più complicata, diciamo che quando se ne è andato via da Leblon, con quella francese che a me sembrava proprio una pazza, ci sono voluti altri cinque anni per essere lasciato da lei. Dopo aver vissuto in varie città europee, (in Francia, Belgio, Olanda e Danimarca,) aveva capito un po’ meglio come funziona il mondo, il cervello della gente, la sua esperienza  era un po’ vaga, ma forse era predisposto, prima di tutto dalla sua curiosità antropologica, per questo era pronto per trasformarsi in quello che è ora.

Non posso dire di averlo conosciuto, prima, da bambini c’eravamo frequentati di più, poi i suoi avevano fatto il salto di qualità, dopo l’avevo incontrato quattro o cinque volte, ci avevo appena parlato, vivevamo in ambienti troppo diversi, anche se entrambi abitavamo nelle favelas.”

 

Qualche anno dopo Ada e Oda erano quasi irriconoscibili, se prima ognuno aveva i suoi, ora cominciavano a scambiarsi i pazienti.

Adailton era entusiasta, ora aveva anche una fidanzata, una ex fornitrice all’ingrosso della bancarella di oggetti del Paraguay di un suo collega. La percentuale di guadagno di Ada per il primo anno era il cinquanta per cento delle sue sedute, a Oda invece il restante cinquanta, più l’intero lucro delle sue. Nel secondo anno Ada è passato al 75% e la percentuale è rimasta quella, secondo gli accordi. Solo che Oda investiva subito tutto nell’impresa. Dopo due anni Ada ha lasciato la favela Rocinha, è andato ad abitare nel quartiere Leblon, ha comprato un piano intero del palazzo, dove viveva e ci ha aperto il suo ambulatorio. A questo punto, anche se la Scuola del Dialogo Interno era sempre la stessa, Ada ha cominciato a essere proprietario del cento per cento delle sue entrate. Quando l’ambulatorio è stato aperto, c’è anche una guardia, um segurança. Oda ha lasciato la sua baracca e ha costruito una casa di muratura sulla strada principale, ci viveva e ci lavorava, per rendere più facili le visite di persone esterne alla favela, ma senza lasciarla come il cugino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Normalità altro non è che la media d'infinite anormalità.

(Tito Baldan)

 

Ada e Iraq

 

 

Quando incontrai mio cugino Odair per la prima volta dopo il suo matrimonio, non avrei mai creduto possibile che un giorno io avrei potuto scrivere un libro, anche perché fino a quel momento non ne avevo ancora letto nessuno.

E invece sì, neanche troppi anni dopo, fu pubblicato a mie spese e ci dovevano essere cinque racconti, didattici esempi di dialoghi con noi stessi, base della nostra problematica ma necessaria filosofia di vita. Poi diventarono tre, più che altro perché io credevo che le mie pagine fossero molto più piccole di quello che effettivamente erano, ma anche per altri motivi, uno dei quali è il fondamento di questo racconto.

Avendo saltato ogni pur ipotetico editore, sia per risparmiare i soldoni che loro pretendevano, che per essere indipendente e non dover dar soddisfazione a nessuno, dovetti, in compenso, incaricarmi personalmente di condurre questo passaggio dal sistema di scrittura Word al Page-Maker.

La tipografia Saudades, che mi aveva dato il preventivo più economico, mandava a fare questo tipo di trasferimento informatico da un certo signor Iraq, (che per via della pronuncia diventava una specie di Iracchi) il quale viveva e aveva il suo piccolo laboratorio, non molto lontano dalla loro sede, appena fuori dalla favela Pedra Quadrada, in Rua Felizardo Furtado 402, cioè Felice Derubato. Mi parve di cattivo auspicio, ma era un autentico nome di persona, mi avevano spiegato, con il suo conseguente riferimento storico, del quale, però, nessuno sapeva niente, nemmeno l’internet che di solito risolve ogni quesito. Era l’epoca dell’attentato alle due Torri Gemelle a New York, ogni nome arabo era guardato con sospetto, anche qui in Brasile. Al nostro secondo incontro, il primo da soli, chiesi a Iraq se era di origine musulmana e lui si affrettò a dire di no, a raccontarmi la storia della sua famiglia, gli dissi che stavo scherzando, che non c’era bisogno che mi spiegasse niente, ma notai che per lui quella non era affatto una cosa comica. La mia era stata una domanda fuori luogo e si poteva anche constatare dal fatto che Iraq ostentava cristianità in ogni sua frase iniziando ogni sua frase con grazie a Dio, se Dio vuole, o, qualche volta, meno spesso, con l’aiuto di Dio.

Il nostro lavoro era a botta e risposta, cioè lui faceva il passaggio da un sistema all’altro e io andavo, praticamente tutti i giorni, a correggere eventuali errori e a vedere, successivamente, se erano stati veramente tolti, il che purtroppo accadeva e anche spesso, senza sabati e domeniche che potessero infilarsi in mezzo, più o meno indesideratamente, approfittando della nostra momentanea stanchezza e conseguente distrazione.

Mi sembrò subito evidente che Iraq fosse un affabile ragazzone di cinquant’anni, che viveva ancora con la mamma, la quale ci accompagnava spesso con il suo sguardo protettore, nel dirci qualche parola d’incoraggiamento, insomma, ci dava il suo apporto morale. Sostava in silenzio, insieme a noi in quella stanza per ore, a sbucciare e a tagliare frutta e verdura, effettuando tutte le opere culinarie e di cura della casa, che non avessero bisogno di fornelli o altri aggeggi pesanti o ingombranti che aveva in cucina o altrove nell’abitazione, che naturalmente era separata dalla zona lavoro.

Notai ben presto che Iraq era un irriducibile testardo, come me. Mi rimase subito simpatico. Purtroppo dal punto di vista della sua efficacia, mi resi conto che le cose andavano avanti tanto lentamente che pareva che tornassero indietro. Il lavoro di Iraq non era semplice, né poteva essere rapido, come avevo pensato prima, sennò lo avrebbero fatto nella tipografia stessa, ma aldilà delle difficoltà oggettive, mi pareva che lui non avesse affatto le condizioni minime e fondamentali per poter lavorare in quell’ambito, che per me erano, prima di tutto, un’attrezzatura valida. Fin dal primo giorno mi abituai a dover correggere e ricorreggere le stesse cose già passate al vaglio e corrette già prima più volte. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a considerare naturale e fisiologico che si dovessero fare e rifare le medesime correzioni per poi rivedere apparire di nuovo sul testo le parole sbagliate esattamente come prima.

Ci avvicinavamo alla Festa del Libro della Lapa, quartiere malfamato del centro di Rio de Janeiro ma anche contenente una larga piazza incorniciata da un acquedotto relativamente antico dalle grandi arcate. Temevo, sempre di più, che sarei rimasto senza il mio agognato primo volumetto, da lanciare alla fine di ottobre, o agli inizi di novembre del 2001, per approfittare in pieno di quelle due settimane più propizie, durante le quali si comprano più avidamente che mai, ai prezzi migliori, prodotti cartacei rilegati e, a volte, perfino letterari.

In gran parte dei casi, non sarebbero mai stati letti, ma avrebbero fatto bella figura negli scaffali delle case della gente più intelligente, quella che almeno capiva di dover dare un’impressione migliore di se stessa. Per tutto questo, si precipitavano a frotte alla fiera del libro, seguendo gli sconti e la moda del momento. Il consumista non compra perché ha bisogno di una cosa, ma compra per comprare e, per quanto sia difficile credergli,  per risparmiare.

Ubara Sepulveda, amico del mio amico Carlos Brogi Diaz, che aveva già pubblicato varie opere non sue, suggeriva come tattica opportuna e addirittura fondamentale, per vendere subito un buon numero di copie e coprirmi le spese, di partecipare alla Fiera del Libro, firmare autografi e fare la faccia intelligente dell’autore seduto a una delle scrivanie in fila, sistemate sulla piazza.

A quei tempi un manoscritto doveva essere passato attraverso un programma di computer chiamato Page-Maker, per farne poi pellicole trasparenti che servivano in seguito per stampare dei foglioni con decine di pagine, successivamente tagliate a coppie, che poi erano cucite e incollate. Si faceva la copertina, che richiedeva un lavoro abbastanza simile ma separato, e poi tutto questo, messo finalmente insieme, si chiamava libro.

Le pagine erano sempre a coppie, perché la dimensione dei fogli, normalmente usati dalle tipografie, era del doppio di una pagina.

Quindi il lavoro di Iraq era anche accoppiare le pagine, in modo che la prima fosse a lato dell’ultima, la seconda con la penultima e così via, per poterle cucire poi una sopra l’altra, come si usava fare in questi casi e per arrivare poi alla coppia centrale, nel centro del libro, che finalmente era composta di due pagine che risultavano numericamente consecutive.

Iraq era un uomo simpatico e ottimista fino al limite dell’incredibile, cosa che qua in Brasile ho riscontrato spesso, a vari fenomenali livelli, ma sempre e comunque in contrapposizione con la cultura europea, per quello che mi ha detto Oda, poi letto e visto nei film e documentari, fatta di pessimismo come regola di vita, inframezzato dallo stagnante immobilismo, spesso alternato a depressioni profonde.

Iraq era una persona che credeva fermamente in Dio, per me era un esempio di stile e anche di contenuto, crederci sarebbe piaciuto anche a me, è una cosa piuttosto confortante, ma purtroppo non si può barare.

Per quanto riguarda quello stesso contenuto, però, per quel che ne capivo io, almeno nella stesura della impaginazione, Dio non lo aiutava con piacere, anzi, si burlava di lui. Qui devo riconoscere che non sapevo cosa sarebbe successo senza l’aiuto misericordioso del Signore, magari stava già facendo miracoli e io non me ne rendevo conto.

Fatto sta che mi pareva di tornare a rifare tutto ogni giorno, mi sembrava che, per quanti sforzi facessimo, non riuscissimo a tirarci fuori dalle sabbie mobili di lettere, frasi, spazi e inizi di pagina ribelli che ci avevano imprigionato e c’inghiottivano inesorabilmente sempre di più.

Il computer di Iraq era vecchio e ingiallito, era una evidente verità anche per me, che non m’intendevo per niente d’informatica, che il suo principale attrezzo di lavoro fosse antiquato e perciò obsoleto, ma oltre a questo era chiara evidenza che i suoi programmi erano copiati e perciò difettosi. Qui è bene chiarire che al mondo una percentuale enorme di programmi, se non la stragrande maggioranza, sono copiati, chi ce lo farebbe fare di comprarli quando sono a disposizione gratis? Però credo che questi programmi mai si ribellino ai loro abusivi proprietari in una maniera tanto agguerrita, convinta e ripetuta, come nel computer di Iraq.

Insomma la nostra era da considerarsi un’impresa disperata, visto che quella di Iraq pareva una guerra con il computer, che abbastanza spesso o quasi sempre veniva persa e senza condizioni né prigionieri.

Per esempio, all’inizio di una pagina si profilava spesso il finale di un periodo, due o tre parole e poi il punto, che non stavano bene come prima riga, non erano, formalmente, una bellezza. Facendo complicati giochi di prestigio con le parole e cambiando a volte il significato stesso del testo, aggiustavamo da una parte, mentre si guastava dall’altra. Mi pareva impossibile che il programma non avesse un automatismo in questi casi, ma Iraq assicurava che non era previsto un caso del genere e io lo guardavo cercando di dissimulare il fumo che mi usciva dalle narici.

Di positivo c’era che a ogni seduta mi dava utilissime lezioni d’ottimismo incrollabile, pur se, ogni volta, lasciandoci e dandoci appuntamento al giorno seguente o a due giorni dopo, la sua immancabile frase, che diceva che grazie a Dio noi ce l’avremmo fatta, mi pareva di un’ironia esagerata e, in quei momenti, perfino piuttosto crudele.

Un altro fatto nuovo e spiacevole venne fuori in seguito, attraverso una delle sue alchimie computeristiche, causate dall’inefficienza della sua attrezzatura hardware e software, il cui meccanismo cercò varie volte, invano, di spiegarmi. Qui constatai anche e purtroppo che i limiti della sua dialettica si scontravano a ogni occasione con il mio portoghese scritto, frettolosamente imparato e piuttosto assai maccheronico, che era così diverso e lontano dal suo, similmente pessimo ma in una maniera diversa, che non trovavano punti in comune.

Attraverso uno dei suoi passaggi, per me sempre più incomprensibili e misteriosi, una parte di testo era stata perduta totalmente, non erano più di due pagine e me ne ero accorto dalle decine di errori che erano comparsi d’incanto, in quel tratto di prosa, più volte passato a correzione.

Lui confessò, quasi piangendo che, dopo averlo perso, aveva cercato di ricopiarlo dalle prove già stampate in precedenza, ma ci aveva aggiunto del suo, cioè una nuova e indipendente caterva di sbagli.

Iraq ammise anche, magari con l’intento di farmi arrabbiare violentemente, che l’atto del ricopiare era stato effettuato alle due di notte e che i suoi occhi forse, a quell’ora, non ci vedevano più bene.

Dopo aver lavorato tutto il giorno al computer, gli si verificava un interessante fenomeno di sdoppiamento dell’immagine, che, messo insieme alla sua complementare ignoranza della lingua, dava, come logico esito, quel massacro.

I segreti tentativi di scrivere a mano di Iraq erano ripetuti e penosi nei risultati, ogni volta cercava di non dirmelo, ma il testo, nell’arco di poche pagine, diventava improvvisamente così pieno di errori che non potevano non saltarmi subito all’occhio.

Una volta scoperto il misfatto, lui riscriveva il tutto su mia dettatura, a testa bassa, lettera per lettera, poi ricorreggevamo il testo intero.

Ci mettevamo delle ore, ma alla fine eravamo soddisfatti e più volte, quando stavo per andarmene, stanco, ma quasi felice, perché forse finalmente potevamo dare l’inizio al procedimento di tipografia vero e proprio... ecco che mancava la luce.

La luce in Brasile salta spesso, non c’è bisogno né di temporali, né di catastrofi naturali, è solo per rendere le cose più imprevedibili e interessanti. Contemporaneamente, infatti, nella vecchia Europa non succede mai niente, mi dicono, i giorni passano seguendo la logica già pronta di copioni scritti nei cervelli della gente. Non è solo il fatto che non manca più la luce, ma anche altre cose impreviste non accadono più e la vita è un arido video-game, razionale e solitario, in cui lo sviluppo della giornata sembra uno stanco manovrare i tasti in qualche maniera, i risultati, quelli veri, non cambieranno. Niente a che fare con le emozioni, le persone non rischiano più, vivono vite virtuali. Un’equazione i cui termini e il cui ordine si presentano sempre uguali e gli effetti sempre i medesimi, dove la più vibrante Teoria del Caos è immeritatamente e inspiegabilmente accantonata. In Brasile no, è tutto più emozionante, nel bene e nel male.

Comunque sia, ogni computer che si rispetti salva automaticamente le cose mentre si fanno, in intervalli che l’operatore può programmare, che possono essere anche brevi come un minuto o due. Credo che Iraq si vergognasse a dirmelo e passò un po’ di tempo, ma un giorno confessò che, per un difetto del programma, il suo non lo faceva più. Con lui non protestavo perché pensavo che fosse inutile, vedevo che si sforzava al massimo, anche se la sua mancanza di attrezzatura era parte integrante della sua incompetenza, pensavo anche che i miei sguardi irosi o rassegnati, a seconda dell’occasione, erano eloquenti e migliori di parole pesanti e conseguenti sensi di colpa.

Quella faccenda era già abbastanza complicata ed era troppo tardi per tornare indietro. Quello non era un computer meritevole di considerazione e rispetto, forse nemmeno Iraq lo era, dal punto di vista professionale, ma che cosa avrei potuto fare, per togliermi da quella situazione?

Lo zenit della disperazione lo raggiungemmo in un pomeriggio afoso di venerdì, quando arrivai là esausto dopo il lavoro e lo vidi subito dai suoi occhi, mentre mi apriva il cancello che la situazione si era ulteriormente deteriorata. Trovai Iraq meno ottimista e più stanco, si vedeva che aveva dormito male, la sua fede era stata gravemente incrinata e mi spiegò subito perché. Il problema era che, a partire dal capitolo intitolato Don Gaspare, il programma si rifiutava di collaborare, forse per una mancanza di coesione con quella specifica parte del testo, magari considerata antipatica dal suo programma Page-Maker, che pareva avere una volontà propria, più forte e persistente delle nostre due messe insieme. Iraq mi raccontò, in seguito, che Don Gaspare, il personaggio del libro, gli era apparso in sogno, ma non era stato proprio un sogno, più che altro un incubo.

“Il capitolo intero di Don Gaspare non entra, non ci sono santi, ho provato in tutte le maniere...”

“Come non entra? Non è un capitolo come tutti gli altri? Perché non ci dovrebbe entrare?”

“Non lo so, se lo sapessi potrei fare qualcosa, semplicemente il programma lo rifiuta, io ce lo metto e dopo sparisce, nel senso che non so nemmeno dove vada a finire, dopo bisogna fare tutto di nuovo e il risultato è sempre lo stesso. Giuro che non l’aveva mai fatto, ma ieri ho tentato per ore e sono riuscito solo a ossessionarmi e stanotte ho avuto anche un incubo con Don Gaspare che mi inseguiva con una spada enorme, vestito rinascimentale e con l’elmo col pennacchio, ma i ricami della sua camicia bianca erano tutte lettere dell’alfabeto, parole e frasi che si incrociavano e.... pareva che fossero tutte fuori posto.”

“E perché erano fuori posto?”

“Perché non ci capivo niente!”

“Forse perché lei non conosce la grammatica e sintassi della lingua portoghese, io stesso non sono un asso ma per il suo lavoro...”

“No, ma non era solo questo, il fatto è che erano anche storte, le lettere, non erano in riga, alcune erano in altre lingue, o con maiuscole troppo grandi, non proporzionate, insomma... i caratteri differenti da quelli del mio programma, poi si muovevano, non volevano stare fermi...”

“Ma come faceva lei a vedere che le lettere non andavano bene, che c’erano degli errori... come faceva ad avere il tempo di leggere con Don Gaspare che la inseguiva con lo spadone sguainato?”

“Non lo so, è strano, quelle cose che funzionano così solo nei sogni, ma mi facevano più paura le frasi incrociate e sbagliate dello spadone di Don Gaspare, era un incubo e quelli sono sempre simbolici, no?”

Iraq aveva ragione, in un certo senso, all’interno del suo tipo di logica, almeno in quella determinata situazione onirica. Però l’ossessione di quelle pagine che non riusciva a far rimanere nel luogo dove dovevano stare, comunque, era una cosa assurda, e, per quanto possa parere comica ora, in quel momento nessuno di noi due la considerò neanche un po’ divertente.

Ci guardammo in faccia per qualche minuto, senza parlare, quella situazione cominciava a stressarci più del dovuto. Che magari fosse un dovuto differente, che ognuno avesse la sua misura, quello era già un altro discorso separato e distante.

Forse sarebbe servito semplicemente spiegargli che Don Gaspare, il personaggio del libro non era un pazzo furioso e rinascimentale, ma un personaggio a noi contemporaneo e di animo bonaccione, ma questo accorgimento allora non mi venne in mente, e anche così avrebbe poi migliorato la situazione?

Ci rimettemmo al lavoro, il caldo e il malumore ci avevano contagiato, riuscimmo comunque a correggere tutto di nuovo e, dopo un martellante stillicidio di quasi tre ore, mancò di nuovo la luce.

Gli chiesi se aveva salvato le modifiche e lui rispose che era inutile, il programma era difettoso e un blackout faceva perdere tutto quello che si era scritto dall’ultima volta che si era acceso il computer... il suo sguardo esausto e rassegnato m’impedì qualsiasi reazione, me ne andai sentendomi un completo idiota a essermi fidato di Iraq e della tipografia Saudades.

I giorni passavano e Don Gaspare faceva ammattire Iraq, il quale, di conseguenza, mandava fuori di testa me, solo che io ero un terapeuta e non potevo permettermelo. Bisogna dire che la volontà incrollabile di quell’uomo, molto religioso, era già stata assai provata, per quanto fiducioso nel bene, sembrava evidente che il male, ora attraverso questo Don Gaspare, lo stesse esasperando.

In un secondo incubo, il Don gli aveva detto puntandogli un lungo e grosso dito contro, che si opponeva alla pubblicazione del libro perché rivelava particolari pericolosi, per lui che era un capo mafioso. Gli spiegai allora che il personaggio del libro non era mafioso per niente e che nel suo incubo ci doveva essere un errore. Ma Iraq non sorrise, né mi parve meno preoccupato. Poi gli chiesi come era vestito e lui disse che quello si era presentato esattamente come la volta precedente. Con la massima e puntigliosa calma che m’imponevo come un mantra gli dissi scandendo bene ogni parola che un mafioso non poteva avere un vestito rinascimentale, con elmo e pennacchio, la mafia era nata dopo, poi, per motivi pratici, magari per non essere riconosciuti, la loro divisa era perlopiù senza lettere dell’alfabeto sulla camicia. Gli parlai anche del personaggio del quinto racconto, Don Gaspare, un signore di mezza età, che abitava a Berlino e al quale piaceva raccontare storie metaforiche agli amici emigranti riuniti. Iraq, però, anche dopo le mie parole, che avevo sperato fossero state chiarificatrici, non mi parve per niente tranquillizzato.

Nel frattempo era sorto un altro problema, come avevo accennato all’inizio del racconto, le pagine erano molte di più di quelle che avevo stabilito con il responsabile della tipografia. Insieme ad altre caratteristiche, come tipo di carta e di copertina, questo numero aveva determinato il prezzo, che, per quanto basso, era già più di quello che potevo spendere. Ne parlai con Iraq, appena mi resi conto che, per una fortuna insperata, un problema risolveva l’altro.

“...ho fatto il conto delle pagine, sono troppe, il libro mi viene a costare molto di più del preventivato, allora tiriamo via la storia della Commedia, sì, quella di Don Gaspare, va bene?”

Iraq ovviamente non credeva alle sue orecchie e mi chiese se veramente si doveva fare così o era solo perché lui, anche se solo provvisoriamente, non era riuscito a mettere Don Gaspare nella sua impaginazione. Si sentiva colpevole, sospettava che quella fosse una mia mossa per risolvere i suoi problemi tecnologici e tecnici, anche se forse in quei giorni erano anche diventati abbastanza semantici e psicologici. Lo convinsi a stento che era una cosa necessaria e indolore, anzitutto voluta da Dio in prima persona. I racconti erano cinque, ma purtroppo o per fortuna ne dovevamo scartare due corti o uno grande. Allora, visto che in totale erano tre corti e due lunghi, che la Commedia di Don Gaspare e Il Punto di vista di un pastore tedesco non solo erano corti, ma erano anche gli ultimi due scritti, mi pareva logico di doverli togliere e magari, chi lo sapeva, metterli nel prossimo libro.

Mancavano meno di venti giorni alla Fiera del Libro della Lapa. Tutte le altre fasi: pellicole, stampa e rilegatura, solo per essere cominciate, aspettavano la fine di questa nostra prima e sofferta introduzione. Senza contare che dovevo organizzare un cocktail e mandare inviti ad almeno quattrocento persone, per riceverne, diceva Ubara, forse meno della metà. Per non dire che stavo lavorando come terapeuta tutti i giorni come una trottola impazzita, ma esternamente calma e ben ponderata.

Dovevo fare questo passo decisivo, anche se Iraq insisteva che sarebbe riuscito a farcelo entrare, quel diavolo di un capitolo e non c’era bisogno di accantonare la storia intera, anche se non sapeva ancora come.

Non ho ancora capito perché la gente non crede mai a quello che gli si dice, forse sarà per colpa della loro storia corta ma densa d’intrighi, della sfacciata politica del mondo globalizzato. Fatto sta che quando qualcuno dichiara una cosa, quella sarà l’unica versione automaticamente scartata dalle loro menti abituate alla bugia, incapaci di credere che le cose stiano veramente così come gli abbiamo ripetutamente detto, giurato, spergiurato e riconfermato. La vita li ha abituati all’inevitabile bugia o a serie di bugie concatenate, dette per mascherare i fatti, e a diffidare sistematicamente delle verità qualsiasi esse siano. Anche e soprattutto quando sono finalmente verità piacevoli.

Riuscimmo a mettere comunque da parte i due racconti in questione e i problemi con Don Gaspare, ripassammo le correzioni, dimenticando per il momento la stanchezza e il resto del mondo in agitazione attorno a noi.

Pareva che finalmente tutto stesse marciando meglio, dopo venti giorni di sforzi sovrumani e a un certo punto dissi a Iraq che andava bene così, si stampava e basta. Naturalmente alcune cose non ci pensavo nemmeno più a correggerle, come i maledetti inizi di pagina con una frase che terminava a metà riga con un punto. Dichiarai con la mano sudata sul cuore, di fronte a Iraq e a sua madre come testimoni, che non me ne fregava più niente, i lettori si sarebbero dovuti adattare a questa mancanza di forma, alla bisogna mi sarei scusato personalmente con loro. Sia lui che sua madre non erano d’accordo con me, dicevano che bastava solo un poco di pazienza in più e tutto sarebbe stato risultato perfettamente a posto. Qualche volta la loro fede cieca era fonte di imprecazioni dentro di me, ma forse avevano ragione loro, oppure ormai non capivo più chi ce l’avesse. Avrei dovuto essere io a insistere per correggere tutto per bene, invece era lui, anche se il suo guadagno era lo stesso, fosse con due settimane di lavoro invece di una. Iraq si preoccupava, assai più di me, che tutto fosse ottimizzato, prima di stampare.

L’arte della diplomazia era quello che stavo imparando direttamente da Odair e indirettamente dalla vita ed era veramente una scuola efficace perché, ora che ci riuscivo meglio, vedevo che era più pratico che perdere la calma e dire tutto quello che mi passava per la testa al momento, offendendo i miei eventuali pazienti, amici e collaboratori, inevitabilmente peggiorando il mio rapporto con loro.

Ci lasciammo e salutai prima sua madre, che sembrava fosse stata impegnata per ore a scegliere i fagioli sul tavolino delle riunioni, alzò la testa e mi guardò caritatevole per augurarmi buona fortuna, che ne avrei avuto bisogno, ma anche e soprattutto dell’aiuto di Dio. Al cancello strinsi la mano a Iraq mentre concludeva sorridendo che se Dio avesse voluto ci saremmo riusciti, a pubblicare quel libretto indiavolato. Gli promisi che un giorno sarei passato di lì per bere quella birretta, della quale avevano parlato qualche volta, ma che non avevamo ancora potuto scolarci insieme. Se Dio vuole, disse lui.

Dentro di me pensai se era stata una maniera che il Dio di Iraq e di sua madre, che forse era il mio stesso, aveva inventato per testare i miei nervi, la mia determinazione, per vedere se veramente meritavo qualche tipo di successo in quella direzione, ma non sapevo ancora se avevo superato la prova.

La birretta con Iraq non l’ho mai bevuta, la sfida, qua sulla terra credo che sia giornaliera. Dobbiamo sempre provare, a noi stessi e poi agli altri, che siamo disposti ad affrontare la bufera e la bonaccia, l’ironia pungente e a volte anche violenta della vita.

Non so se sarò creduto, ma lo dico lo stesso: anche in questi giorni, nei quali sto scrivendo questo racconto didattico, forse non per caso, sono stato vittima della maledizione di Don Gaspare. Per due volte, una ieri e una oggi, ho toccato qualche bottone sbagliato della mia tastiera e ho perso ore di lavoro, tutto quello che avevo scritto. Ho dovuto fare tutto di nuovo.

Iraq Falabela è diventato mio cliente, non molto tempo dopo, gli ho fatto il pacco di un mese gratis e pagamento retroattivo solo dopo aver constatato e apprezzato i risultati. Ora ha la sua ditta di grafica e tipografia, dieci persone che lavorano per lui, a Natale mi manda sempre un ricchissimo cestino di frutti esotici.

Il mio slancio è infinito come il mare, e non meno profondo è il mio amore; più te ne dono più ne posseggo, perché entrambi sono infiniti.

(William Shakespeare)

 

Da Jo Soares

 

 

Allo spettacolo televisivo di dibattito notturno di Jo Soares intervennero i due cugini. Era uno show di interviste a personaggi famosi o anche sconosciuti, sul canale più importante del Brasile, la rete Globo. Ex comico di ampia cultura a 360 gradi, il grasso - al limite dello  sferico - Jo Soares risultava intervistatore simpatico e intelligente. Il programma si chiamava Jo Onze e Meia, doveva quindi esserci alle undici e mezza, ma gli orari televisivi qua erano solo indicativi e andava in onda tutte le sere a mezzanotte passata, insomma dopo l’ultimo telegiornale. 

“Oda e Ada, cugini, filosofi, sociologi alternativi e autodidatti, sono ormai simboli viventi a Rio de Janeiro, perché cercano ogni giorno e con grande percentuale di successo, di sbrogliare la matassa dei pensieri e dei dubbi del cittadino stressato di Rio de Janeiro. Chi è dei due che ha cominciato a scoprire questa tendenza del popolo moderno di cercare le soluzioni in una qualsiasi autorità, anche senza diplomi o qualifiche, ma che abbia la necessaria competenza per  trovare rapidamente e in maniera semplificata al massimo, cosa si deve fare per combattere il male di un mondo complicato e con la tendenza a complicarsi sempre di più?”

“Oda è stato tra noi due quello che ha trovato la strada, Jo, poi mi ha invitato e io lo ho seguito...”

“Bene, interessante, ma come è successo? È vero che ambedue eravate camelô e che Oda vive ancora nella sua favela Urubu di Rio De Janeiro ?”

Rispose Oda.

“Non esattamente, la mia famiglia era di classe media, anche se era uscita dalla povertà da poco tempo. Tutto è cominciato dieci anni fa, almeno per me, quando sono stato lasciato da mia moglie, Jo, mi sono ritrovato solo e ho vissuto in stato di choc per qualche tempo, i parenti mi hanno aiutato e anche gli amici, ma il vero aiuto era da solo che potevo darmelo e questo è successo quando ho scoperto che il mio aiutarmi era aiutare gli altri...”

“E come è scoccata questa scintilla?”

“Questa è una storia che non ho mai raccontato a nessuno, Jo, ma mi fa piacere parlarne, ora: molto bene, mia moglie era fuggita da me, quando credevo che tutto stesse andando per il meglio.

Cose che succedono, ma la mia testa non assimilava questo fatto, il mio corpo si rifiutava di continuare, in poco tempo avevo smesso di avere una vita, eravamo in Danimarca, in seguito alla profonda depressione capii che dovevo tornare in Brasile, ma una volta qui avevo allontanato gli amici, mi ero isolato totalmente.  Solo mio zio Aldrovani ha continuato a frequentarmi e ad aiutarmi, anche se io non gli davo la minima soddisfazione e lo trattavo a pesci in faccia. Colgo l’occasione per ringraziarlo pubblicamente, Jo, anche se non è più tra di noi, perché senza di lui forse sarei morto e non avrei potuto aiutare proprio nessuno. Avevo passato dei mesi in questa maniera, non so più nemmeno quanti, quasi senza parlare con nessuno, arrivando ben presto anche a soffrire la fame per la mia prolungata incapacità di razionalizzare. Un giorno mi ero svegliato da un sonno pesante di troppa cachaça bevuta, dentro una pozza di acqua putrida, dietro la baracca mezza diroccata, era pomeriggio, scesi nella favela, vagando come un corpo senza volontà, gambe molli, sguardo fisso... scendevo solo perché il mio corpo aveva bisogno di movimento e non ce l’avrebbe fatta a salire.

I trafficanti cominciarono a sparare contro la polizia, come tante altre volte, ma io non mi rendevo conto del pericolo o forse dentro di me pensavo che era ora di farla finita, che quella storia era andata avanti anche troppo.

Allora passai intontito in mezzo a quel vespaio di pallottole che fischiavano e fracassavano i mattoni forati e le tavole vecchie intorno a me, finché non fui colpito alla testa.

La mia fortuna è stata quella, Jo, difficile a credersi, ma uscito dall’ospedale la mia vita poté ricominciare e meglio di prima, molto meglio di prima.”

“Che cosa era successo?”

“Niente, solo uno choc, una botta e il mio sistema nervoso, quasi anestetizzato dalla mancanza di cibo e dall’alcool, poi aveva ricominciato a funzionare meglio, come quando si tocca il fondo e poi si risale, come quando si batte nel muro della fine della strada, poi si può proseguire solo se si prende la direzione opposta.

Inoltre, all’ospedale, avevo ricominciato a essere alimentato a dovere, là dentro avevo visto e conosciuto tanta gente che soffriva per altri motivi e tanti non erano motivi fisici, ma quelle che stavano curando là dentro potevano essere, forse, le conseguenze.

Non mi ero mai reso conto di questo piccolo ma importante dettaglio, i mali mentali portano ai mali fisici, ma quei difetti di comportamento, quell’incompetenza del quotidiano, erano cose che si potevano correggere.”

“Ma il colpo alla testa aveva leso qualcosa o tutto era in ordine?”

“Miracolosamente no, Jo, il proiettile era entrato qui sopra l’orecchio sinistro, ma si era portato in giro per la favela solo una parte superficiale, rompendo l’osso e facendo tanto sangue in giro, ma niente di importante era stato toccato, insomma come quando si dà una botta a una televisione vecchia che non funziona e dopo ricomincia a dare l’immagine...”

“Solo che dopo l’immagine se ne va di nuovo, questo non ti succede?”

“Fortunatamente no, Jo ogni tanto qualche vuoto di memoria, sono un po’ distratto, ma sono cose che capitano a tutti, no?”

“Certamente, se io non avessi questo microfono nascosto nell’orecchio forse a questo punto non mi ricorderei nemmeno cosa sto facendo qui e neppure chi sono...”

Grande risata del pubblico. Poi Jo Soares, che si dimostrava assai interessato, domandò a Oda:

 “Però è strana la testa della gente, voglio dire, perché non ci avevi mai pensato prima a quelle cose?

Erano sempre state lì, davanti a te!”

“Ecco il punto Jo, lo choc mi aveva fatto cambiare direzione, in un certo senso aveva lavato il mio cervello dal precedente, poi l’alimentazione più sana e la cura della gente intorno, la lentezza di quell’ambiente, la lezione che mi stava dando il dolore intorno a me... insomma stavo di nuovo pensando, sorprendentemente molto meglio di prima e stavo capendo molte più cose. La nostra centrale dei dati, dentro la nostra testa è una cosa complicata, quando non funziona quella, tutto si fotte. Scusate l’entusiasmo uscito sotto forma di parolaccia, (risate del pubblico) ma quando invece comincia a dare risposte alle domande, allora è una meraviglia! Non è vero, Jo?”

“È vero, nessuno ci capisce niente là dentro, fino a un certo momento tutto va male, poi, una botta forte, i meccanismi si rimescolano ed ecco una persona nuova!”

Oppure la testa si guasta definitivamente.”Disse Ada.

Risate in sala.

“Esattamente, ma grazie a Dio la mia ha reagito bene, Jo, in più, là dentro, piano piano, mi sono accorto che potevo dare consigli alla gente, proprio io che non sapevo vivere la mia stessa vita... e dopo averle aiutate mi potevo sentire meglio e anche la mia vita prendeva un senso, perché noi dobbiamo tutti avere un senso nella vita, no?”

“È chiaro, avere un motivo o uno stimolo è troppo importante, ma per aiutare gli altri bisogna sapere di cosa si sta parlando anche, bisogna avere una preparazione, no?

Perché, tanto per fare un esempio scemo, ma calzante, se io mi metto a fare il saggio e a dare consigli alla gente, magari poi tutti diventano grassi, cioè, si possono assai facilmente anche fare dei danni in giro, non è vero Oda?”

“Sì, è facile dare consigli sbagliati, anzitutto perché le persone sono tutte diverse e non esiste una ricetta che vale per tutti.

Non che questo fosse proprio chiaro all’inizio, per me, ma dopo quella pallottola ho sentito tanti altri dolori alla testa, stavolta meno materiali, ma non per questo meno profondi, proprio perché volevo accelerare troppo le cose, volevo svuotarmi prima di essermi riempito, le mie intenzioni non corrispondevano alle mie parole, ai miei gesti, perché dovevo crearmi una sistematica, dovevo costruire su di me una centrale dei dati nuova, non sapevo esattamente come comportarmi, era stata un’esperienza necessaria e tutto, avevo capito tutto, ma allora dovetti trattare con quella sua rispettiva maniera di essere espressa e comunicata, magari per non essere frainteso, finalmente per non fare più danni che azioni buone.

Ed è per questo che ho capito e allora ho cominciato a studiare, diciamo come allievo non pagante dentro le scuole di tanti tipi in questa città, senza dare esami e senza mettere mano al portafoglio, diciamo pure come clandestino, ma gli studenti sono diventati miei amici e tanti professori anche, intanto gli abitanti della mia favela mi servivano da cavia, (risate) si fa per dire, perché cominciavo a aiutarli facendomi pagare quello che volevano, per due anni è stato così, dopo, cominciando ad arrivare anche clienti più danarosi, ho iniziato ad avere prezzi più o meno fissi, ma accettavo sempre le offerte dalle persone povere... a quel punto ho compreso che il prezzo era da stabilire in base alle possibilità della persona, senza favorire nessuno, senza evitare - per esempio - i meno riforniti di grano. Allora ho cominciato a vivere bene, sia per i soldi che cominciavano a entrare nelle mie tasche, che per le uova e i pomodori e i ferri da stiro, le radioline vecchie che ricevevo, ma anche e soprattutto per quello che facevo, mi sentivo finalmente utile e realizzato come non avevo mai potuto sentirmi in precedenza.”

“Vuol dire che la preparazione è stata fatta in due anni di studio? C’è gente che studia una vita senza riuscire a fare quello che Oda ha fatto in questo breve tempo, ma come hai fatto?”

“Bene, la preparazione sta continuando ancora, giorno per giorno, Jo, devi sapere che io studio un poco tutti i giorni, non ho tempo per avere una fidanzata, o per guardare la televisione.

Mi concedo solo di parlare, fuori dalle sedute, con la gente, questa è una cosa alla quale non rinuncio ed è come un’attualizzazione giornaliera, mangiare e dormire, naturalmente, ma solo il necessario.

È come se io mi cibassi più del bene che faccio che dei risultati che questo mi garantisce, dal punto di vista finanziario e morale.

Ada, il qui presente cugino, ha un carattere diverso, non ha preso botte alla testa, ma è stato preparato da me in un tempo anche più breve. Anche per lui questa è una missione.

Volevo anche dire, Jo, rispondendo alla tua domanda di prima, che, prima di tutto, il sistema scolastico è fatto per i giovani che nella maggior parte dei casi studiano svogliatamente, con tante altre cose che li distraggono, senza sapere all’inizio cosa poi faranno professionalmente.

Io, invece, ho fatto al contrario, dopo aver capito cosa volevo fare, ho trovato il come e sono tanto appassionato della mia funzione pratica e quotidiana che studiare mi riesce facile, anche se con convinzione autentica non lo avevo mai fatto prima...”

“Ma questa maniera di parlare non è quella della gente comune, anche questa è stata cambiata nel corso di questo miracolo metropolitano che è la tua vita?”

“Leggendo e studiando, Jo, s’imparano ad adoperare le parole, per espressioni più piene e complete, il linguaggio della gente per strada, sebbene più ricco di girias (gergo), ha un uso complessivo di molte meno parole, anche perché gli argomenti trattati non ne hanno bisogno.

Invece, parlando di filosofia di vita, di aspetti sociali, si deve per forza assumere un vocabolario più vasto, ma voglio dirti una cosa, Jo, fuori dalle sedute mi piace continuare a parlare come facevo prima.

Nella favela c’è una specie di controcultura che esiste solo là, una specie di disordine che però è anche un ordine. Là dentro, Jo, ci sono tante cose che valgono solo nella realtà della favela, se ne parla poco, o si parla solo di traffico di droga e di banditi, ma la vita là ha anche lati positivi o perlomeno caratteristici di una cultura tipica, che dovrebbero essere divulgati, dovrebbero essere conosciuti anche fuori, perché non è solo terrore e povertà, ma anche solidarietà e tante altre cose, sentimenti di persone che non hanno certo scelto di viverci, l’incompletezza del mondo ha deciso per loro, ma cercano di fare il loro meglio, di godersi, nonostante tutto, quello che hanno, da questo si può e si dovrebbe anche imparare.”

“Ci puoi fare qualche esempio?”

“La radio della nostra favela, Radio-Familia, è una cosa clandestina, anche se per fortuna nessuno parla di punire questa intrusione nelle lunghezze d’onda nazionali, ma funziona come una centrale di aiuto ai bisognosi che è veramente efficace e chi lavora là dentro non è pagato, è un volontariato vero e proprio e anche molto ben organizzato. Se qualcuno si ammala, se c’è bisogno di fare qualcosa, qualsiasi cosa, nei limiti della nostra povertà, là si fanno donazioni e prestiti, ma sono solo persone povere che collaborano, a parte i miei soldi che ci investo perché mi pare che ne valga abbondantemente la pena.

È vero, fuori di là ci si organizza anche in questa maniera, ma con sovvenzioni e mezzi assai superiori, qui con quasi niente si crea qualcosa e allora è bello vedere che l’uomo non è solo un qualcuno che ha bisogno di soldi per mantenere la macchina della produzione, per poter continuare a vivere, l’essere umano ha bisogno anche e soprattutto di soddisfazione personale, quella il sistema dei sistemi gli ha negato e questa può essere trovata anche aiutando gli altri, anzi, è la maniera migliore, per quanto ne so io...”

Ada entrò nella pausa di Oda.

“Anche noi facciamo il nostro programma alla radio, diamo consigli per telefono, assolutamente gratuiti, anche se questo ci permette di fare un poco di pubblicità, visto che i clienti della favela sono quelli che ci portano meno lucro...”

“Giusto, parliamo ora con Ada. Perché tu, Adailton, sei uscito dalla favela Rocinha, se è il luogo dove avevi sempre vissuto?”

“Ecco, Jo, Oda è rimasto là nella sua favela, Morro do Urubu  perché lui vuole continuare a fare il suo lavoro là dentro, io invece, visto che tratto di più con persone con maggiori possibilità finanziarie, per me è più pratico vivere fuori...”

“Dove abiti, attualmente?”

“Nel quartiere di Leblon.”

“Per te la favela è allora una cosa appartenente al passato?”

“Sì. A parte il lavoro della radio.”

“Non senti nostalgia?”

“No, per niente. Oda pensa che la favela è anche cultura, posso anche essere d’accordo, ma tutto là dentro è più difficile, sia lavarsi che andare al gabinetto, la stessa elettricità che è abusiva e va e viene, ogni tanto un corto circuito brucia qualche baracca con qualcuno dentro, l’igiene è problematica... il pericolo è costante, insomma... per me è stata una grande conquista uscire di là e fare finalmente una vita normale... decente.”

“Tu credi che le persone che ci vivono non facciano una vita decente?” Intervenne Oda, un po’meno calmo del solito.

“Ada ha saltato il processo che per me è stato basilare, l’iniziazione al mio lavoro ha avuto dai primi passi un aspetto di missione, per la quale ho sacrificato altre cose, che avevo scoperto di non avere mai vissuto bene, o sfruttato pienamente, ma che avevano sostenuto la mia esistenza fino a quel momento.

Ada, invece, è entrato quando il peggio era stato già fatto, gli ho fatto scuola come a un bambino, per questo ora crede che tutto quello che aveva vissuto prima non valeva la pena, il mondo per lui è magicamente cambiato, ma io gli dico sempre che senza tutto quello schifoso - ma in un certo senso - anche glorioso passato lì, con rispetto parlando, (risate del pubblico,) ora il suo presente così fottutamente solido non avrebbe nessuna base, non saprebbe nemmeno dove appoggiarsi, semplicemente perché Ada non esisterebbe.”

Mormorio del pubblico e Ada ribattè, punto sul vivo:

“Ma questo non significa che dobbiamo sempre rimanere ancorati a quello che è stato il passato, lo dici anche tu che il presente è più importante, non è che io mi voglio scordare di tutto, anche perché non potrei, ma ci voglio pensare il meno possibile, quando entro là, nella Rocinha io soffro, penso già di aver sofferto la mia parte, se permetti...”

Jo Soares, interruppe il battibecco e deviò la conversazione su un argomento laterale.

“Un momento, vorrei chiedere ora a Oda, perché mi pare importante, in mezzo a questa illuminante litigata tra voi: è vero che il momento decisivo della tua vicenda, importante ora per centinaia di persone di Rio De Janeiro, è stato quando una chiromante della favela della Rocinha ti ha detto che la tua era una vera e propria missione?”

“Sì, esattamente, Jo, questo è successo quando sono tornato dall’ospedale, e stavo pensando come cominciare la mia nuova vita di terapeuta, quando mio zio Aldrovani, fratello di mio padre, ora defunto da tre anni, che è sempre stato al mio fianco, di cui ho parlato anche prima, mi ha convinto e mi ha portato da Dona Kahiouna, una negra vecchissima, famosa nel suo campo, lei non mi conosceva, ha preso le mie mani tra le sue rugosissime e caldissime, ha socchiuso gli occhi per qualche secondo e mi ha detto subito in poche parole: ‘Odair, tu devi lasciar perdere tutto il resto e prendere questo cammino, aiuterai gli altri aiutando te stesso, scoprirai la tua energia nascosta, scoprendo dove si nasconde quella degli altri, preparati in tutte le maniere possibili e immaginabili, perché d’ora in avanti tutto sarà in funzione di questo, ma contemporaneamente comincia a esercitare subito, coi tuoi vicini, gli amici, tutti quelli che incontri per strada... le persone bisognose di essere orientate... tutte, tuttissime’.

Quando ha finito, non ha voluto soldi da me, perché ha detto che, aiutando me, lei stava aiutando anche se stessa, perché stava aiutando gli altri in senso assai generale, diciamo, allora ho cominciato a credere veramente che quella era la mia missione.”

Mormorio di ammirazione e curiosità del pubblico. Jo Soares incalzò:

“Come è stato che tu hai deciso di allargare la tua conoscenza a tuo cugino Ada?”

“Quando le cose hanno cominciato a funzionare, Jo, ho visto che da solo potevo fare poco, rispetto a quello che si poteva fare in giro se ci fosse stato anche qualcun altro.

Lo so che questa missione era la mia, ma poteva essere aperta anche a chi volesse e potesse.

È normale che abbiamo un contatto differente con la gente, la mia è una maniera più appassionata, dentro di me sento emozioni forti a ogni incontro, anche se devo mostrare distacco e saggezza, anche se ci sono persone che preferiscono il loro lavoro di presentatori televisivi al mio di terapeuta. Diciamo che entrambi possono essere assai utili, ma in generale la gente vuole la popolarità, che per me invece non vale molto.

Tra gli altri operatori che esistono attualmente, ci sarà forse uno o due di loro, che veramente farebbero quello che stanno facendo anche  senza essere pagati... ma il volontariato ha altri problemi, Jo, perché le persone devono vivere e dare da mangiare alla loro famiglia, devono succhiare il succo della vita anche per se stessi, perché sennò non possono darne agli altri, non tutti vivrebbero come io vivo, investendo tutto nel futuro della Oda & Ada, ma per me, ora che l’ho scoperta e provata, è l’unica maniera di vivere...”

“Senza dubbio, ne sono convinto, ma visto che non tutti hanno la vocazione di aiutare gli altri, volevo capire, io per primo e poi far capire al pubblico: perché è stato scelto Ada, per caso o per qualche motivo speciale?”

“Era esattamente dove stavo andando con il mio discorso, Jo, Ada è stato scelto sia perché lo conoscevo e lo stimavo, sia perché aveva voglia e bisogno di crescere, ecco il punto, cioè volevo aiutare Ada e  aiutare contemporaneamente me stesso e con questo aiutare anche gli altri, ma non mi facevo illusioni, sapevo che per lui poteva essere o anche non essere una missione...”

“Vuoi dire che la sua efficacia nel vostro vasto campo è diversa dalla tua?”

“Direi di sì, differente senza dubbio, nel senso che Ada guadagna più di me e se lo merita, per l’amor di Dio, ma vuole sempre guadagnare di più e pensa sempre di meno agli altri e sempre di più al suo conto in banca... la nostra è diventata un’industria, Jo, lo sanno tutti, Ada vive in una suite a Leblon, io ho ampliato le mie possibilità murando una casa sulla strada principale e ricevo là, mi vesto come mi vestivo prima, paghiamo bene i nostri collaboratori, che sono di prima qualità e lui mi accusa che potevamo essere ricchi a quest’ora, non che lui non lo sia, forse poteva esserlo di più, o forse vuole che io valorizzi di più a suon di banconote il nostro operato, dal suo punto di vista ha anche ragione, solo che quello che cerco io è una cosa diversa dalla sua, per me non è il successo, la fama e il potere. I nostri obbiettivi hanno deviato da tempo, non potrei più fare senza di lui, perché controlla i collaboratori, sia quelli pagati che quelli volontari con più grinta di quello che potrei fare io, con più efficacia, insomma.”

Jo Soares interruppe e domandò:

“Ma perché questo nome Oda il Distante di Responsabilità?”

“Perché in questo nome c’è tutta la mia filosofia, da tempo mi considero uno scettico, nel senso che in tutto quello che viene messo in discussione, o meglio in tanti casi, ho il 50% di argomenti a favore, approssimativamente, e il 50% di argomenti contrari...”

“Un esempio pratico, per favore?”

“A questo punto, se qualcuno me lo domanda, io cito sempre un esempio del mio maestro filosofico, IV, Indio Velho, che non è famoso, ma per scelta sua, potrebbe diventarlo se volesse, ma non vuole. Insomma: mi spiegò un giorno che si diceva in giro che in Brasile la filosofia era insegnata male, perché, prima di tutto il filosofo deve essere coerente con le sue stesse idee e non può vivere facendo il contrario di quello che insegna, sennò è solo un professore, mentre il filosofo insegna quelle cose perché ci crede e le mette in pratica nella sua vita quotidiana.

Al contrario: fate come io dico ma non come io faccio, non è mai una buona regola.

Bene, in Brasile allora la filosofia è bistrattata, pare che questo sia un fatto assodato, ma alcuni dicono che è meglio che sia fatta male che non sia fatta per niente. IV dice che lui non sa realmente se è meglio una cosa o l’altra, ecco un esempio di scetticismo. IV è uno scettico tranquillo, lo dice lui stesso, forse anch’io lo sono...”

“Tutto bene, ma questo che cosa a che fare con il nome Distante di Responsabilità?”

“Calma, Jo, ci stavo arrivando proprio ora, prima di tutto il nome l’ho detto qualche volta per scherzo e ha preso una serietà che io non pretendevo quando ne avevo parlato con qualche amico o paziente, che a volta sono sia amici che pazienti...”

Ada intervenne:

“Una cosa per la quale non andiamo d’accordo è proprio questa, i pazienti sono una cosa e gli amici un’altra, perché sennò si pagano le sedute con piatti di lenticchie e gatti rognosi. Secondo me questo è sbagliato, perché lo dice anche lui stesso, che per aiutare gli altri si deve rinforzare il nostro stesso esercito, avere la forza di fare qualcosa per gli altri va bene, ma deve essere alimentata questa forza, sennò muore...”

“Sai che volte mi pento di averti portato in questa dimensione così confusa per te, Ada? Devi capire Jo, che per lui rinforzarsi significa diventare ricchi e invece per me diventare ricchi è perdere forza, vi spiego subito perché...”

Jo Soares ebbe un moto d’impazienza:

“Oda, ma non dovevi spiegare prima che diavolo significa Distante di Responsabilità?”

“Calma, Jo, il Brasile è nostro, anche se ho sentito dire che gli americani ce lo toglieranno prima o poi, ma non c’è ragione di avere fretta, lo faranno indipendentemente da quello che dirò o dirai e quando lo decideranno loro, a meno che, naturalmente, nel frattempo, noi Brasiliani prendessimo finalmente coscienza dell’importanza che abbiamo qui in questo mondo e che non possiamo farci sfruttare da nessuno.

Ritorno al nostro argomento ed era proprio su questo che stavo per andare a parare, la parola stessa lo dice, Distante di Responsabilità, ecco, per essere distanti, per avere il distacco, bisogna cancellare l’ansietà, mi spiego meglio: il denaro, quando si accumula, ci fa diventare troppo attaccati, genera un’ansia di averne di più, quando uno ha solo di che vivere senza accumulare, secondo me sta meglio, il distacco non si vende e non si compra.

Una persona che insegna come si vive, non può vivere nella maniera opposta di quello che insegna, l’ho già detto prima, no? E allora lo ripeto, perché proprio questa è la differenza tra filosofo e professore di filosofia.

Non mi guardare male, Jo, ecco che arrivo diretto anche al nostro punto: quando io ho il distacco lo posso insegnare e posso anche farlo bene. Tutte le obiezioni, le pressioni e i tentativi di disturbo non mi raggiungeranno, non intaccheranno la mia fede, (Kierkegaard, filosofo Danese, diceva giustamente: non si può realmente sapere, si può solo aver fede), ma dicevo che io ho acquisito questa separazione dalla polemica, dall’emozione, dal voler dimostrare ansiosamente di aver ragione, quando si sa quello che si fa e si fa tutto con calma, ecco il distacco. Le responsabilità però ci sono, sono grandi e importanti. Sono antitetiche rispetto al distacco? No, al contrario delle apparenze, la responsabilità è necessaria e lavora parallelamente al distacco, in questo senso, il distacco è il veicolo e la responsabilità è il contenuto. Cioè, la nostra responsabilità è quella di fare bene il nostro lavoro, perche non è come vendere detersivi, dobbiamo stare molto attenti a quello che si fa, ma anche a come si fa e questa maniera di passare saggezza è possibile solo attraverso un distacco quasi ascetico, se però comincio ad attaccarmi ai soldi tutto si fotte, scusate il termine, ma è il più calzante che io conosca e, se permetti, Jo, ora che ho spiegato tutto ciò che era più importante, si dovrebbe passare alla pratica. Infatti, vorrei fare un esercizio di distacco, perché è uno dei punti di arrivo dell’uomo moderno e l’esercizio è ottimo anche per le signore e signorine. (Risate) Dicevo che si cerca inutilmente, nello stress caotico delle città, di sgombrare la testa dai pensieri, quante persone ci sono qui, per esempio, che sono capaci di non pensare a niente?

Tu sei capace, Jo?”

“No, confesso che ho anche provato più di una volta, ma mi sembra impossibile...”

“Nemmeno quando il microfonino nel tuo orecchio è spento?”

Jo Soares lo guardò divertito, il pubblico rise e applaudì.

“Va bene, va bene ora ci proviamo insieme. E là tra il pubblico? Qualcuno di voi è capace di liberare la testa dai pensieri e di rimanere, anche solo un quarto d’ora, senza pensare a niente? È così difficile? Alzate le mani, per favore. Ecco, nessun altro? Vedi Jo? Sono in tutto... due, quattro... in tutto sette persone, capaci di non pensare a niente, ma quanti siamo qua dentro Jo?”

“Duecentocinquanta, più o meno.”

“Ecco, probabilmente questi sette, tra signori e signore, hanno già fatto meditazione, è vero?

Ecco, va bene.

Proviamo ora, senza dormire però, a entrare nello stato di percezione Alfa, cioè respiriamo profondamente e diamo un numero a ogni respiro, profondo, contando alla rovescia da cento all’indietro...”

“Ma se io penso ai numeri allora penso a qualcosa, e poi perché all’indietro?”

“È proprio questo il punto, Jo, all’indietro perché sennò diventa una cosa automatica e teoricamente penso a qualcosa, è vero, pensando ai numeri, sì, ma in pratica questo è assai differente da una concatenazione di pensieri, come noi facciamo di solito, perché qui noi, invece, ci concentriamo sulla nostra stessa respirazione, una cosa naturale. I numeri servono solo per ingannare la nostra mente, troppo abituata a pensare, troppo schiava dei nostri stessi pensieri, il trucco è proprio questo. Allora chiudete gli occhi, concentratevi sulla vostra respirazione profonda, l’importante è concentrarsi, cosa difficile per un brasiliano, lo so, ma facilissima per un orientale abituato alle culture religiose basate sulla meditazione, solo che loro non sono più intelligenti di noi, hanno solo scoperto queste cose prima di noi, ora che le sappiamo possiamo fare lo stesso!

Su, su, respiriamo insieme: 100, profondamente, 99, occhi chiusi, respiro completo, 98...”

 

 

 

 

 

 

I primi profeti che hanno dichiarato, rischiando di essere lapidati, che gli uomini erano tutti uguali, sono stati Siddartha Gautama e Cristo. Infatti si sbagliavano di grosso.

 

(Iraq Falabela)

 

 

Ada 5

 

 

C’è da dire che gli dei all’inizio erano poco tolleranti, piuttosto antipatici con gli uomini. Prima si pensava a un dio come un essere celeste, sì, ma più che altro autoritario, poi, coll’andar del tempo le varie divinità si sono un poco addolcite, almeno in teoria.

Forse una questione di marketing.

Però in pratica la religione si dimostra da un lato ancora assai rigida, o troppo, per i tempi attuali, dall’altro troppo teorica e distante dai problemi nuovi e reali.

Per questo gli uomini hanno cercato sempre più spesso e con maggiore convinzione, qualcosa di alternativo.

L’uomo, inteso come singolo ma anche come umanità, può anche tacitamente riconoscere di avere sempre più bisogno di sonori calci nel deretano, ma ha bisogno di sentirselo dire da qualcuno che sia specializzato nel ramo.

Un aiuto per cercare e rintracciare la retta via, spesso persa e difficilmente ritrovabile senza l’aiuto di una voce che almeno abbia autorità, che pretenda di venire dall’alto, insomma, qualcuno qualificato, che gli possa dire quello che lui sa già.

Se la religione pare ormai una roba arcaica, la chiesa e i sacerdoti sono ancora peggio.

Le nuove religioni brasiliane inventate mischiando gli ingredienti e agitando le teste dei fedeli-pazienti, che devono pagare per vedersi fregati prima, durante e dopo, sono un patetico e assurdo - ma comprensibile - esempio di movimento collettivo, definibile anche come circonvenzione d’incapace.

C’è una massiccia decadenza dei valori, mentre se ne stanno lentamente sostituendo dei nuovi, almeno questo è quello che si cerca ancora di sperare, perché quelli intanto sono in palese ritardo.

Per cui, tra le altre cose, si mette in dubbio l’esistenza di un dio o di più di uno, ma anche ammettendone l’occulta presenza, se quest’ultimi possano ancora essere veramente buoni consiglieri, per questi nuovi tempi che corrono come forsennati e non si sa nemmeno in quale direzione.

In Brasile, molti futuri terapeuti non escono ben preparati dalla facoltà. Essendo abbastanza vaga la scientificità, non ancora riconosciuta, il metodo si giustifica coi risultati, difficilmente quantificabili, perché la colpa si può facilmente accollare al già abbastanza disgraziato paziente. Alcune correnti si distanziano ulteriormente dalla scienza, man mano che passa il tempo e si identificano di più con la filosofia.

Risultano veritiere storie pittoresche di sedicenti cliniche dove i disperati pazienti (che le avevano già tentate tutte, prima di approdare lì,) sono trattati con ogni genere di cura alternativa che esuli dalle classiche. Per esempio si usa il film Matrix come discussione della realtà e medicine esoteriche di vario tipo come ausilio chimico. I pazienti si sentono risucchiati dagli specchi e tentano di passare attraverso le pareti, ma sono contenti.

 

Penso che Oda mi abbia insegnato varie cose utili per la mia vita, tra cui la scarsa utilità di una disciplina che si faccia applicare agli altri, ma che si metta poco in discussione su noi stessi.

Noto un certo tipo di comportamento del genere negli specialisti del ramo, intendo quelli qualificati da scuole e università, che spesso sanno perfettamente cosa fare e sanno anche spiegarlo bene a chi deve farlo, ma, per praticità, non si includono mai in quel gruppo.

Naturalmente questa è una tendenza comune un po’ a tutti, forse si sbaglia a pretendere che lo specialista delle cure per la mente, debba, voglia o possa usarle anche su se stesso. I terapeuti, essendo persone, purtroppo hanno i loro problemi e dovrebbero sempre fare terapia, a loro volta, con altri terapeuti, ma non tutti lo fanno. Scavare dentro il proprio io è un processo faticoso e doloroso, a volte, o quasi sempre, porta fuori delle puzze romantiche, sì, ma che possono risultare particolarmente sgradevoli, non solo al naso.

Tre domande regolano la vita delle persone, le loro relazioni con gli altri e con se stessi: Voglio? Posso? Devo?

Ci sono cose che vogliamo e possiamo, ma sappiamo che non dobbiamo.

Esistono quelle che vogliamo e dobbiamo, ma non possiamo.

E quelle che possiamo e dobbiamo, ma che semplicemente non vogliamo.

Tre questioni che apparentemente stanno dietro a tutto quello che facciamo, noi non ce ne rendiamo conto, che invece sono piuttosto davanti alla totalità del nostro mondo.

Tre portali che non sempre ci conducono dove vogliamo in modo tranquillo e indolore, passarci attraverso non richiede solo buone intenzioni o solida formazione morale, ma anche maturità psichica e neurologica.

Questa discussione che per molto tempo è rimasta esclusivamente ristretta al campo della filosofia, si estende sempre di più alla psicologia e alle cosiddette neuroscienze.

La Neuroimmagine Funzionale serve per provare se la terapia funziona, se questo parlarne è veramente costruttivo e se dà effetti permanenti nel nostro sistema di imparare, nella memoria e nel processo delle emozioni.

La NF fotografa il flusso del sangue al cervello, si vede allora che la terapia funziona, anzi, non ci si aspettava che il trattamento fosse tanto efficace e durevole.

Attraverso esperienze fatte in Brasile, Germania, Olanda e Giappone si sono confermati in pratica questi dati, più o meno con gli stessi risultati.

Si hanno indizi che le psicoterapie promuovono un rafforzamento delle funzioni esecutive, legate alla corteccia pre-frontale, in pratica conducono a pensare meglio.

Insomma, chi fa la terapia, nell’80% dei casi migliora, il valore iniziale del trattamento con antidepressivi è inferiore a quello della psicoterapia.

La Neuroimmagine però mostra che, nella maggior parte dei casi, non importa quale sia la terapia, i risultati sono assai simili.

Nell’università di Leeds si sono confrontati per  anni i risultati su 5500 pazienti sottoposti a 3 tipi di terapia: TCC, psicodinamica e centrata sulla persona. Risultati di nuovo equivalenti.

Si parla quindi di effetti placebo, se quello che conta è più che altro la convinzione del paziente che sta ricevendo un aiuto medico in buona fede.

Nel ramo della salute mentale è già difficile sapere qual è il disturbo che il paziente presenta e se la cura funzionerà, stiamo ancora attraversando un periodo empirico e non scientifico.

Non si sa esattamente perché i pazienti migliorano e forse esistono trattamenti migliori di quelli esistenti che non sono ancora stati scoperti.

Un esempio è la genetica, per molto tempo si è creduto che la schizofrenia fosse un male psicologico e che si poteva migliorare con la terapia.

Quando però si sono scoperte le sue origini genetiche e chimiche, la psicoterapia per trattare la schizofrenia è diventata una cosa del passato.

Si considera sempre più connesso ai geni il problema della depressione.

Una ricerca di biologi evolutivi degli USA mostra che l’iperattività ha cause genetiche mentre gli psicologi dicono che è una strategia dei figli per attirare l’attenzione dei padri, i biologi dichiarano che invece c’è un motivo evolutivo. Quando gli esseri umani vivevano in gruppi nomadi, non riuscire a fermarsi era un vantaggio competitivo per cacciatori e pastori. Con la vita sedentaria di oggi invece si trova che questo sia un problema.

Non solo nei paesi industrializzati migliaia di persone insoddisfatte della loro vita cercano piuttosto affannosamente una maniera di stare meglio, di essere migliori.

Si vogliono liberare di fobie, manie ossessive, vogliono dormire meglio, avere forze positive per scendere dal letto la mattina, lasciarsi indietro difficoltà sessuali o semplicemente trovare la vita un po’ più interessante.

Nelle società più moderne, negli ultimi tempi, chi frequenta lo psicologo non è più considerato problematico, è diventato perfino un nuovo e interessante argomento per conversare con gli amici.

Oggi si contano più di 400 tecniche differenti.

Il numero degli psicologi in Brasile è aumentato del 48% dal 2000, da 123.000 a 182.000, ne escono dalla facoltà 17.000 ogni anno, senza contare l’aumento di altri professionisti nel ramo come psicanalisti, psichiatri e filosofi clinici.

Se all’epoca di Freud c’erano più casi di isteria era per via della repressione sessuale del secolo 19° , nella società attuale invece c’è più narcisismo, competizione e ansia di ottenere il piacere.

Si vive in una società per niente solidale e molto competitiva, dove le posizioni conquistate sono sempre incerte.

Tutto ciò è in forte relazione con casi sempre più comuni di panico, insonnia, ansia, stress e depressione.

Gli psicologi, da parte loro, dicono che il nostro passato cambia ogni giorno, nella nostra memoria, mentre l’archeologia dell’anima mostra che i desideri dei nostri genitori influenzano ancor oggi la nostra vita.

Gli eventi dell’infanzia sono importanti, perché quello che stiamo facendo oggi ne è la conseguenza.

Il paziente in genere è condotto, a piccoli passi, a scoprire che cosa sta facendo della sua vita, a rendersi conto del suo stesso comportamento, successivamente a responsabilizzarsi, intanto gli si fa capire che - però - non è il caso di sentirsene colpevoli.

La persona deve rendersi conto di quello che vuole e del fatto che spesso è essa stessa che sabota i suoi desideri nel metterli in pratica in maniera impropria, facendo come Penelope di Ulisse, tessendo una tela di giorno e sfilacciandola di notte.

Se lei lo faceva per via dei Proci, quindi a ragion veduta, nella vita in generale, oltre che un’azione faticosa, questa porta a una certa destabilizzazione e conseguente confusione nel vivente stesso.

Ecco che le tecniche che si usano sono in genere pensate per riuscire a far ragionare di nuovo e con più possibile completezza il paziente.

Il problema, però, è che tutte queste tecniche, in costante perfezionamento, non sono ancora considerate scientificamente provate.

Pare addirittura che all’inizio lo stesso Freud abbia esagerato nel raccontare le sue esperienze a maggior supporto delle sue teorie.

L’attuale neuroscienza dice che i sogni hanno più a che fare con la memoria del giorno precedente che con i desideri repressi.

Col mio mestiere di terapeuta non qualificato in Brasile ho avuto occasione di conoscere vari esponenti di queste scienze poco scientifiche, tra psicologi e psichiatri, più alcuni imbroglioni di differente tipo e livello.

La maggior parte delle 400 e più tecniche sono sorte durante gli anni 60, quando la rivoluzione sessuale portò a scoprire l’importanza del benestare del corpo e della mente.

Una delle correnti più forti è la TCC, Terapia Cognitiva Comportamentale, raccomandata a chi soffre di fobie come la paura di guidare l’automobile, disturbi ossessivi come l’abitudine di lavarsi le mani eccessivamente di frequente.

Diversamente dalle teorie di Freud, la TCC non ha bisogno di sapere molto del passato e dei desideri repressi del paziente, è più corta e parte dal concetto che “i sintomi depressivi vengono da pensieri e convinzioni negativi su noi stessi e sul mondo”.

 

 

 

 

 

 

 

 

È possibile che individui apparentemente normali e giudicati tali da esperti psichiatri possano rivelarsi in particolari circostanze criminali efferati senza il minimo senso di colpa? Quanto può essere potenzialmente diffusa quest’anomalia dell’animo umano? Tali circostanze si possono verificare se mancano le radici, la memoria degli errori passati, il non ritornare sui propri pensieri e azioni, insomma la mancanza di un dialogo interiore con se stessi.

L’azione morale nasce dal dialogo interiore, e proprio l’assenza, l’incapacità di questo dialogo trasforma persone banali in agenti del male.

 

                                                                (Hannah Arendt)

 

 

Oda e Ada

 

 

Questa è la base dell’insegnamento di Oda che non era un ciarlatano e predicava cose nelle quali credeva per esperienza diretta, non per averle lette da qualche parte. Un dialogo interiore è necessario, per chiedersi se quello che facciamo è giusto, se è quello che vogliamo, se non nuoce a nessuno, se ci può portare dei risultati utili e magari anche equi.

Il luogo dove tutto è partito è stata la favela, perché i bisogni degli esseri umani, fisiologicamente risultano acuiti dove si vive male, dove si rischia la vita ogni giorno, dove l’esistenza proprio per questo diventa un bene più concreto e tangibile.

Nella favela si pensa meno agli altri problemi dell’uomo moderno, come per esempio al senso della nostra permanenza in questa valle di lacrime, qui la sopravvivenza diventa l’unico scopo, l’unico pensiero. In un certo senso, quindi, si è più umani e ci si allontana dalla mancanza di ideali della gente che va dietro al consumismo selvaggio, alla globalizzazione, ma non per scelta propria, piuttosto seguendo la maggioranza, come le pecore.

Dall’altro lato queste cose che si vedono continuamente in giro, specie alla televisione, ma alle quali non si accede facilmente, sono un generatore continuo di ansia di ricchezza, per cui le persone che riescono a uscire da quello stato di miseria, non saranno mai capaci di pensare a nient’altro, nella loro vita.

Quest’immagine di miseria sempre davanti agli occhi genera un tipo di società che idolatra il denaro e porta la gente di classe media e ricca a odiare questo per loro vergognoso aspetto del Brasile, che per esempio non volevano mostrare nei film e meno ancora nelle novelas, almeno fino a poco tempo fa, ma che ultimamente invece ne hanno scoperto il fascino feroce e sensazionalista, da vendere specialmente fuori dal Brasile e anche questo può essere un buon business.

Oda venne intimato di lasciare la favela, ma non avendo ubbidito alla fine venne giustiziato dai trafficanti che controllavano la favela Collina dell’Avvoltoio (Morro do Urubu) perché era diventato un pericolo per loro, già che lui insegnava alle persone a vivere meglio, la gente lo seguiva come un’autorità. Visto che Oda era diventato un personaggio famoso, la fazione Amici degli Amici (Amigos dos Amigos) ha dovuto mettersi d’accordo con le altre due fazioni di Rio de Janeiro, cioè Comando Rosso (Comando Vermelho) e Terzo Comando (Terceiro Comando).

Io magari ci avevo fatto dei soldi, ma non diventai mai un buon terapeuta perché facendolo mi trovai ben presto a un bivio e scelsi l’altra strada. Avevo capito che per fare veramente bene alla gente dovevo almeno cercare di eliminare i prepotenti che purtroppo non avevano nessuna voglia d’imparare a sviluppare un dialogo interno, ma preferivano piuttosto fare a pezzi gli avversari, togliere il loro potere individuale per poco che fosse, ma in quel modo accumulare il proprio, mattoncino su mattoncino costruivano dei grattacieli d’ingiustizia e di sangue rappreso, ma anche di soldi e quindi di potere, che se non sono esattamente la stessa cosa, spesso coincidono.

La mia seconda carriera iniziava segretamente, tutto quello che mi aveva insegnato Oda mi serviva, soprattutto a capire chi avevo di fronte, ma questo era il momento in cui dovevo imparare a usare le armi, comprare informazioni direzionate e il denaro ora ce l’avevo. Un addestramento da killer anche era un tipo di prodotto non proprio facile a trovarsi in giro e soprattutto da parte di chi - magari - non lo sarebbe andato subito a spifferare in giro. Intanto avevo conosciuto tanta gente nuova che aveva bisogno del mio aiuto, ma che poteva anche darmene, magari fare uno scambio, bastava trovare la persona giusta, per fortuna che nel frattempo avevo anche iniziato a riconoscere di chi mi potevo fidare e di chi no.

Iniziai a guardarmi intorno in quella ben determinata prospettiva e dopo non molto capii che Luiz, con il quale aveva più volte conversato sull’argomento, era la persona che cercavo.

La guardia specializzata finse di credere che era tutto per sicurezza personale, ma poi mi chiese se poteva collaborare più attivamente al progetto. Io caddi dalle nuvole ma pur negando iniziai a pensarci, intanto Luiz mi addestrava e parlavamo spesso di vari argomenti, passando tempo insieme e condividendo alcune idee diventammo quasi amici. Uno strano tipo di amicizia.

In seguito mi sono stupito che Luiz Amaral Valdeno facesse parte di quell’organizzazione che aveva le mie stesse idee e quelle di Oda, dentro c’era anche IV, Indio Velho, amico e consigliere di Odair. IV che aveva  cambiato stile di vita, per noia forse, o per mancanza di donne, magari perché era sorta una nuova favela sulla sua collina, ma anche perché voleva farsi una specie di giustizia che anche secondo lui al mondo non esisteva ancora.

Le menti dell’associazione segreta erano sei quindi, oltre a Luiz, c’era Iraq, di cui ho già parlato, c’era Chantal, ex moglie di Oda e poi Charles, un sudafricano fuori di testa ma intelligente assai. Questi ultimi due erano quelli che portavano i soldi, o almeno la maggior parte, che poi non erano direttamente loro, piuttosto dei loro ricchi genitori, ma ne avevano in quantità e qualità. Gli altri finanziamenti li fornivamo tutti, nel limite delle nostre possibilità. Una cinquantina sparsi per il mondo i collaboratori.

In sintesi noi eravamo persone che volevano aiutare gli altri, insieme a noi stessi, abbiamo provato a fare del nostro meglio, almeno per sentirci meno stupidi e manipolati, ma abbiamo perso la capacità di credere che potesse bastare, che non si potesse e non si dovesse fare qualcosa di più.

La mia prima pistola fu una Glock, perché non aveva quasi per niente rinculo ed era facile da usare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo terrorismo di massa è la nuova minaccia nel nostro mondo oggi. È perpetrato da fanatici che sono improvvisamente indifferenti alla sacralità della vita umana, e sta alle democrazie di questo mondo il dovere di unirsi e di lottare insieme contro il terrorismo per sradicarlo completamente dalla nostra terra.

 

                                                     (Tony Blair)

 

 

Iraq

 

Da solo non avrei potuto far niente, se non altro perché non ho soldi e per fare quello che volevo fare ci vogliono i soldi, oltre che coraggio e determinazione.

Il sistema t’incatena al denaro e anche quando ti ribelli al sistema stesso, non per caso, quello ancora ti controlla, in qualche maniera, attraverso quei meccanismi di cui l’uomo è schiavo se non da sempre o quasi, è incredibile come è difficile fare qualcosa di differente.

Quando è morta mia madre, per un’infezione all’ospedale S.Marta, mi sono trovato pronto all’azione e Adailton mi ha portato qua da loro.

Tra di noi c’è anche IV, Indio Velho, un vecchio indio di quasi ottant’anni, una specie di filosofo tranquillo e incazzato allo stesso tempo, che ha vissuto come un eremita fino a non molto tempo fa. Direi che nella vita si cambia e parecchio, anche se dentro di noi siamo sempre gli stessi.

Una volta non capivo che cosa pretendevano fare i terroristi, per me erano solo dei matti da manicomio, anche se dal fuori forse è quello che tanti pensano di noi, ma per fortuna non tutti. Insomma poi ho capito che il mondo ti porta a certe scelte drastiche, non sono tutte inevitabili, ma solo possibili e logiche, credo che sia questione di temperamento.

Avete fatto caso che i terroristi ammazzano sempre innocenti che non hanno niente a che fare col problema che si vuole combattere? Luiz mi ha fatto notare che tante volte applicano il terrore per arrivare esattamente al contrario di quello che dicono. Spesso vogliono ottenere sdegno e reazioni del consenso pubblico, spostare il suffragio universale nella direzione desiderata. I terroristi veri dovrebbero agire diversamente: perché non colpire i potenti, invece, chi veramente ha le mani in pasta?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto.

(Dal film “Per un pugno di dollari”)

 

Luiz

 

Passiamo la vita intera a cercare di capire quello che ci circonda, leggendo, documentandoci sulle cose del mondo, fino al punto in cui ci rendiamo conto che abbiamo finalmente un’idea approssimativa e generale sufficiente. La gioventù ci ha già abbandonati da tempo e quel temperamento esplosivo di una volta è diventato assai più riflessivo, raggiunta e passata la cosiddetta mezza età e quella necessaria distanza che ci permette di vedere le cose con una invidiabile visione d’assieme, è vero che ora il tempo passa troppo rapidamente, è una caratteristica della vecchiaia. Ma ora non abbiamo più dubbi a rispetto di come funziona il mondo.

Chi difende gli altri impara - anche senza volerlo - il miglior sistema per farli fuori. Credo che la mia esperienza professionale sia stata utilissima al gruppo, ma ho dovuto studiare cose alle quali non avevo nemmeno mai pensato. Se ci si addentra in un campo qualsiasi si vede che la complicazione aumenta, ma i risultati sono direttamente proporzionali alla competenza, oltre che alla freddezza e alla determinazione, nel nostro caso.

Da qualche anno mi sono reso conto che si parla di terrorismo a sproposito, nel mondo, spesso sono gli stati stessi, spinti da grossi privilegiati alla ricerca di ulteriori vantaggi, che intraprendono il vero terrorismo, quello che non si vede ma che si sente sulla pelle di milioni di persone, quelli che hanno votato per certi politici che fanno esattamente il contrario di quello che dicono. In sostanza tutti vogliono i privilegi giacché ai diritti non ci crede più nessuno. Però questo significa prendersi quello che è degli altri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli ideali sono come la stella polare, sono irraggiungibili, ma indicano la retta via

(Anonimo)

 

 

Chantal

 

Se queste mie parole diventeranno pubbliche, un giorno, significherà che qualcosa è andato storto, che ci siamo sfasciati contro il muro dell’indifferenza, il che non è troppo difficile a immaginarsi. Oppure che siamo diventati eroi internazionali, piuttosto, questa è una guerriglia a tutto campo e ogni cosa può accadere, noi non siamo certo qui per la gloria.

Il Brasile è il luogo ideale per nascondersi, da sempre, lo abbiamo scelto come sede. Il termine terrorista è sempre stato usato a sproposito, ma noi siamo dei veri terroristi, alla fine e/o finalmente. La favela è il luogo dove l’ingiustizia sociale è più evidente, non ci ho mai abitato, ma il nostro movimento si può dire che sia nato in una favela brasiliana, perché è proprio lì che la gente può comprendere al volo l’ipocrisia dell’epoca moderna, della civiltà occidentale, di un mondo dove le cose brutte si nascondono e quelle apparentemente belle si sbandierano.

Spesso è proprio la rabbia che ci viene fuori prepotente, ma ci hanno insegnato che bisogna contenersi, perdere il controllo non serve a niente e su questo siamo d’accordo.

Bisogna sfogarsi però, sennò s’impazzisce, quindi ho capito un’altra cosa, che la rabbia si può controllare e anche sfogare, basta non perdere la visione d’assieme, un disegno generale con una prospettiva razionale, un obbiettivo anche pazzo da raggiungere. Non so perché ma sento il bisogno di giustificarmi, eppure so che chi ci stima non ne ha bisogno, che a chi ci odia le mie spiegazioni non serviranno certo a cambiare idea. Forse ho solo bisogno di convincere me stessa, chi lo sa?

Ho conosciuto Charles all’aeroporto di Londra, da tassista incontro quasi solo e sempre gente che non rivedrò mai più, ma con lui ci siamo trovati subito bene, proprio sulle idee spicce e fondamentali, quelle che sono alla base per una ribellione ben calcolata, studiata nei particolari.

La nostra rabbia contro il mondo, la società, la politica, le banche, le multinazionali, il WTO e via discorrendo, quella rabbia fredda e controllata ha deciso per noi, in fondo e i soldi di Charles ce lo hanno permesso, o meglio, quelli di suo padre, oltre a quelli dei miei, che non sono pochi, tutti collaboriamo nel limite dei mezzi che abbiamo a disposizione.

Purtroppo nella storia del mondo di grandi uomini ce ne sono sempre stati pochi, non  sto parlando di ciccioni, che quelli sono numerosi. Un grande uomo era il mio ex marito Odair, piuttosto magro, un altro è stato Ghandi, secco come un chiodo.

Un’ironia che il primo pratico, ma anche simbolico, atto del nostro sodalizio è stata l’esecuzione dei capi dei tre comandi dei trafficanti di Rio de Janeiro, che avevano ammazzato Oda, mentre ci preparavamo ancora a entrare in azione.

Il bandito è un traditore naturale, ogni sottocapo vuole diventare capo e così via, è stato relativamente facile e a buon mercato. Oda ci mancherà e non solo a noi, il mondo ha bisogno di gente come lui.

Dopo ecco il deputato brasiliano Sandro Vaia, suggerito e poi documentato da Iraq e Adailton, scappato negli USA dopo che uno dei suoi grattacieli, costruiti con sabbia di mare e materiale scadente era caduto e la gente superstite, oltre alla vita dei familiari, aveva perso anche la sua casa senza speranza di potersela vedere risarcita.

Non era stato difficile assoldare un professionista e metterlo sulle tracce dello schifoso. Naturalmente poi iniziammo anche a fare la propaganda sui giornali e su internet, chiamammo il nostro gruppo la Fine della Pazienza. Noi naturalmente miravamo molto più in alto, perché Vaia era un pesce piccolo, era stato cassato dal parlamento e se ne era dovuto andare dal Brasile, era solo un simbolo del passato, anche se piuttosto recente.

Il prossimo passo era qualcuno di molto più importante, molto più attuale, ma già passato oltre il suo periodo d’oro di danni insistiti al suo paese e di ricchezza disonesta, l’ex presidente del consiglio italiano Gino Bottaini. Figurarsi che dopo essere stato condannato per corruzione, concussione, abusi di potere, vari scandali sessuali e non, dopo aver tenuto sotto scacco l’Italia per quasi venti anni, dopo essere stato mandato via dal parlamento, continuava sottobanco a dirigere l’Italia, aveva ancora diritto al vitalizio e alla scorta pagata dai contribuenti, che invece lo avrebbero volentieri fatto a pezzettini. Tutto grazie all’appoggio di quell’altra parte del paese, che lucrava con la disfatta di quella che chiamavano ancora patria.

Intendiamoci: la nostra idea era piuttosto internazionale, ci tenevamo a chiarirlo nei nostri comunicati, volevamo e vogliamo colpire duro ovunque ci fosse del marcio a grandi livelli e c’era l’imbarazzo della scelta, bastava guardarsi intorno.

Naturalmente uno dei nostri punti forti è avere un basista o addirittura gruppi che abbiano interesse contrari alla nostra futura vittima, non necessariamente per amore della libertà, ma a volte solo per prendere il suo posto. Per questo non dobbiamo mai rivelarci o aprire il nostro gioco, con nessuno.

La corruzione era il modus operandi di Gino e noi riuscimmo a farlo spiaccicare al suolo dopo una caduta da venti piani, con i suoi stessi metodi, cioè grazie a uno dei suoi uomini della sicurezza, che avremmo pagato bene, ma riscosse solo la metà, cioè l’acconto, perché fu massacrato dai suoi colleghi.

Industriale di armi, il padre di Charles sarebbe stato un uomo da colpire come tanti altri, ma lui lo voleva fare in maniera intelligente, senza ammazzarlo o rovinarlo, come certo meritava, piuttosto eliminando, grazie ai suoi soldi, quelli come lui.

Il prossimo nome era Joachin Whitebread.

"Per più di un secolo, gli estremisti ideologici ai due lati opposti dello spettro politico hanno colto al volo incidenti ben pubblicizzati per attaccare la mia famiglia, per l'influenza eccessiva che sostengono noi maneggiamo sulle istituzioni politiche ed economiche americane. Alcuni credono che facciamo parte di una cabala segreta che lavora contro l'interesse anche degli Stati Uniti, oltre a quelli di tutti gli altri paesi, definendo me e la mia famiglia come internazionalisti e di cospirare con altri nel mondo per costruire una struttura politica ed economica globale più integrata. Se questa è l'accusa, mi dichiaro colpevole, e sono orgoglioso di esserlo ".

Ecco cosa ha avuto la faccia tosta di dire in un’intervista recente. La moneta unica, magari i microchip in un secondo momento, sono gli obbiettivi, in verità e tutto questo orchestrato a forza di crisi globali, al costo di tante vite distrutte di persone economicamente insignificanti.

Una volta dei falsi terroristi italiani dicevano colpirne uno per educarne cento, qui la dimensione è molto maggiore, la ripercussione sarebbe stata una Tsunami, se ci fossimo riusciti. Certo, ma non era facile, riuscire a raggiungere uno che da sempre è stato oggetto di odio, aveva una notevole esperienza nel difendersi, mentre attaccava il mondo con delle altre armi più ipocrite e nascoste, gestendo il consenso insieme ad altri figli di puttana del genere.

Dopo Bottaini e alcune altre teste parziali e fottute dall’avidità, la stampa di tutto il mondo si era accanita contro di noi, lo stesso Milo Mörbach, già nella nostra lista, acerrimo nemico di Gino, ma molto più ricco e potente, proprietario di testate giornalistiche e di reti televisive in lingua inglese tra le più importanti e numerose del mondo.

Charles dice spesso:

“Ora tutte le merde più importanti stanno pensando che potrebbe toccare a loro, chi lo sa, magari la prossima volta, i nostri comunicati sono vaghi ma precisi, e noi andiamo in crescendo.”

Whitebread bisognava colpirlo nel suo relax quando non ci pensava neanche, infiltrare un uomo trai suoi era possibile, ma ci voleva tempo, pensammo allora al vecchio e caro fucile col cannocchiale, ma la mongolfiera non andava bene, la sua villa era circondata da un parco, c’erano troppi alberi, la vegetazione era fitta. Il banchiere aveva una specie di castello finto antico, nel Vermont, faceva spesso passeggiate nel parco, magari parlando col cellulare tutto il tempo.

A Charles allora venne l’idea dell’esplosivo dentro il cellulare, ce ne entrava poco, se usava il vivavoce non andava bene, doveva scoppiare mentre lo teneva accostato all’orecchio, per farlo senza uccidere altre persone vicine era necessario vederlo e il parco era l’ideale, anche se tra un ramo e l’altro. Riuscimmo ad arrivarci attraverso la cameriera, ce lo fece avere di notte, lui lo lasciava sempre nel suo studio, in un cassetto chiuso a chiave. Col cannocchiale lo seguimmo a stento finché iniziando una conversazione tra le tante, la testa gli esplose in modo assai spettacolare, anche se purtroppo non si poté filmare. I suoi uomini cercarono il punto da dove fosse partita la fucilata ma non lo trovarono, perché non esisteva, c’era solo un potente telecomando.

Ci fermammo per qualche mese, anche perché il nostro uomo che aveva ucciso Vaia aveva venduto la sua intervista ai giornali e ci venne paura che potessero risalire a noi.

Meno male che l’avevamo contattato per internet e tra noi c’erano due hacker formidabili, gente che aveva le nostre stesse idee e che ora faceva parte del nostro staff in pianta stabile.

Ora ci stiamo preparando per colpire a livello ambientalistico quelli che non accettano di dare limiti all’inquinamento, l’inesorabile distruzione delle condizioni di vita sulla terra è un aspetto determinante, ormai allacciato e mischiato con altre magagne politiche a livello internazionale.

Insomma le rivoluzioni ci sono anche state al mondo, e pure spesso, anche se meno di quante avrebbero dovuto essercene, e comunque sono servite come simboli magari anche notevoli, ma di poca durata, perché chi prendeva il potere poi si comportava ugualmente se non peggio, un esempio recente è stata la Primavera Araba. Comunque le rivolte riuscivano a provocare del disturbo, dei costi e allora i potenti sono corsi ai ripari.  Ora c’è una rete di menzogne impenetrabile che manipola tutto e tutti, in maniera sistematica, il consenso viene venduto e comprato come una merce qualsiasi, ma sempre più preziosa.

E non dimentichiamoci, anche se i professionisti lo disdegnano, che è difficile sfuggire a un buon cecchino armato di un moderno fucile col cannocchiale e computer integrato; gli americani ne hanno inventati e realizzati di quelli che calcolano anche l’incidenza del vento. Come cazzo fanno le guardie del corpo a proteggere questi potentissimi coglioni, se si possono ammazzare anche da distanze oltre il chilometro?

Una delle nostre vittime è stata giustiziata da un pallone aerostatico, tutti l’avevano visto e salutato con la mano, ma nessuno ha pensato che i colpi erano partiti proprio da lì, ci sono diventati matti e non c’hanno capito una beneamata.

Non è anche un’ironia che i soldi di Charles presi dai genitori, siano proprio quelli a castigare gente come loro, che fabbricano armi e le vendono in tutto il mondo?

Alla fine tra quello forte e quello intelligente chi vince? Per molto tempo ho pensato che purtroppo vinceva quello più forte, ora penso invece che la spunti quello più intelligente, perché la sua mente gli ha permesso di capire che non è astuto come sembra vivere sulle disgrazie degli altri e che doveva trasformarsi e diventare anche forte. Insomma lo diceva pure Darwin, chi sopravvive sarà colui che saprà adattarsi meglio alle situazioni.

Magari uccidere le teste di cazzo non serve a niente, perché poi ne arrivano altre, a volte sono famiglie con tradizioni secolari, come nel caso di Whitebread. Forse è una cosa solo simbolica, ma almeno ci si sfoga un po’, non ci si sente impotenti, non si sta colle mani in mano.

Chissà che poi invece facciamo nascere una moda, che una volta tanto possa servire a qualcosa di concreto e gli schifosi associati capiscano finalmente che non vale più la pena di rischiare.

Magari a forza di calci in culo lo capiscono che la prepotenza è anche un metodo efficace, sì, ma solo finché non trovano qualcuno più prepotente di loro.

Se la natura ha fatto sviluppare l’umanità in questo senso, la Fine della Pazienza è ancora solo un virus, spero pericoloso però come quel casuale asteroide che a un certo punto, per caso o per destino scritto da chissà chi, mise fine al dominio di 160 milioni di anni dei dinosauri sulla terra.

 

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