Thursday, January 21, 2021

GIALLI MA NON TROPPO


 

Capitolo 1

 

Non voglio guarire dal mio romanticismo sfrenato, per me non è una malattia.  Nessuno crederebbe che in questo bosco di cellulosa lavorata ci sento ancora il gorgogliare del ruscelletto e lo stormire delle foglie, il gracidare di rane non troppo lontane e il cinguettare degli uccelli a varie distanze, il boccheggiare dei pesci appena punteggiato dalle bollicine.

La libreria è vuota e i piccoli rumori della natura sono appena cammuffati dal provvisorio silenzio. Quando entra la gente poi arriva alle mie orecchie tutto il resto del contenuto di quelle pagine, non sempre gradevole, un po' come la vita, la natura, il mondo, la gente.

Uno alla volta, arrivano personaggi da teatro, o anche da cinema, ma io preferirei l'epoca del muto. Ci sono quelli che collezionano, quelli che vanno dietro a tutto di uno stesso autore, per imbecillotto che sia, tipo Sidney Sheldon o Patricia Cornwell. C’era uno che voleva i libri grossi, bastava che fossero enormi, del contenuto non gliene importava niente. Qualcuno ama il libro come oggetto, forse anche simbolico di cultura e di saggezza, oltre il suo effettivo messaggio. Un signore piuttosto eccentrico comprò varie e costose copie di uno stesso celebrato saggio storico, quando gliene chiesi il perché disse che la carta delle pagine era differente.

Vendo libri nuovi e usati, ma succede abbastanza spesso che dentro una cantina o in  una soffitta troviamo volumi invecchiati senza mai essere stati aperti da nessuno.

Il libro per me è per chi non ha fretta. Il cosiddetto mondo civilizzato, assai più incivile di tutti gli altri a bordo della terra, ha la tendenza contraria, di fare tutto alla svelta, e più cose allo stesso tempo. Il libro no, al massimo una musica a basso volume, meglio se classica, o strumentale, il crepitare della legna di un caminetto acceso.

Scrivo anche io, a tempo perso, che poi solo per me e pochi altri alla fine risulta guadagnato, e mi do’ da fare all’interno della letteratura, anche se quella, la letteratura, non mi ha ancora definitivamente accettato. Non so bene cosa devo fare, ma non sto a perdere tempo a pensarci, lo faccio e basta, con saltuaria determinazione e ragionevole continuità. Mi sarebbe piaciuto essere un editore, per poterlo fare in maniera diversa da quelli che ci sono in giro, specialmente da quelli grandi, ma c’è da lavorare troppo e soprattutto ci vogliono dei soldi che non ho. Comunque sia cerco agganci, gente che ama solo parlarne, se possibile fuori dall’internet ed ecco che circa cinque anni fa scoprii un gruppo interessante, che tutti mi dicevano fossero solo degli snob, oppure intellettuali o magari, peggio ancora, tutte e due le cose insieme.

Bene, non era vero, ma non lo sapevo ancora e comunque riuscii a farmi presentare da Tommaso Macchi, il quale aveva un negozio di articoli sportivi in paese e che scriveva qualche bell’articolino di opinione, ogni tanto, sul giornale Eco di Tornio. Opinioni e articoli che mi garbavano, lui stesso mi stava simpatico, lo conoscevo poco ma quel poco mi bastava.

Non era uno che parlava tanto per parlare, per cominciare mi avvisò che bisognava farsi due orette e mezza di mulattiera a piedi, per partecipare alle cosiddette riunioni, cioè a casa di Qiang Garfagnoli, cittadino italiano ma pur anche cinese, non ci si arrivava con la macchina e chi ci andava, di solito, ci restava anche a dormire. Non so se mi spiego, era una roba eccentrica e a me, come a lui, questa era una parte che ci piaceva, almeno in teoria.

Loro, i letterati del gruppo, la chiamavano Cime Tempestose, vale a dire una piccola fortezza di pietra col tetto di lastre di lavagna, in mezzo alle montagne pistoiesi, intorno solo discese e salite, erba, rocce e alberi. Senza energia elettrica, niente internet e il cellulare prendeva solo quando c'erano le condizioni atmosferiche giuste, che però non si era capito bene quali erano, se e quando si verificassero, ma era ancora tutto da dimostrare.

Di un colore giallo-olivastro, simile al padrone di casa, c'era anche Dietmar Nguyen, di origine vietnamita per parte di padre, madre austriaca, e trattavasi di uomo di marketing, anche se a vederlo non sembrava possibile, ma l’internet permette questi piccoli miracoli, le persone che ci stanno dietro si vedono solo se ci mettono fotografie o video, ma non sempre è richiesto.

Ho accennato al colore della loro pelle, non perché in me provocasse alcun pregiudizio, ma giacché il nome del club era dovuto a loro, i due fondatori, mi era necessario specificarlo. Qiang pure era sangue misto, suo padre era di Collodi. Qiang Garfagnoli è un nome in sé già un poco sbagliato, perché i cinesi mettono il nome proprio della persona dopo il cognome, però trovandoci noi attualmente in Italia come a quei tempi, il nome ci si dovrebbe piazzare piuttosto prima.

Tommaso mi spiegò che loro lassù c’avevano anche un bel doppio senso, giacché in determinata sede si metteva in dubbio l'efficacia della consueta struttura dei gialli, dei libri e dei film, e non degli orientali di quel colore. Insomma si cercava di rivoluzionarla e di variarla un po', in maniera costruttiva e alternativa. Ecco il nome Gialli ma non troppo.

In buona sostanza si leggevano e si discutevano racconti e romanzi gialli di autori famosi, ma soprattutto e in abbondanza quelli scritti dai membri dell'associazione. Si passava al vaglio lo scheletro, ma anche la ciccia, di tale determinata letteratura, rappresentata dalla credibilità, eventuale succulento macinato di notizie varie e in ultima analisi l'obbligatorietà o meno che fossero gradevoli al gusto della altrui lettura.

Per arrivare a Cime Tempestose il cammino è tortuoso, dopo essere usciti da Tornio, si passa attraverso due paesini abbandonati e davanti alla prima di quattro chiesine isolate si lascia la macchina, a meno che non si abbia una jeep, nel qual caso si dovrà lasciare lo stesso, ma solo alla terza chiesetta, dipende anche dal tempo, cioè se piove è una tragedia, non so se mi spiego, magari ancora no, ma cercherò di farlo compiutamente man mano che scrivo.

Confesso che all'inizio questi dettagli romantici mi erano sfuggiti, forse perché mi ero sorbito quei chilometri di salita nel fango e sotto la pioggia. Una volta lassù mi accolsero bene assai, con qualche pacca robusta ma amichevole sulla schiena e un profumato corroborante a base di rum, miele e spezie rigorosamente segrete. Si registrava l'assenza di uno dei membri ufficiali e di quell'ipocrisia tipica delle riunioni a cui ho spesso assistito, senza nessuno che dovesse dimostrare di essere la persona più autorevole, o il più simpatico, il più colto e intelligente e così via.

Fu Leonardo Teixeira, professore universitario italo-brasiliano e di colore, a leggere il primo manoscritto. Fatte le presentazioni d'uopo, seduti di fronte al caminetto acceso, sorseggiando vino locale apparentemente leggero ma traditore, notai un'atmosfera assai informale e che Leo valeva più come scrittore che come lettore in pubblico. Insomma ci stavamo quasi addormentando tutti, per fortuna il contenuto del racconto era piuttosto vivace e frizzante, insomma catturava la nostra attenzione, non so se mi spiego, probabilmente no.

In seguito, a Tornio, in piazzetta, lo sentii parlare al cellulare in portoghese-brasileiro, la velocità era sempre quella, ma forse quella che doleva di più era la cantilena, la sua ripetizione, la supposta mancanza d’espressione. Ma mi sbagliavo, era solo diversa da quella italiana.

 

 

1)LA VITA È UNA GUERRA FREDDA – Leonardo Teixeira

 

Da qualche tempo mi appassiona la lettura del manuale del colonnellissimo Feliciano Alves Da Paz, detto anche il Sun Tzu brasiliano, il quale però si vanta di non aver mai combattuto, almeno nella maniera comunemente intesa.

La vita è una guerra fredda, ci spiega il colonnello, se vogliamo essere efficaci, le nostre regole personali saranno dettate da un principio fondamentale: mantenere il mistero il più possibile e con esso, di conseguenza, la pace intorno a noi.

Da Paz (che in portoghese significa Della Pace,) dichiara anche cose a prima vista divertenti, per un lettore distratto o attratto più che altro dalla curiosità, cose che però spesso hanno un profondo senso, almeno per me, considerata la mia storia personale.

Non fa che confermare le mie idee sulla routine, m’insegna a comportarmi in ogni tipo di situazione, dice che la società è una convenzione idiota, ma inevitabile, che si basa su regole profondamente stupide, spesso niente affatto piacevoli, né logiche, né utili.

Per esempio quella di dire la verità, di pagare le tasse, in buona sostanza di non tradire principi non scelti da noi, ma impostici da sempre e poi continuamente traditi dalla società stessa, dalle persone che la dirigono.

Il colonnello non ne fa un mistero: il mistero è la base della nostra vita, senza di quello anche la speranza è fottuta.

“Non fare capire tutto di te stesso a nessuno, anche tua moglie più ti considererà misterioso e più si attaccherà a te, ovviamente deve capire i tuoi bisogni naturali, ma mai il principio su cui sono fondati, oltre il tuo essere umano, sotto ogni tuo istinto.”

Non me ne vergogno: ho sempre avuto l’abitudine di non dire a nessuno il mestiere che facevo, perché alla gente sapere che vive a lato di un segugio professionale, non farebbe piacere. Per la società sono stato un rappresentante di medicinali, mestiere che ora sta cadendo in disuso con l’internet e i nuovi tipi di distribuzione, per fortuna che io mi sono ritirato. Mia moglie ed i miei figli generosamente si accontentano di una mezza verità, non sanno che ho lavorato a livelli internazionali e che per stare qui ora ho dovuto prendere le mie precauzioni. Ho diversi amici, tutti di lunga data, ma non vivono a S.Paulo. Ci scriviamo spesso e-mail, facciamo lunghe video conferenze con Skype, ma non parliamo mai di lavoro o di cose del passato. Lateralmente direi che con i miei vicini di casa non so ancora se ho avuto fortuna o no, anche se a destra ho un uomo di grande compagnia, a parlare con lui si impara e ci si diverte, si manifesta nella sua umiltà, nel non citare mai nessun pensatore, senza darsi importanza. Ho capito dalle sue frasi, però, che conosce il libro del colonnello. È molto controllato nelle sue mosse, non dice mai una frase d’impulso, questo mi ha confermato quello che pensavo prima. La sua simpatia e affabilità non si esprimono col consueto ipocrita sorriso, ma nel dire cose da scompisciarsi in perfetta serietà.

Chi sta leggendo ora penserà che però la sua vita non sarà così limpida, visto che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, oppure tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino.

Il primo riflesso dell’essere umano è trovare il difetto in tutto e il secondo è cercare incessantemente l’improbabile perfezione, riuscendo così a rendere matematicamente frustrata la propria esistenza. Il compito di ogni buona teoria di vita, invece, dovrebbe essere trovare la maniera migliore d’interpretare la pratica del giorno per giorno, per riuscire ad attraversarla nel modo più efficace, magari con dentro perfino delle gioie e anche qualche soddisfazione. Insomma stare bene e far star bene chi ci è vicino, secondo anche le illuminate parole del colonnello Da Paz. Terza cosa, ecco il materialismo: l’interlocutore chiederà che lavoro fa, quarta se  è sposato.

Evaristo è vedovo, sua moglie è morta in un incidente insieme a sua figlia, travolti dal solito ubriaco che non si accontentava di distruggere la sua vita e ha voluto, senza coscientemente volerlo, trascinare via qualcun altro. Tagliando corto, Evaristo era impiegato alle poste, ma ha cambiato lavoro, ora uccide la gente a pagamento. Ho ascoltato per caso, ma non troppo, un paio di sue conversazioni al cellulare fatte di caratteristiche mezze frasi, poi ho notato che, ogni volta che se ne andava, la televisione annunciava morti ammazzati, personaggi di spicco, in genere, negli stati di S.Paulo, Minas Gerais, Rio de Janeiro, Bahia, Distretto Federale e Goiàs. Lui non sa che io so, approfitto di questo vantaggio per cercare di capirne il meccanismo. La sua passata carriera militare, interrotta dal matrimonio, deve avergli dato i fondamenti necessari, la freddezza deve avercela sempre avuta, la disperazione acquisita poi deve aver fatto il resto.

L’interlocutore ideale chiederà, a questo punto, se Evaristo sta bene, di cervello, risponderò senz’altro di sì, che è lucido e determinato, sta accettando il suo destino in maniera spensierata e mi chiedo come fa. Forse una compensazione. Essendo io sposato coi figli adulti e già avviati per la loro vita, con mia moglie mi dedico al giardinaggio e a qualche piccola gita, buone letture in poltrona, dentro e fuori casa. Da qualche tempo spio anche Evaristo Bottecchia Guitierrez, cercando di non farmi vedere da lui e nemmeno da mia moglie. A volte, quando è in casa, la sera ci fermiamo a parlare sotto il suo portico o il mio, ma non troppo spesso. Si capisce: sia io che il colonnello, magari anche Evaristo, pensiamo che tutti i piaceri cessano di essere tali quando diventano regolari abitudini. Il mio vicino poi sparisce per giorni, abbastanza spesso, anche se non gli ho mai chiesto dove va, lui ha spiegato più volte che è per visita parenti. Però io so che non ne ha, le mie fonti non permettono dubbi. Il colonnello Alves dice che quando uno si è preparato una scusa plausibile, poi ci rimane male se nessuno gli chiede niente, allora non resiste e si giustifica.

Prima però stavo dicendo che non so se ho avuto fortuna coi miei vicini di casa. Non lo so. Dal lato destro Evaristo mi piace, l’ho già detto, il suo mestiere non mi disturba più di tanto, dato il mio passato e la mentalità che ne è derivata. Sul lato sinistro c’è una coppia di trentenni, con una figlia piccola, brava gente, abbastanza convenzionale, non disturbano, se non fossero i loro cani che abbaiano un po’ troppo, ma mi ci sono già abituato e mia moglie Adinha anche. Davanti a noi però c’è una madame piena di siliconi che vive da sola e di notte si ubriaca e poi mette sempre la musica alta, da’ spesso feste che terminano al mattino senza far dormire nessuno. Pur ricevendo le proteste di tutti continua imperterrita, approfittando della legge brasiliana che dal punto di vista della quiete pubblica non protegge il cittadino e favorisce il sopruso. Non contenta ci sfida e ci prende anche in giro con dei sorrisini che cantano una vittoria che secondo me non ha ancora raggiunto. Anche Evaristo è d’accordo con me, ha ammesso addirittura che lui sarebbe disposto a dare una lezione a quella donna impossibile. Appena entrati nell’argomento ci siamo trovati a domandarci materialmente come. Ammazzarla non valeva la pena, abbiamo pensato tutti e due, senza dire niente, non perché non se lo meriti, oltretutto sarebbe anche una liberazione per lei stessa, ma sarebbe una rottura di scatole per tutti.

Mi sono convinto che anche Evaristo sappia chi sono io, perché nello svolgersi del nostro piano mi sono accorto che dava per scontate alcune determinate cose, magari sa anche che io so di lui. Non è da escludersi.

Alves Da Paz dice sempre che uno scambio di silenzi è possibile e auspicabile, se e quando non si hanno interessi contrari. Nel nostro caso sono piuttosto comuni, diva plastificata a parte, c’è la nostra saltuaria ma assai piacevole conversazione sotto i rispettivi portici e ci sono i taciti ma preziosi insegnamenti del colonnello Feliciano.

Abbiamo escogitato di nascondere in camera da letto, della cosiddetta signora, degli altoparlanti speciali a distanza, senza filo e piccolissimi, ma anche assai potenti, collegati a un amplificatore a 400 watt nel mio garage. Non sapevamo dove nasconderli, ma Evaristo, che si è sobbarcato volentieri l’entrata e l’ispezione nella casa, ha detto che la testiera del letto, un finto relitto di mare, si è rivelata ideale. La massiccia e scolorita struttura di legno, pacchiana e gigantesca, è bucherellata e piena di rientranze e cavità che a volerle esaminare tutte ci vorrebbe del tempo. Il grande vantaggio oltre a questo è che assai vicina alle orecchie della nostra bellezza artificiale. Di notte, a ore differenti, con un timer, la facciamo saltare su con il Requiem di Verdi, poi musiche dei Popol Vuh dal film Nosferatu e Carmina Burana di Orff ad altissimo volume. Solo per pochi secondi, a distanza di qualche ora, in maniera che poi, tornato il silenzio, lei pensi di essere impazzita, ubriaca di sicuro lo è sempre, insomma crederà di esserselo immaginato.

Il colonnello Feliciano Alves Da Paz assicura che chi abbia sofferto di tali torture musicali poi raramente ascolterà di nuovo, con piacere, la musica ad alto volume.

Abbiamo continuato il nostro trattamento, per poco più di due settimane, il risultato è che lei è scomparsa, niente più musica, niente feste. Abbiamo pensato che fosse morta d’infarto, chi lo sa, di notte Evaristo è andato a controllare e/o a riprendersi gli altoparlanti, la casa gli è sembrata abbandonata.

Dopo un mese ci si sono stabiliti i nuovi vicini, una famiglia, abbiamo saputo che avevano comprato a un buon prezzo. Noi abbiamo festeggiato il successo dell’operazione, forse proprio da quel momento è nata la nostra amicizia.

Un giorno però alla televisione mi sono trovato davanti la faccia minacciosa dell’ex vicina, in pochi mesi era diventata grassissima. Una facciona senza trucco, un corpaccione enorme, vestita con un camicione lungo viola di tipo indiano, invece dei pantaloni di pelle e delle giacche firmate. Ho chiamato mia moglie ed Evaristo:

“Ho strappato alle forze del male ancora un altro giorno, un giorno in più per poter vivere ed apprezzare questa vita meravigliosa, fratelli unitevi a me e ringraziamo il nostro Dio per averci donato ancora una porzione di vita...”

Ci ha copiato Carmina Burana come sottofondo, che più che un celestiale paradiso dipinge un inferno a forti tinte, cogli occhi spalancati e deliranti guardava verso di noi e snocciolava le regole della sua nuova religione, I Figli del Nuovo Giorno. Gente che non usa il computer, non guarda la televisione, non beve alcolici, non mangia carne, non fuma, non usa droghe, non fa un infinità di cose che prima dovevano essere parte integrante della sua giornata.

Insomma gente che prega ogni giorno per averne un altro, anche uno solo per continuare a vivere, come se fosse una sfida all’universo, alle leggi della natura e della fisica.

Su una rivista mia moglie ha trovato un’intervista interessante, dove lei dice di aver avuto l’illuminazione attraverso la musica, di notte, le ha fatto capire che stava sbagliando, che non era così che poteva risolvere i suoi problemi, che nessuno può farlo, al mondo. Allora ha capito che doveva aiutare gli altri, quelli come lei e per farlo meglio, per finanziare le sue illuminate idee, entrare nella sua religione costava dei bei soldoni.

Il colonnello Da Paz garantisce che non esiste una specie così intelligente e al tempo stesso tanto idiota come la specie umana, disposta a inventarsi ogni giorno una nuova giustificazione dei propri atti, invece di cercare di capire qualcosa, magari di migliorare un po’. Anche se l’uomo è la forma intermedia tra lo spirito e la materia, come ha detto qualcuno, non riusciremo mai a sormontare il nostro limite. Il mistero fa parte di noi, dice il colonnello, quella pazzia che ci fa fare un passo avanti e due indietro e lui aggiunge anche: meno male che c’è.

Evaristo e io non eravamo d’accordo su questo ultimo punto, allora mia moglie ha dichiarato che, ogni tanto, anche noi saggi antropologi dovremmo guardarci un po’ allo specchio, che magari non ci farebbe male. Poi, quando se ne è andata in cucina, il Bottecchia-Guitierrez mi ha confidato che secondo lui mia moglie sa tutto di noi due. Il che magari implicherebbe che lui sappia tutto di me e che io sia al corrente di tutto quello che riguarda lui.

 

Dopo il meritato applauso, Qiang intervenne per dichiarare distrattamente che l'autore non doveva per forza leggere le proprie creazioni, si poteva anche delegare qualcun altro, magari uno più sveglio. Ci fu un soffocato boato di approvazione e Leo sorrise bonariamente, pensai che non doveva essere la prima volta che glielo dicevano. Mi chiesero poi se ci fosse qualche punto debole nel racconto. Dopo aver detto che mi era piaciuto assai, spiegai diffusamente perché, ma si notava che erano molto più ansiosi di sentirmi dire le note dolenti, se ce ne erano, così dissi:

"Beh, secondo me, prima di tutto questo tecnicamente non è un giallo, ma a quanto ho capito credo che sia una cosa fatta di proposito e passo oltre: è il lavoro del primo personaggio, il protagonista principale e narratore della storia, che è poco chiaro. Che tipo di segugio professionale e internazionale era? Perché la gente non poteva sapere quello che faceva?"

Leonardo mi rispose con argomentazioni assai ben concatenate e logiche, sulla base del mistero che nell'intero racconto abilmente usava come giustificazione di eventuali incongruenze. Parlava un italiano senza eccessive inflessioni dialettali, non faceva errori, ma le pause tra una parola e l'altra erano lunghissime, ci si dimenticava anche quello che si stava dicendo, quello che stavamo facendo, perché ci trovavamo lì e così via.

In mio onore l’altro brasiliano in pensione,  Marcos Pontes volle ripetere allora i fondamenti del club Gialli Ma Non Troppo, che erano il trovare vie di scampo alla trama eccessivamente rigida del giallo, per cui c'è un atto di delinquenza, poi qualcuno indaga e si trova sempre il colpevole, alla fine.

Confermò poi che il racconto di Leo rispettava questo strano contrordine, per loro fondamentale. Gli domandò poi perché ambientarlo in Brasile, l’altro disse che avrebbe potuto essere anche in un altro posto, giacché si parlava di una società moderna e quindi simile ovunque,  ma lo aveva scelto per via dei matadores a pagamento, più comuni in Brasile, più famosi ed ecomomici che in tante altre nazioni.

Il Pontes, prima ne rimase moralmente rattristato, eppure tecnicamente soddisfatto e quindi mi chiese se quel testo fosse o meno di piacevole lettura, se era in definitiva credibile e se lo avrei consigliato a un amico. Risposi senz'altro di sì, a tutti gli interrogativi e i membri votarono, ottenendo lo stesso mio risultato d'opinione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 2

 

Si lessero sei racconti in tutto, il membro Iuri ne aveva scritti due corti e Qiang non ne aveva nessuno pronto. Un’altra regola era quella di non poter leggere giammai opere incompiute, in passato lo avevano permesso, ora non più. Marcos mi spiegò che purtroppo si tendeva a dare troppi e copiosi consigli agli autori, una volta che ci si trovava nei panni dei critici. Stranamente le stessissime persone poi, a turno, diventavano rigidissimi autori, che non volevano accettare cambiamenti o semplici suggerimenti da chicchessia. Questi comportamenti a confronto, più che umani e comprensibili, non permettevano però di levarci le gambe facilmente e i racconti non si terminavano mai, anzi se ne stilavano più versioni, che complicavano la vita del club stesso, oltre a quella di ogni autore e critico, se presi individualmente.

 

2)NEL SUD DEL BRASILE – Marcos Pontes

 

A Porto Alegre li chiamano Sebos, forse per via dell’unto di dita sudate sulle pagine, questi luoghi romantici dove si vendono libri di seconda, terza o quarta mano, a volte anche di quinta o sesta, rigorosamente mai di prima. Ci vado spesso quando sono in centro, ed era epoca di Carnevale quando trovai quel libro, in uno di questi negozi, ma quella fu una scoperta da segnare sul calendario. È vero che era un po’ rovinato, mancava la copertina, c’era un nome e cognome scritto a penna sulla prima pagina bianca, c’erano numerose macchie di misteriosa e differente materia e origine, perfino un pezzo di cibo, per quel che sembrava, indurito e verdastro a pagina 12. Però dall’incipit avevo capito subito che mi sarebbe piaciuto.

Mi succede ogni tanto di trovare dei libri che mi piacciono, poi mi ci affeziono, li rileggo e ci trovo anche delle cose nuove ogni volta che me li ripasso. Non è certo per il loro valore commerciale che li apprezzo, ma per il contenuto, per lo stile, per le atmosfere che ci scopro dentro che poi posso riviverle a comando, da solo, la sera a letto o in giardino, che ne so, davanti al caminetto acceso, come quel volumetto di poco più di 100 pagine, che lessi e rilessi a sazietà.

Il caso volle che, non più di una settimana dopo Luiz Martinho Casagrande, il mio socio, mi disse che il nome scritto sulla pagina del libro, corrispondeva a un vecchio di origine italiana, tale Sauro José Gastolfini, che gli avevano riferito risolvesse i casi più intricati, e senza muoversi dal suo giardino, in uno dei quali io mi trovavo impantanato proprio in quei giorni. Di casi, non di giardini.

Il portone era quasi caduto quando aveva aperto, ma lui non ci fece particolare caso, notai che era vestito di varie maglie, magliette, pigiami, calzoni della tuta, insomma a strati, tutta roba scolorita ma anche piuttosto profumata. Mi fece sedere sotto un albero enorme, su una sedia di plastica che un tempo doveva essere stata bianca, mi offrì una spremuta di arancio, che stava bevendo da una brocca finemente lavorata, forse di cristallo di Boemia, evidentemente l’avevo interrotto mentre era sprofondato in tali testi vecchi e ingialliti, mi pare che fossero in tedesco. Aveva i capelli cortissimi e la barba della stessa lunghezza, pensai che si tosasse tutto insieme, per praticità, come le pecore, magari una volta l’anno.

Mentre gli spiegavo il caso mi ascoltava assai attentamente e prendeva appunti su un taccuino, le lenti spesse gl’ingrandivano gli occhi in maniera suggestiva. Non parlò finché non ebbi esposto il mio problema. In fondo era solo per quello che lo cercavano, anche se piuttosto raramente, ma se la faccia di chi bussava alla sua vecchia porta non gli garbava non apriva nemmeno e i suoi cani ricominciavano automaticamente ad abbaiare in maniera impressionante e chiunque capiva che era meglio andarsene. Non parlava spesso con la gente, mi avevano avvisato, se avesse accettato di farlo era solo per simpatia, con gli altri, se e quando interrogato, era capace di rispondere a grugniti, al massimo sì o no.

 “Sono un poliziotto privato, ho un caso che non mi riesce di risolvere, mi hanno detto che lei aiuta chiunque, senza muoversi da qui e che non vuole compensi in denaro, ma accetta uova, galline, prosciutti, salami e verdura di vario tipo, lei conferma?”

“Sì, continui pure.”

“Io la pagherei in cose da mangiare che devo comunque comprare, quindi può scegliere.”

“Meraviglioso, è tanto tempo che non mangio lo speck e il formaggio parmigiano.”

“Non ci sono problemi.”

“E il pecorino toscano fresco, colla crosta pepata.”

“Giusto.”

“E il caso in questione?”

“Il caso in questione è questo qui...”

Gli spiegai per sommi capi quello che sapevo e ciò che volevo e lui mi disse di tornare con le prove che avevo e un riassunto registrato a voce, o scritto, di tutto il busillis, quando volevo. Cinque ore dopo tornai e lo trovai ansioso di vedere cosa gli avevo portato, alle sue richieste avevo aggiunto di mia iniziativa un secchiellino di mozzarella di bufala trasparente colle palline che nuotavano nel siero. Trasparente il secchiellino, non la mozzarella. Era notte e lui mi fece entrare nella casa di foratini senza intonaco, ben nascosta in mezzo agli alberi, là dentro però i mattoni non si vedevano più perché era foderata di libri su ogni parete. Notai che non c’erano sveglie o orologi in giro, ma vidi un computer acceso in una stanzina insonorizzata, colla porta e le pareti imbottite, là dentro c’era un letto e una comoda poltrona, ma noi ci accomodammo in quella che era una cucina-tinello-soggiorno che occupava il resto del pianterreno della casa, con un tavolo enorme e sei sedie, due poltrone vecchie ma comode, un grande televisore antiquato ma ben funzionante acceso senza volume, vari acquari con pesci di ogni tipo, il più grande faceva da divisorio tra i fornelli e la parte del tinello-sala.

José Sauro Gastolfini mi fece accomodare, dette un’occhiata meticolosa ai reperti, rimase assorto un minuto o due e disse che mi avrebbe richiamato lui. Mi accompagnò alla porta senza dire una parola e mi ritelefonò il giorno dopo informandomi che aveva risolto il caso, di portare un chilo di parmigiano, mezzo chilo di speck da tagliare e due secchielli di mozzarella grandi.

Sulla sola base della teoria aveva veramente trovato il colpevole materiale, la maniera di incastrarlo e vari tipi di prova, che - se non funzionavano tutte - una sola di quelle sarebbe bastata. Io ci rimasi di sasso, erano due settimane che ci stavo diventando matto e non riuscivo a credere che in nemmeno 24 ore lui aveva sgamato tutto e senza muoversi da casa sua.

Il Gastolfini scandiva ogni parola senza fretta e si esprimeva in un portoghese-brasiliano assai raffinato e colorito. Io ero ansioso di andarmene in quel momento, anche se poi lo sarei diventato di tornarci, ma ancora non lo sapevo, ero sbalordito e di conseguenza piuttosto confuso. Con la sua faccia impassibile, la pigrizia congenita e la rinuncia sistematica che apparivano al visitatore occasionale, per quanto riguardasse ogni forma di vita esterna al suo maniero di mattoni forati, là tra quei muri essenziali - invece - lui era il sapere, la profondità e la bellezza fors’anche, ma non nel modo che s’intende comunemente, oltre quegli alberi, quell’abbaiare furioso dei suoi cani.

Il Gastolfini viveva in Brasile ma non ci sarebbe stata differenza se non nel clima, se fosse stato in Libia o in Persia, in Australia o in Siberia, perché lui non usciva, non si muoveva dal suo luogo ideale di studio e meditazione e mi toccò ben presto di rivisitarlo, e mentre ci andavo, in macchina su quella collina limitrofa alla città di Porto Alegre, quartiere Vila Nova, mi accorsi che lo facevo volentieri, che lo avrei rivisto e ascoltato le sue interminabili dissertazioni con piacere, anzi con molto piacere.

La seconda volta c’era una donna molto più giovane di lui che mi aprì, disse che Sauro stava parlando al telefono, ma lei lo aveva chiamato Dino, accompagnando con un sorriso malandrino il gioco di parole. Doveva essere la sua fidanzata, per così dire, non mi avevano detto che ne aveva una. Lei vide che guardavo incuriosito i merli del rudimentale castello, fatti di foratini anche quelli, senza intonaco, ma perfettamente modellati e tagliati, prima non li avevo notati, sia per i rami degli alberi che nascondevano il maniero, che per l’oscurità, che per la mia confusione mentale.

“Quelli li ha fatti lui, sono ridicoli, così senza cemento sopra, una volta un rudimentale intonaco c’era, poi col tempo e il sole e l’acqua piovana è caduto, ma a lui piacciono, non so come. Dino ho rinunciato da tempo a capirlo, va preso così come viene, se e quando viene.”

Il Gastolfini arrivò vestito con un caffettano di stile arabo e un berretto nero con scritto sopra YES in un rosso slabbrato, come se fosse sangue fresco. Si sedette un po’ assorto nei suoi pensieri evidentemente fronzuti ma assai liberi, al lieve venticello del sud. Mi salutò, bevemmo il caffè che la ragazza ci portò e cominciai a spiegargli il caso, poi gli mostrai il rapporto scritto e le prove che avevo racimolato.

Anche stavolta risolse tutto in meno di 24 ore e il compenso fu un bottiglione di olio d’oliva extra-vergine italiano da 5 litri della ditta Capellini. Masticando i miei bocconi intanto io continuavo quel libro che forse anche suo malgrado mi sembrava sempre più misterioso e affascinante.

Io ero uno che viveva da solo e quindi leggevo mangiando, mi abbuffavo di fronte al computer, mantenevo in funzionamento le ganasce mentre guidavo la macchina, masticavo quando parlavo al telefono, guardavo la TV sgranocchiando. Insomma facevo sempre almeno due cose contemporaneamente e una era quasi sempre il mangiare.

Gli mostrai il libro in questione, disse che non lo conosceva e che non aveva nemmeno la pessima abitudine di scrivere il proprio nome sulle pagine dei libri, personalmente disprezzava persino chiunque leggesse mangiando, o che anche solo facesse due cose allo stesso tempo.

Sauro s’interessò molto al cibo rinvenuto a pagina 12.

Da quel momento in poi lo consultai spesso e volentieri. Il Gastolfini, protetto dai muri e dai cani, si metteva ogni giorno sotto il grande albero, di cui purtroppo non sapeva ancora il nome, ma stava facendo delle ricerche, e ci rimaneva, a scrivere, o a studiare. O a riflettere. In buona sintesi se c’era la naturale luce del giorno, se la sera gradevole e la notte non troppo ventosa, se non pioveva, era sempre seduto sotto quell’albero. O anche se non era troppo freddo. O se non era troppo caldo. Perché nel sud del Brasile, magari la sensazione termica era sgradevole, per via dell’azione combinata del vento e dell’umidità e allora il Gastolfini usava dei grandi cuscini colorati sotto il sedere e tra la schiena e lo schienale della sedia di plastica, si proteggeva con ripetuti strati di maglie e magliette, pigiami e tute da ginnastica. Non era raro vederlo che si toglieva uno strato o se ne metteva uno. Perché anche col caldo si doveva proteggere dagli insetti, non era il calore in se stesso che lo distoglieva dai suoi manoscritti, ma piuttosto zanzare e moscerini di vario tipo e insistenza, che in Brasile difficilmente ti lasciano da solo, anche se presi a giornalate, sentono che hai un estremo bisogno di loro e ne puoi massacrare a decine che non se ne fanno un cruccio né una ragione. Il corpo magro del Gastolfini quindi non sudava quasi più, non era il calore in se stesso che lo disturbava ma piuttosto gli insetti che ne fuoriuscivano a frotte come conseguenza indiretta, che però pungevano direttamente le parti lasciate incautamente esposte e se avevano la giusta disposizione, specie prima di un acquazzone, a volte anche attraverso i tessuti di un pigiama o di una maglietta.

La terza volta gli lasciai il libro, raschiò un pezzetto di quella sostanza verdastra a pagina 12 e disse che l’avrebbe analizzata col microscopio, fece una foto con una piccola macchina fotografica di ogni macchia di ogni pagina che ne recasse una, e ce ne erano almeno una ventina, si tenne il libro, che mi avrebbe restituito appena io ne avessi manifestato la necessità, cioè mai più.

Mi sentivo a mio agio con lui, la sua compagnia, sebbene differente da tutto quello che avessi provato prima, era l’ideale per me. Sauro non parlava se non ce n’era bisogno, ma non se ne sentiva la mancanza come con altre persone. Era un uomo totalmente privo d’ansia e starsene zitti con lui non era affatto imbarazzante. In più avevamo diversi interessi in comune, tra cui la lettura.

Presi a visitarlo ogni volta che avevo del tempo libero, senza pensarci troppo, almeno all’inizio, ma spesso portandogli degli omaggi alimentari e quindi c’era sempre una visita obbligata a quel negozio di prodotti italiani della Rua Goethe. Se lui se ne era sorpreso non lo aveva dimostrato, o io non ci avevo fatto caso. Mi riceveva sempre senza fare commenti sul tempo atmosferico, o sull’ultima partita del Gremio, cosa rara a quelle latitudini, mi ringraziava del prosciutto o della pasta fresca e mi accompagnava al suo studio sotto l’albero di cui ancora, purtroppo, non era riuscito a trovare il nome in internet, sebbene più volte l’avesse visitata a quest’uopo. L’importante, spiegava, era che facesse quell’ombra fitta e lì sotto, come se le sue foglie piccole e dentellate funzionassero da deterrente, c’erano molti meno insetti che altrove.

Intanto il suo rapporto con le donne era sempre stato problematico, forse era la convivenza che gli pesava, a Geraldo, anche se non l’aveva mai provata. Il Gastolfini disse che anche lui non aveva troppa voglia di femmine in giro, ma che quella lì, Dione, aveva insistito assai e alla fine non era troppo male, perché la sera se ne tornava a casa sua e non aveva pretese assurde. Fu la prima volta che gli parlò di sé e gli parve che non ci avesse mai pensato prima, a quel determinato tipo di argomento, che i suoi occhi si illuminarono di sorpresa, scoprendo quelle verità insieme a Geraldo, mentre gliele stava raccontando.

Non so come il Gastolfini fosse riuscito ad analizzare quel resto di cibo mummificato, ma fatto sta che all’incontro seguente determinò che si trattasse di pesto alla genovese e accostandoci il naso, secondo lui, il puzzo di aglio e di basilico si sentiva ancora, cosa che constatai subito, che aveva un odore strano lo potei sentire, ma che quelli fossero aglio e basilico era già un altro discorso, completamente a sé stante, secondo me. Secondo lui, invece, questo ci restringeva già il campo perché c’era di mezzo un italiano o qualcuno che aveva a che fare, in qualche maniera. Però doveva essere qualcuno che lui conosceva, se costui conosceva Sauro Gastolfini, bene o male e aveva scritto lì il suo nome. Oppure il pesto era stato versato da qualcun altro, in qualche altra epoca, obiettai io, visto che il libro era vecchio assai, aveva avuto più proprietari e poteva addirittura essere stato imprestato a qualcun’altro, forse più persone diverse.Il Gastolfini disse che però era bello che un libro se ne andasse in giro così, significava che la gente era ancora curiosa ed entusiasta, oppure che quelli s’interessavano piuttosto a vendere, quindi ai soldi, obiettai io e fui mandato forse anche giustamente affanculo.

Il volumetto in questione parlava della stupidità umana, tra le altre cose, lo faceva con grafici e dimostrazioni pratiche, se non era del tutto da prendere sul serio, alcune cose calzavano a pennello e intanto ci si facevano anche delle risate, constatando che tante delle cose che si fanno, non solo sono del tutto irrazionali e illogiche, ma se si fanno per imitare gli altri, sono tanto assurdamente umane quanto idiote. La stupidità è una cosa prettamente umana, dichiarava lo scrittore, perché nell’ambito della nostra specie si possono fare dei confronti con l’eventuale  anche se sempre più rara intelligenza. Secondo lui non era come dire che negli animali non si trovava traccia d’intelligenza, ma che tra di loro l’intelligenza era eccezione e non regola. Qui si potrebbe anche discordare e controbattere che anche tra gli uomini, intesi come umanità, lo è, magari lo faremo in seguito. Lo storico in questione, che alcuni di voi avranno già riconosciuto, dichiarava inoltre che uno dei motivi portanti delle crociate fu ristabilire il traffico di spezie dall’estremo oriente che era stato interrotto dai musulmani e che i romani erano andati incontro alla rovina del loro impero anche perché servivano le bevande bollite in recipienti di piombo per uccidere i microbi e così sterilizzavano anche se stessi.

Il Gastolfini lesse anche il libriccino, per curiosità ma non mi disse se gli era garbato o no, sebbene glielo avessi più volte chiesto. Una caratteristica di quest’uomo, per altri versi piacevole e degno di stima, era che rispondeva piuttosto raramente alle altrui domande. Magari la sua vita interiore era più forte, i suoi pensieri e i relativi interrogativi più pressanti.

Un altro dato interessante, secondo lui, era il fatto che il volumetto era in lingua portoghese. Se l’uomo che cercavamo, benché potesse anche risultare una donna, leggeva in quella lingua doveva trattarsi d’un italiano o un’italiana che vivevano in Brasile da un po’ di tempo e questo restringeva ulteriormente il campo di ricerca a poche migliaia di persone, sparse non si sa dove, magari nemmeno più abitanti in quella nazione. Le leggi delle probabilità non erano tra quelle che preoccupavano maggiormente Sauro Gastolfini. Mi chiese di andare a vedere nel negozio in questione se il proprietario o eventuale commesso si ricordasse chi gli aveva venduto il libro. Intanto aveva stabilito che due delle macchie erano di caffè, la seconda delle quali di un caffè più forte e denso della prima, e qui si poteva ipotizzare, senza sforzarci troppo, che fosse stato un espresso all’italiana. In più c’era una macchia di Campari che avvalorava le nostre ipotesi, una di pomodoro e anche se di origine sudamericana e arrivato oltre oceano solo dopo la scoperta di Cristoforo Colombo, chi è che usa di più il pomodoro nel mondo? Non certo i tedeschi, né i cinesi. Le restanti chiazze sulle pagine restarono misteriose, almeno per il momento, ma sempre aperte ad analisi rigorosamente scientifiche e a fantasiose interpretazioni.

 

In quei giorni Geraldo si chiese più volte se la loro non fosse un’occupazione piuttosto idiota, il Gastolfini era riuscito a coinvolgerlo come nessun altro avrebbe saputo fare, la sua serietà era in qualche modo contagiosa, anche se talvolta assumeva risvolti che facevano Geraldo sorridere di nascosto, mentre l’entusiasmo bambino che gli dimostrava lo trasportava, faceva diventare quella causa persa anche sua e importante non tanto per il risultato ma piuttosto nella lunga, tortuosa e incerta strada da fare. Non avendo al momento indagini da sviluppare, l’investigatore privato si era buttato a peso morto in quella bizzarra corsa contro lo spazio e il tempo.

 

Andai quel giorno stesso al vecchio negozio di libri vecchi e non mi smontai quando il proprietario mi disse che non si ricordava, chiesi se lì ci lavorasse qualcun altro e allora mi dette l’indirizzo e il numero di telefono del suo unico dipendente, tale Zinho che abitava in un quartiere malfamato della zona nord, detto Rubem Berta. Trovai Zinho al bar sotto casa e gli pagai il suo secondo caffellatte, io presi un frullato di avocado e mango. Uno di quei bar-tavola calda brasiliani tutti mattonellati in bianco che parevano obitori, ma che davano un’apparenza di pulizia, anche se quasi mai effettiva. Zinho disse che la settimana in questione aveva comprato una caterva di libri da Pitù, un ometto che andava in giro a fare lavoretti di diverso tipo, tra cui sgombrare e pulire soffitte e cantine, appartamenti sfitti da affittare di nuovo. Ripresi la mia Elba familiare e mi recai di nuovo nella zona sud, in un quartiere povero, la case popolari COHAB, popolate da un sottobosco di individui da film sul degrado delle periferie. Pitù non c’era, lo trovai solo il giorno dopo, prima che cominciasse il suo giro, era abbastanza fresco, il clima, e lui stesso non aveva ancora cominciato a sudare. Quando lo vidi uscire e lo riconobbi subito, Pitù è il nome di una cachaça oltre che di una specie di gambero e l’ometto somigliava vagamente a un crostaceo, in più aveva la faccia di chi non disdegnasse i superalcolici più a buon mercato. Purtroppo non mi servì che a farmi dire che non sapeva leggere, quindi ogni libro per lui era uguale a un altro. Gli spiegai che doveva rammentarselo, invece, perché era piccolo, vecchio e ingiallito, senza copertina. Avevo tardato a capire che la sua memoria doveva essere in qualche modo aiutata a funzionare e gli detti un biglietto da dieci, al che automaticamente gli sovvenne di uno sgombero in via João Salomoni, proprio lì vicino, il numero non lo sapeva ma era nel condominio di fronte al minimercato Naubert. Nel luogo in questione c’era un casermone orribile con dentro una quarantina di appartamenti. L’amministratore Levandoski, di origine polacca, fu assai gentile nei modi ma purtroppo aveva da fare e mi chiuse la porta in faccia. Per fortuna Maria Conceição, la donna delle pulizie convenzionata, che per caso aveva udito quel rapido scambio di idee e bestemmie, mi chiese 10 reais e mi portò di fronte all’appartamento in questione, dove viveva il signor Robles, di origine argentina, morto il mese prima  e che si lamentava sempre della musica alta dei vicini, perché amava leggere e non glielo lasciavano mai fare in pace. Con un biglietto da cinquanta tornai dall’amministratore e lui trovò più disposizione e tempo per dirmi che il figlio di Robles viveva ad Alegrete, a circa 400 km da Porto Alegre, sul confine con l’Argentina o l’Uruguay, quello non se lo ricordava troppo bene, l’indirizzo no, purtroppo non ce lo aveva e mi richiuse, stavolta un po’ più educatamente, ma pur sempre la porta sul naso. Naturalmente telefonai al Gastolfini prima d’imbarcarmi in quel viaggio di ore per strade non sempre ben asfaltate che quando per sventura lo sembravano, ecco che qualche profondo cratere sorgeva improvvisamente ad attentare indirettamente alla vita del povero guidatore distratto e più direttamente a quella dell’innocente pneumatico o della disgraziata ruota stessa. A evitarmi quell’odissea fu Iva, la cagna di Sauro Gastolfini, il quale mi raccontò che la notte, in quello stesso periodo di ogni anno, abbaiava con forza e determinazione, incessantemente fino all’alba e lui, per via della sua stessa indole curiosa, non aveva potuto fare a meno di notare che non era per via di cani limitrofi o delinquenti notturni e probabilmente anche malintenzionati. No, Iva secondo lui rispondeva al relativo abbaiare di voce canina lontana, ma ancora udibile per il nostro assai più scarso orecchio umano, che lui aveva stimato approssimativamente proveniente dalla strada parallella alla sua, Rua Amapá, ma sul dorso di un crinale di collina assai più alto. Gli chiesi più civilmente possibile che minchia c’entrasse la cagna con il nostro ben determinato tipo di problema, non parve accorgersi della questione da me sollevata, mi spiegò invece che quella era la zona dove Iva era nata e cresciuta fino gli otto mesi di età, cioè prima di essere da lui adottata e riattaccò. Allora pensai che era colpa mia, perché mi perdevo dietro ai deliri di un povero vecchio rincoglionito? Me ne tornai a casa e mi riposai. Per un bel po’ non ebbi sue notizie e lui nemmeno di me.

Però quella sua abilità di risolvere i casi a distanza mi fece riflettere. E mentre ci riflettevo, fingendo di pensare ad altre cose, il mio socio mi disse che lo potevamo far entrare in società con noi, tanto per fare una battuta, ma l’idea a me parve maledettamente seria e anche fattibile.

Naturalmente il Gastolfini non ne volle sapere niente, almeno all’inizio, ma io sapevo qual era il suo punto debole e iniziai a lavorarmelo di cibarie care e tipicamente italiane, che dopo pochi mesi ci trovammo a dividere carta intestata e relativi compiti che lui assolveva senza sforzo e naturalmente senza muoversi da casa o dal suo giardino, Casagrande e io invece sul campo, ma la grande differenza era che ora si andava sempre a colpo sicuro.

Circa dieci anni ci portarono nell’olimpo dell’investigazione privata, se ne fosse mai esistito uno, ce ne andavamo in aereo su e giù per il Brasile e guadagnavamo bigliettoni su bigliettoni.

L’unico caso che non risolse e rimase l’unico neo nella nostra onorata carriera fu quello del Lameira. Un uomo fu ucciso dalla moglie, i figli lo sapevano a memoria, noi anche, ma non ci riuscì di provare un bel niente. Quello che impedì al Gastolfini di trovare il bandolo della matassa fu che il Lameira era un suo vicino e lo conosceva addirittura personalmente. Noi non gli avevamo detto niente, ma sono sicuro che lui sentì qualche coinvolgimento diretto che lo ostacolò e lo fece brancolare nel buio.

Nella vita di Sauro non cambio granché, a parte il fatto che le cibarie se le faceva portare direttamente dall’Italia e nei fine settimana, di solito il sabato sera, pagava un cuoco in pensione per venirgli a cucinare quello che lui gli anticipava una settimana prima, in modo che si potesse preparare. Non ci ha mai invitato, ma noi non gliene vogliamo, sappiamo che è uno stravagante e meno male che è così.

 

 

Socio di Qiang, giovane produttore di Bonsai, esempio di sofferenza indotta - ma secondo lui  positiva - del mondo vegetale, attraverso una tradizione antichissima, applicabile anche agli esseri umani, Rino Piccioni era un bassottino nervoso e cicciottello, sempre con la battuta pronta e la polemica gratuita insita nel suo stile di vita, criticava assai gli altri e aveva come regola fondamentale quella di non cercare invece mai il pelo nell'uovo nelle situazioni di cui era protagonista. Gli dicevano spesso di comprarsi un buon specchio, di quelli metaforici ma non troppo, scherzavano e lui secondo me lo capiva che poi sotto-sotto facevano sul serio, forse intendeva anche che avevano ragione, ma era più forte di lui. Nell'occasione commentò che quello non era un giallo e semmai gli sembrava un verdolino marcio, non c'era nessuna suspense e pareva più una commedia che ogni altra cosa. Marcos obbiettò tranquillamente che credeva che dovesse essere la funzione del loro club trovare vie di fuga al giallo tradizionale, Rino disse che però non c'era bisogno di esagerare e il battibecco durò abbastanza, dividendo i presenti in due gruppi antagonisti. Iuri Pecchia, programmatore di computer, Alto Garfagnino di Piazza al Serchio, orgoglioso purosangue, commentò che la curiosità e la suspence erano necessari, per invogliare una mente X a continuare una lettura Y. Lì di suspense non ce n'era punta. Qiang obbiettò che la piacevolezza non era affatto indispensabile, che soffrendo s'impara e ci si sente stimolati a proseguire il cammino della lettura. Da qui partì una discussione animata e qualche ragguardevole alzata di voce, ricordo che pensai ricalcasse uno schema già ripetutamente sperimentato in passato, tra quegli stessi muri di pietra. Seppi allora che si erano formate due cosiddette correnti di pensiero: Qiang capeggiava la fazione della sofferenza dell'autore e dei suoi conseguenti testi, degli eventuali poveri lettori a venire, l'altra era invece quella di Leo, che sosteneva piuttosto il contrario.

Iuri chiese che cosa faceva soffrire tanto Qiang e la sua fazione, gente che poteva star bene sotto ogni punto di vista, materiale o spirituale. Qiang rispose che era una mera questione di filosofia di vita orientale, per la quale l'esistenza è da interpretarsi come sofferenza, onde per cui tutto quello che di positivo se ne poteva tirare fuori era una gioia. Iuri espresse la sua personale opinione che magari quella fosse una filosofia di merda, giacché sortiva immancabilmente l'unico effetto di generare ulteriore sofferenza all'eventuale sprovveduto filosofo, dentro o fuori dall'oriente, ma specialmente fuori, come nel nostro caso. Qui le frasi diventarono gridate e gli aggettivi pesanti, da entrambe le fazioni e la confusione totale, il che mi piacque, perché da quello si vedeva che esisteva ancora gente che credeva a qualcosa nell’epoca moderna progressivamente quanto notoriamente sempre più priva di ideali.

Alla fine Marcos, il moderatore, dichiarò di dover passare ad altro per non impressionare negativamente certe persone alla loro prima seduta, che magari non sarebbero più tornate e per quanto si sbagliasse, che io mi divertivo assai, il silenzio fu prontamente ristabilito.

Ogni membro che avesse terminato la propria opera la lesse e si discusse di conseguenza, fino alle due di notte. Nessuno di loro aveva scritto un giallo classico, la struttura di tutti i racconti era alternativa. Mentre si leggeva e si discuteva, seduti al lungo tavolo massiccio, si beveva quel vinello sopracitato e si mangiava uno spezzatino leggermente piccante con pochissimo pomodoro, fatto dalla moglie di non si sa chi e delle sottili focacce aromatizzate al basilico, prese chissà dove, forse fatte proprio lì, che non ne avevo mai viste né assaggiate. Alla fine si bevve una grappetta veneta e s'andò a letto, che poi era un magrissimo e altrettanto duro materassino a testa, un sacco a pelo e un profumato cuscino di trucioli di legno, sul pavimento di tavole, nella stessa stanza della riunione. Non ci fu difficoltà ad addormentarsi e anche se c'era gente che russava con forza e creatività e più di uno scorreggione, si dormì bene e assai, che le grandi finestre sotto la veranda erano semiaperte e per tutta la notte non smise un secondo di piovere a dirotto. La mattina per fortuna splendeva il sole, ma il fango rossastro e argilloso ci accompagnò fino alle rispettive automobili e dentro di esse, ce ne portammo generose porzioni anche nelle varie case e uffici di lavoro.

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 3

 

Mi era capitato di parlarne ma non ci credevo fino in fondo, eppure anni fa mi sono trovato di fronte all’evidenza di un caso di somiglianza impressionante tra due persone. La vita è strana assai, il mondo è un miracolo che ci può sorprendere ogni giorno, basta farci caso e non cadere nell'indifferenza generale della routine. La gente si è assuefatta e non nota più certe cose, che invece io mi sforzo di non dimenticare. In breve un mio cliente abituale, un simpaticissimo signore pelato con i baffi di origine siciliana, mi aveva chiesto dei volumi che sapevo di potergli trovare in internet e quando mi sono arrivati naturalmente gliel’ho comunicato. Al che l’uomo, che ci ho fatto subito caso pareva non avermi mai visto, mi ha detto che non sapeva di che cosa stavo parlando, che era la prima volta che metteva piede nella mia libreria. Si trattava di una serie di tre grossi tomi che mi erano costati una cifra, sulla storia degli ebrei, con foto, testimonianze, pitture, grafici eccetera. Non è una cosa che faccio abitualmente, non mi piace, non è nel mio stile, anche se ci guadagno assai, ma per lui ho fatto un'eccezione, visto che era così affabile e condivideva diversi miei punti di vista sulla letteratura, sulla società moderna e sulla storia dell'uomo inteso come umanità. All'inizio ho pensato che scherzasse, una faccia come la sua non si dimentica, ma visto che insisteva gli ho chiesto il nome e lui mi ha mostrato addirittura la carta d'identità. Aveva cambiato anche nome. Incredulo lo fissavo senza più riuscire a dire niente, allora ho fatto caso a un neo vicino all'angolo destro della bocca, che prima non aveva, lo avrei sicuramente notato e memorizzato. Chissà come se l'era fatto. E poi gli era convenuto solo per non prendere i suoi libroni? Aveva cambiato idea e non aveva abbastanza soldi da spendere? Bastava non venire più in libreria, non avevo nemmeno il suo numero di telefono. Comunque gli ho chiesto scusa, evidentemente mi ero sbagliato di persona e l'atmosfera si è rilassata, mi ha perfino chiesto di vedere i libroni in questione, gli sono piaciuti e me li voleva comprare, ha perfino alzato il prezzo. Sono stato un idiota, per un eccesso di correttezza, purtroppo ereditato da mio padre, alla fine ci ho anche litigato. Poi se n'è andato e non l'ho più visto. Anche l'altro non è più venuto e ce li ho ancora sullo scaffale della roba storica, ho provato anche ad abbassare più volte il prezzo, ma non li vuole nessuno.

La libreria si chiama Senza Parole, perché vorrei che ci si parlasse meno e ci si leggesse di più. Cosa rara al giorno d’oggi, ma è un’incredibile libreria senza musica di sottofondo. Arredata con mobili antichi o che possono sembrarlo, ha una saletta di lettura con le poltrone e un divano che mi sono costati un occhio, dove la gente può prendere uno qualsiasi dei miei libri e leggerselo anche tutto, ci sono dei vecchietti che vengono quasi tutti i i giorni, ma portano caffè e thè nei termos per tutti gli altri.

Ci sono altre geniali trovate che solo alcuni clienti notano e apprezzano. Oltre alla luminosità delle grandi finestre che permettono di giorno, con le condizioni di luce ideali, di evitare la luce elettrica e di leggere tranquillamente senza. Tante piante in  idrocultura che dalle vetrine e dagli orci danno un colpo d’occhio accogliente e riposante. Abbiamo anche una vecchia pendola che scandisce i secondi e due gatti distribuiti a piacere sulle varie poltrone e sofà. Quelli sono venuti da soli e gli piace stare lì perchè vengono accarezzati di più e meglio, vedono un po’ di gente e a casa magari si annoierebbero. Florence, la mia compagna, lavora in pasticceria la mattina e da il pomeriggio. Abbiamo già una certa età ma ci si muove assai, ebbene sì, si lavoricchia.

 

Alla centottantaquattresima riunione, la mia seconda,  non mancava nessuno, mi spiegarono che c'era una specie di rotazione per chi doveva portare da mangiare e da bere, alla quale mi chiesero di partecipare attivamente prima ancora di accettarmi come membro, anche per sapere se ne valeva la pena o no. Avvisai subito Florence, per la settimana a venire, avremmo fatto la spesa insieme e preparato il catering in questione, già considerando, prima di comprare le materie prime, che andava portato su senza muli o elicotteri a poterci dare sollievo. Al massimo potevo contare su Tommaso, ma c'era da portare anche il vino e allora bisognava essere essenziali.

Oltre ai racconti dei soci del club si discusse su Philo Vance e Nero Wolfe, sui rispettivi autori S.S.Van Dine e Rex Stout. Dietmar Nguyen, assente alla prima riunione, nella seconda condusse la discussione sui classici del giallo, perché sapeva vita morte e miracoli di tutti gli autori, importanti o meno, contemporanei e del passato, oltre ad avere una padronanza assoluta della lingua italiana, che a guardarlo in faccia prima che aprisse bocca non pareva possibile.

 Alla mia terza riunione, la numero 185, mancavano Iuri e purtroppo anche Tommaso, portare su la roba da mangiare e soprattutto da bere fu un cimento degno di nota e pure di qualche bestemmia masticata quasi in silenzio. Meno male che la gente mangiò con gusto e ci fecero ripetuti complimenti, a me e a Florence. Avevamo fatto la Crudaiola e anche il vino era un bianco pugliese forte e leggermente liquoroso. Ci fu una discussione acerrima, forse la più interessante e assurda: quella su Agatha Christie. Alla fine eravamo tutti d'accordo, o quasi, ma l'importante non era quello. Se si prende un numero imprecisato di persone e le si pone di fronte a un quesito anche estremamente semplice, come il colore della camicia di una di esse, non si avrà mai un'unanimità di risposte, quello che è evidente per una, per l'altra sarà assurdo e cose di questo genere. E di fronte ai gialli di Agatha Christie il gruppo votò compatto, con le debite eccezioni di un nostalgico non votante e di un votante bastiancontrario per scelta di vita.

Qiang disse anche che bisognava leggere le cose brutte, Madonnina Santa, perché no? La bruttezza ha il suo benedetto fascino, e dopo si può capire meglio la differenza. E poi Agatha gli piaceva, in un certo qual modo, forse uno che aveva a che fare coll’appena giustificato apprezzamento del negativo. Tutti gli altri no, io stesso tentai di difenderla, avvocato del diavolo che non aveva fatto nemmeno bene il compito per casa, giacché le mie erano rimembranze di lettore ai primi passi, che da adulto non avevo mai riprovato a rileggerla, forse non me la ricordavo nemmeno bene. In sintesi, le parole di Marcos seppero trasmettere il pensiero generale e finale:

"Troppa carne al fuoco, troppi personaggi, troppe spiegazioni scientifiche, schemi complicati fino all'inverosimile, troppo interiorizzati e alla fine poco credibili, pensati a tavolino e mai scesi dal medesimo, dato che, alla fine, l'assassino è sempre il più improbabile e al quale nessuno poteva aver pensato."

Agatha secondo Marcos non rispettava nemmeno il sacro principio fondamentale per cui l'investigatore di turno doveva avere gli stessi elementi del lettore, per capire la situazione, poi trovare il relativo colpevole. Qiang si limitò a dire che quel principio era una solenne biscarata e che nemmeno loro del Club lo facevano, una cosa è essere sul luogo del delitto e un'altra è leggere i fatti su delle pagine e poi la vita non da' le stesse informazioni a tutti, anzi se ne guarda bene.

Qui uno stralcio del successivo dialogo tra Qiang e Leo:

-E con i film non è la stessissima cosa? Si devono guardare solo i film piacevoli? Sarebbero pochissimi.

-Ma sono i migliori. Quelli che vedono la vita come un roba tragicomica.

-Sì, bravo, è come la vita, se pigli solo le cose buone, te ne stai lì fermo tutto il tempo e più ci stai e meno cose buone arrivano.

-Allora che bisognerebbe fare?

-Bisogna muoversi, Dio Madonnina, anche leggendo cose brutte, se capita e soprattutto guardare anche dei film sgradevoli!

-Ah. Solo per mantenersi in movimento?

-No, anche per imparare qualcosa, il più possibile capire i perché del mondo, fare confronti, insomma, studiare e comprendere le differenze.

Qiang era un alternativo logico in maniera ferrea e c'era da imparare con lui, spesso anche da litigarci, ma lui non si scaldava mai, casomai erano gli altri.

Leo era una persona così calma che era capace di irritare i più e che parlava assai raramente, ma quando lo faceva era cassazione.

Lo stile di Qiang nella scrittura era assai differente da quello che era logico figurarsi, a dir la verità ero curioso, ma non sapevo nemmeno cosa aspettarmi, quando, alla mia quinta riunione, la centottantasettesima, per la prima volta lesse una delle sue cose.

 

 

3) LA VITA È UN GIALLO SENZA COLPEVOLI Qiang Garfagnoli

 

 

Hussein è un nome arabo che significa bello di aspetto e di buone maniere. Io ne ho conosciuto uno che forse non era una bellezza, ma sicuramente molto educato. Si chiamava Hussein Ahmadi, il palestinese che ho frequentato per più di un anno a Perth, nell’Australia Occidentale e che magari metterei ancora trai miei potenziali amici sparsi per il mondo. Condivideva un appartamentino di due stanze con un mio collega ingegnere, tale Favaretto Domenico, dell’hinterland vicentino. Lo conobbi in un rarissimo giorno di pioggia, per quell’aridissima zona del mondo. Quando entrammo, era seduto davanti all’unica finestra aperta, quella della cucina-sala da pranzo. Ci comunicò che stava celebrando la sua gioia per tutte le piante australiane. Il Favaretto lo guardò incredulo, mi sorrise con una smorfia ironica, scosse la testa e preparò un tè che ci sorbimmo tutti e tre seduti al tavolo, di fronte a quella finestra aperta. Dall’altra parte, oltre il bombardamento di gocce piovane, uno sconfinato muro beige, verniciato a buccia d’arancia lucida, senza finestre. Hussein, dopo essersi presentato, disse che era una fortuna avere quel muro davanti. Se invece ci fosse stato un bel panorama, ci saremmo sentiti in colpa, rimanendo a casa, al contrario, così, potevamo stare tranquilli a conversare, col buono o cattivo tempo. Anzi, era anche dell’avviso che quel muro ci proteggesse dal vento, dalla conseguente pioggia di traverso, più frequentemente dal sole e pure da sguardi indiscreti. Il Favaretto espresse contrariamente l’opinione che quel muro gli facesse piuttosto schifo, anzichenò e poi che gli pareva che Hussein fosse, ogni giorno che passava, sempre più rincoglionito. Mentre il palestinese rimetteva in ordine i suoi pensieri, colpito e affondato dalla rude ignoranza veneta del Favaretto, quest’ultimo aggiunse che quello era uno dei rari momenti della sua vita in cui non aveva niente da nascondere agli sguardi indiscreti. Con un sorriso imbarazzato, grande calma e scelta delle parole adatte, Hussein gli manifestò però l’impressione che quel tipo di osservazione eventuale, quella di occhi non autorizzati, avesse come tipica caratteristica il distorcere la realtà in maniera negativa.

Domenico Favaretto, che in altre occasioni si era dimostrato persona più sensibile ed educata, disse che se gli piaceva passare il tempo con due idioti omosessuali, davanti a una finestra aperta, bevendo sostanze permesse dalla legge australiana, ne aveva il pieno diritto e se ne andò in bagno. Hussein sussurrò che gli piaceva abitare con un tipo sincero come il Favaretto, che gli italiani gli piacevano, “perché erano sempre sinceri”. Invece il mio connazionale, me ne resi conto in seguito, era sincero solo con chi riteneva più debole di lui, con i subalterni, con i camerieri, i baristi e i taxisti… e mai in maniera gradevole.

Sulla sincerità degli italiani non saprei che dire. Forse che, partendo da una massiccia base di ipocrisia provinciale, siamo abbastanza spontanei, quando vogliamo e soprattutto quando possiamo.

Per conto mio, diventai amico del palestinese e abbandonai il vicentino, sia perché mi era diventato antipatico, sia perché lui preferiva andarsene a caccia di avventure in discoteca. Noi invece chiacchieravamo volentieri in inglese e con grande calma, magari in un bar, o andavamo al cinema, spesso insieme alle rispettive ragazze. In più Hussein pubblicava poesie su vari giornali letterari australiani, aveva già stampato e venduto qualche centinaio di copie di due libri di avventure per bambini. Da tre anni stava scrivendo un giallo che contava già più di quattrocento pagine, ma lui era ancora indeciso su chi sarebbe stato il colpevole. Non riusciva a concentrarsi, negli ultimi tempi, mi diceva, lavorava troppo e quel giallo lo stava facendo impazzire, era veramente difficile organizzare i vari fatti e i pensieri dei personaggi.

Però quello era un buon segno, diceva, perché significava che si stava impegnando ed era la prima volta che tentava di scrivere qualcosa per adulti, che non fossero poesie. Il fatto che non sapesse ancora chi fosse il colpevole era positivo, secondo lui, perché così trasmetteva suspence ed insicurezza autentica al lettore. Allora pensai che una volta che si fosse deciso sul colpevole, Hussein avrebbe dovuto cambiare tutto il resto, praticamente scriverlo di nuovo, ma non glielo dissi.

Un giorno mi fece leggere le sue cose: i racconti per l’infanzia mi parvero buoni, se non altro per i bambini. Le poesie non mi piacevano in genere e trovai normale che non mi sfagiolassero troppo nemmeno le sue. Nella trama del giallo, però, tutta quella ingenuità poetica era prolissa e irritante. Sperai che non mi chiedesse niente, con tanta e tale forza che quando di sorpresa mi domandò se mi era piaciuto, quasi saltai dalla poltrona e non riuscii minimamente a dissimulare la mia delusione. Lui rise e mi ringraziò più volte per la mia sincerità, ricominciò con quella sua teoria balorda che gli italiani sono sinceri e dicono senza peli sulla lingua anche le verità meno piacevoli. O solamente quelle, pensai io.

Le cose migliori sono quelle aspre ma vere, non quelle lisce e false, dichiarò e su questo concordai, un po’imbarazzato. Inoltre, se gli avessi poi descritto, in seguito e con calma, i difetti del manoscritto, lui avrebbe potuto rifletterci su e eventualmente cambiarli e migliorare il tutto. Insomma, Hussein trovava sempre il lato buono in tutto e lo esaltava, se ce ne era più di uno la sua mielosità raggiungeva eccessi insopportabili. Se non ce n’erano, allora se li inventava, e mentre lo faceva, ci si concentrava, si autoconvinceva e alla fine riusciva a dimenticare ogni eventuale sfaccettatura sgradevole.

Poi, una notte si addormentò mentre guidava, tornando dal lavoro esausto e andò a sbattere con la sua vecchia automobile contro un palo della luce. La distrusse completamente, non ebbe risarcimento dall’assicurazione, perché quel tipo d’incidente non era previsto dalla sua polizza, non aveva soldi per comprarne un’altra, in più dovette pagare una multa per il danno all’impresa dell’energia elettrica. Lui però ne rimase sorprendentemente contento, perché andare in automobile era pericoloso e senza quel provvidenziale incidente, probabilmente, non se ne sarebbe mai reso conto. Oltretutto aveva avuto la grande fortuna di non essersi fatto male, solo poche superficiali ma frizzanti escoriazioni. Poi, poche settimane dopo, la sua ragazza lo lasciò. Ci rimasi male anch’io, perché era già diventata grande amica della mia ed era veramente carina e simpatica e insieme, lei e Hussein, pareva che stessero benissimo. Lui però non era d’accordo con me, disse che aveva solo una buona ma ingannevole apparenza, era simpatica, va bene, però come persona valeva poco, tanto poco che, appena lui era rimasto senza automobile e in difficoltà finanziarie, lei se l’era subito scappata. Anzi, meno male che se ne era accorto prima di sposarla, sarebbe stato peggio, se quei difetti fossero venuti fuori dopo, non ero forse d’accordo?

Tutte le volte, di fronte a quella logica, scuotevo la testa e gli sorridevo, mi trovavo spaesato. Quello che conoscevo meglio era quasi l’opposto, cioè l’atteggiamento italiano, pignolo nel cercare e puntualmente trovare difetti in tutto, anche quando le cose andavano bene. Quel suo unilaterale ottimismo non l’avevo mai trovato in giro. Certo, prendere la vita in quella maniera era ammirevole, da una parte, ma dall’altra si rinunciava a tentare di riscattare quello che si era perduto, magari ingiustamente, o ci si precludeva anche la ricerca per ottenere qualcosa di meglio, se ci si accontentava troppo.

Quando arrestarono Hussein, per terrorismo, testimoniai a suo favore in tribunale, non lo potei visitare in prigione, per motivi di sicurezza. Ci parlai solo per telefono qualche volta, mi confidò che era stata tutta opera della sua buona sorte, dato che era innocente e lo avrebbero presto liberato. Intanto poteva finalmente concentrarsi e terminare il suo giallo, che guarda caso, fortuna delle fortune, parlava proprio di terrorismo e così poteva anche documentarsi. In più avrebbe avuto il tempo e la disposizione necessaria per studiare italiano, per l’esame del corso che stava facendo. Passato quasi un mese, dopo che ebbero preso il vero terrorista, che abitava nello stesso palazzo, uscì con il suo eterno sorriso stampato sulla faccia, ora un po’ meno abbronzata. Disse allegramente che aveva studiato italiano e scritto a sazietà, ora il romanzo era finalmente e felicemente terminato e la sua liberazione era giunta proprio “come il cacio sui maccheroni”. Mi sorpresi nel venire a sapere che il giallo non avrebbe avuto nessun colpevole, “per far riflettere il lettore e fargli interpretare le cose alla sua maniera”. Secondo Hussein era una formidabile novità, avrebbe avuto sicuramente un grande successo e se non lo avesse avuto, pensai io, lui avrebbe trovato dei validi motivi per cui sarebbe stato assai meglio così. L’unica cosa sulla quale non era capace di esercitare il suo grande ottimismo era la polemica con Israele, bastava nominarla, che Hussein si trasformava, spariva il suo sorriso e i suoi denti digrignavano. Meno male che esisteva, recuperava subito dopo, perché così si poteva notare la differenza con gli altri popoli e fare caso a quanto erano sinceri e simpatici gli italiani, tanto per fare un esempio trai tanti.

Da parte mia cercavo di far valere la mia presunta spontaneità per fargli sviluppare pensieri più obbiettivi, ma Hussein era inamovibile, cortese e cordiale, sorridente, ma fermamente trincerato sulle sue posizioni. Quando il Favaretto se ne tornò in Italia, lasciandogli, come sorpresa finale, anche la sua parte di conti dell’appartamento da pagare, il palestinese non cambiò affatto idea sugli italiani. Si limitò a dichiarare, con la mano sul cuore, che grazie ad Allah misericordioso, lui sapeva ancora distinguere le regole dalle eccezioni.

 

 

Un giallo senza niente di giallo, a parte il titolo, sennonché c'era un personaggio che stava scrivendo un giallo, lo faceva pessimamente ed era accusato lateralmente quanto ingiustamente di essere un terrorista. Qiang era talmente bastiancontrario che contravveniva a tutte le regole e a tutte insieme, naturalmente lo faceva assai bene e la personcina in questione, il protagonista, era uno che soffriva sempre e comunque eppure tutto gli pareva meraviglioso. Tutto, nella sua assurdità, pareva credibile, perché gli esseri umani lo sono, sanno ingannare se stessi meglio di chiunque altro.

 

Nella sesta riunione eravamo di nuovo al gran completo e l'ordine del giorno era discutere su un altro autore di gialli, era stato scelto Andrea Camilleri.  Purtroppo, anche se aveva le stesse iniziali di Agatha Christie, Camilleri garbava un po' a tutti, del resto pure a lui stesso la scrittrice inglese non era mai andata a genio. Dunque la discussione fu piuttosto moscia, Qiang disse che però, a sua modesta opinione, quel siciliano fumava un po' troppo e tutti risero, ma lui con la massima serietà chiarì che era dimostrato scientificamente che faceva male ai polmoni, e fece spanciare tutti rimanendo imperturbabile, nessuno avrebbe saputo dire se in quel frangente avesse inteso scherzare o no.

La corrente di pensiero orientale, della vita come sofferenza, era formata da Qiang, Dietmar e Rino, detti gli Stoici (o Bastiancontrari,) gli altri erano detti gli Epicurei (o Conformisti,) Marcos era neutro, per questo era stato scelto come moderatore. Quando mi chiesero come la pensavo, io risposi:

"Per quanto riguarda la vita, mi pare che sarei un Epicureo anch'io, ma sulla letteratura avrei i miei dubbi, il racconto di Marcos mi è piaciuto, quello di Leo mi è garbato anche di più, quello di Qiang mi ha lasciato perplesso, in maniera decisamente positiva, ma vorrei ascoltarne altri, magari. So ancora poco di quel che mi chiedete, in definitiva. Ci vorrei pensare ancora un po', insomma."

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 4

 

 

La gente legge poco, ogni giorno che passa un po’ di meno, il libro è un articolo che sta cambiando in peggio, sempre meno creatività e sempre più tecnica. Tutto quello che ho investito sta prendendo una piega indesiderata, o anche il mondo sta fuggendo alle intenzioni migliori di una volta. Non posso più rifiutarmi di vendere libri che non mi piacciono, né di mandare affanculo la gente che se lo meriterebbe.

Con Florence non litigo quasi mai, più per merito suo che mio. In libreria si parla poco, più che altro ci scambiamo occhiate ironiche, maliziose, divertite, annoiate. Qualche settimana fa, in mezzo alla gente che c’era, (il negozio era pieno, cosa niente affatto rara, ma che non ha niente a che fare con gli incassi,) ci siamo messi a discutere su una cosa abbastanza intima e poco appropriata al momento. Mi sono sorpreso di constatare che su un determinato argomento non ci troviamo per niente d’accordo: dormire insieme. Lei dice che russo e io che russa lei. Lei dice che le rubo le coperte e io che invece lo fa lei e in più mi schiaccia in una parte infima del letto dove non mi posso muovere. La sera a casa sua abbiamo continuato con più calma, facendo insignificanti passi avanti verso la verità e poi ogni tanto l'argomento è tornato fuori, nei giorni seguenti. Non è una novità, abbiamo stabilito, dopo anni di convivenza, di studio sull'argomento e di litigate a vari livelli di incazzatura, che Florence russa all'inizio della dormita, io più dalla metà verso la fine. Dipende molto anche da fattori esterni al letto, per esempio se uno dei due è agitato, o peggio ancora tutti e due. Quando tutto va bene non ce ne accorgiamo neanche, nessuno disturba l'altro. Però spesso io ho difficoltà ad addormentarmi, lei invece si sveglia troppo presto e spesso non riesce a riaddormentarsi, anche per causa mia, ma non solo. I tempi di russata andrebbero sincronizzati ma è impossibile, quindi si sballa spesso, eppure malvolentieri. Se la scuoto un po' lei smette, io invece no. Posso cambiare posizione e marcia, ma il trattore non si spegne e a volte faccio anche delle sgassate forti come se me ne stessi impaziente al semaforo rosso. A proposito di gas, spesso anche quello se ne esce approfittando del nostro sonno, anche qui ci accusiamo a vicenda di accusarci a vicenda, ma le mie si riconoscono facilmente perché sono più frequenti e rumorose. ma meno puzzolenti, le sue sono più rare e silenziose ma olfattivamente letali. Abbiamo cercato di elaborare statistiche più precise ma ci sono ancora controversie, che dipendono più dalla luna che dai fatti in sé e naturalmente da chi ha cucinato e quindi da cosa abbiamo mangiato. Io cucino più leggero, lei più pesante, io uso più olio d'oliva, lei il burro. Io ci vado piano con l'aglio e l’eventuale cipolla ma lei.. lasciamo perdere.

La settimana seguente Dietmar lesse il suo ultimo racconto e dopo averlo udito e applaudito, rimasi ancora più in dubbio. Se loro dicevano che non necessariamente la letteratura deve essere piacevole, quello che scrivevano invece indubbiamente lo era, alla loro maniera, cioè si parlava di cose scabrose ma in maniera scorrevole e bizzarra, c'era un'immancabile vena di ironia, per sdrammatizzare le situazioni e la vita era proprio così, in fondo: tragedia e commedia mischiate, il male e il bene mai nettamente divisi.

 

 

 

4)ANSIA   Dietmar Nguyen

 

Carthagena: due trentacinquenni abbronzati, identicamente vestiti, con pantaloni di lino chiaro e camice hawaiane, capelli impomatati, occhiali da sole, seduti ad un tavolo in un kitsch-glass-bar, stanno facendo una conversazione animata.

-Ma tu guarda come devono vivere due laureati all’inizio del terzo millennio. Il mondo sta andando proprio a pezzi...

-Te fregatene del mondo, secondo me non esiste già più, o forse non è mai esistito.

Poi, magari, mi spieghi invece perché non rispondi al videofono?

-Vabbè, ma non t’incazzare...

-Come faccio a non incazzarmi? Sono giorni che ti chiamo, avevo un lavoro facile per te, ormai lo ha fatto Trevo... il tappabuchi, ti sei perso un pacco di crediti, ma che minchia ti è successo?

-Guarda che è una storia piuttosto lunga, e non credo che tu abbia la pazienza necessaria...

-Dici sempre così, le tue storie sono sempre maledettamente lunghe...

-Perché, non erano abbastanza lunghe, le altre mie storie?

-Sì, erano anche lunghe, ma più che lunghe io direi stronze.

-Stronzo sei te. E la tua atavica mancanza d’immaginazione. Di storie singolari da raccontare ne ho così tante che poi me le dimentico. È perché ho vissuto intensamente, ho dato più importanza a tutto quello che mi è successo, a te invece non te ne frega niente.

-Lasciamo perdere. Tagliamo questa parte.

-Va bene, lasciamo perdere.

-Sì, è meglio.

-“È meglio” lo dovrei dire io.

-Beh, ormai l’abbiamo detto tutti e due, magari cerchiamo di progredire nella conversazione, ora.

-Sono d’accordo, cazzo. Tu comincia ad iniziare.

-Eccomi: prima di tutto una specie di confessione, tra quasi amici ma di lunga data: con le donne bellissime ho sempre fallito.

-Ma ora che c’entra? E poi perché mai?

-C’entra, c’entra, perché quando mi avvicino diventano brutte.

-Beh, qualche volta mi è successo anche a me, ma per colpa della birra. In Brasile dicono: non è che queste ragazze sono proprio brutte, ma siamo noi che abbiamo bevuto troppo poco.

-Questa te la sei inventata ora.

-No, no, te lo giuro: è proprio autentica... e poi che ne sai tu del Brasile?.

-Vabbè. Però a me invece mi succede quasi sempre e senza ubriacarmi.

-Sei fuori di testa, Martinelli, lasciatelo dire.

-Nooo, ti giuro, sono loro che cambiano, in un attimo o in un’ora, in un giorno o due, mi capita sempre, non è colpa mia, col passare dei minuti le vedo meno belle fuori, oppure dentro, anche se poi si vede soprattutto dal fuori.

-In che senso? Non ho capito.

-È che è fin troppo facile farsi dei miti, finché ne rimani a distanza, una bella donna può diventare una scultura marmorea e se sei un italiano, che è nel mondo il maschio più idealizzatore di miti femminili angelici e falsi, voglio dire: se sei italiano puoi anche innamorarti di una che non conosci e meno la conosci e più te ne innamori, ma quando la vedi da vicino, quando la senti parlare, come fai? Per me è più difficile.

-Continuo a navigare al buio.

-Lo so. Perché sei italiano, per te la donna è un angelo, ma la donna è fatta di ciccia come te e se la conosci, poi, ti delude, a meno che tu sia portato a falsare la tua stessa realtà... cazzo, Puleo, ti giuro, più ne sapevo e peggio era, insomma non sono mai stato capace d’ingannare me stesso.

-Anche qui in Colombia?

-Da sempre, qui e ovunque.

-Comunque finora non m’hai ancora detto niente.

-Ma se è mezz’ora che parlo...

-Hai fatto un’introduzione, poi una giustificazione di quello che avresti detto dopo, che io non ho capito, tra l’altro, ma un dopo che non è ancora arrivato, comunque. Se passiamo a quello che c’è in mezzo, cioè alla storia, magari, vedrò qualche attinenza con la realtà, che ne so, magari capirò qualcosa.

-Sì. Hai fottutamente ragione. Bene, qualche mese fa ero al Cafè Skranja, una birreria di Bogotà con un’atmosfera scura e fumosa, mezzo parigina, che ne so, con quei lampioni rosa penduli sopra i tavoli, musica ad alto volume.

Non la conosci?

O non la conosci e non te ne frega niente di conoscerla?

Vabbè, Marcos e Strillo arrivarono dopo e c’era una ragazza insieme a loro, una che non avevo mai visto: molto alta, sensuale, una piccola cicatrice piuttosto sexy vicino ad un angolo della bocca, insomma, ci siamo capiti...

-Ti sei capito da solo, più che altro, a me le cicatrici non mi arrapano per niente, ma non importa: veniamo al sodo.

-Voglio dire che era bellissima, ma anche misteriosa, vestita tutta di nero, beveva molto e rideva poco, si è seduta con noi al nostro tavolo e dopo un po’ siamo rimasti da soli, indovina che cosa mi ha detto come prima frase del nostro incontro?

-Scopami!

-Ma tu sei rincoglionito, queste cose succedono solo nei film porno, dai quali proviene buona parte della tua cultura, purtroppo...

-Non è colpa mia se è l’unica roba autentica che c’è in giro...

-Teoria interessante, complimenti, non te ne credevo capace; ma tornando a noi, cioè a lei, aveva una certa classe, come faccio a spiegartelo, che ne sai tu di classe? Insomma, ha acceso una sigaretta in piena calma, me ne ha offerta un’altra e me l’ha accesa, poi ha detto: sono una testimone di Geova e soffro d’ansia.

-Ah. E tu?

-Io ci sono rimasto secco, come un cretino. Per un bel po’ non sono riuscito a dire niente, non me lo aspettavo.

-E dopo?

-Dopo mi ha sorriso, poi ha detto se uscivamo un po’ a fare un giretto. Tu che avresti fatto?

-Non so nemmeno immaginarmelo, credo che sarei scappato.

-Vedi la differenza tra me e te? Non hai immaginazione, io invece sono rimasto incuriosito e perfino eccitato, se lo vuoi sapere.

-Una ti dice che soffre di una malattia mentale, che va in giro per le case a predicare religioni assurde e tu ti ecciti?

-A parte che era bella, assai bella, tettona e alta, un culo ritto che non ti dico, a parte la maniera in cui parlava con una calma incredibile, beh, non dimostrava alcuna ansia, e poi l’ansia non è una malattia mentale che possa trasformare una fata in un mostro... e poi il suo senso dell’ironia, figurati che ha detto che in verità, lei sarebbe stata una testimone di Genova, perché era venuta di là... pochi anni fa.

-Sì, lo so che la Colombia è sempre più piena d’italiani, che gl’italiani stanno scappando da ogni lato, gli basta di non stare in Italia, però quella più che una fata a me mi pare una strega, seguendo la tua stessa descrizione, ma tutti i gusti son gusti: cosa è successo poi?

-Mi ha spiegato come era la sua vita, che cosa faceva con i Testimoni, che il loro dio non era una dea, come io credevo e magari anche tu...

-A parte che non me ne frega niente, io non c’ho proprio mai pensato, se fosse uomo o donna la mia vita continuerebbe la medesima’mmerda...

-Io invece sì, è stata una sorpresa sapere che Geova o Jeovah fosse un maschietto, nonostante il nome, e tra le altre cose era anche Dio, o meglio: l'unico Dio, cioè una delle parole che lo indicavano, nell'Antico Testamento, vale a dire una  traslitterazione  (che significa traduzione di un testo sostituendo le lettere di un alfabeto con quelle corrispondenti a quelle di un altro) delle quattro lettere : IHVH, JHVH, JHWH, YHVH, YHWH, che designavano Dio, il cui nome era considerato tanto sacro che non poteva essere pronunciato a voce alta, era sostituito perciò con la parola Adonai (Signore).

Puleo sbuffa, Martinelli non se ne accorge, o fa finta di niente e continua:

-Jeovah o Jahvè era il Dio degli Eserciti, da qui la disciplina da rappresentanti commerciali delle Testimoni, fatta di determinazione, di sorrisi, di grande volontà di convertire l'ignaro disgraziato che gli apre la porta.

La religione è cosa assai recente ed è stata fondata da un certo C.Taze Russell nel 1874 a New York.

I Testimoni di Geova, dicono che la Bibbia, la parola di Dio, è l'unica fonte di verità, e che loro sono gli ultimi testimoni rappresentanti di una lunga serie di testimoni, di Abele e Gesù. Annunciano una lotta tra Satana e Geova; manco a dirlo, quest'ultimo trionferà e la terra diventerà abitazione dei sopravvissuti e dei morti resuscitati.

Bello, nèh?

Hanno un gran numero di predicatori itineranti, sparsi per il mondo, il cui centro d'incontro si localizza nel quartiere di Brooklyn a New York.

-E chissenefrega non ce lo metti? Io ce lo metterei.

-La tua ignoranza è spaventosa... oltre che autocompiaciuta...

-Beh, sì. È proprio vero. A me piace, mi protegge da questi tuoi viaggi nella maionese, come li chiamano in Brasile...

-E che vorrebbe dire?

-Vuol dire che tu esci dal tuo corpicello e ti perdi in cose scivolose, come la tua fantasia gialla e malata, e poi ti lasci trasportare...

-Guarda che i testimoni di Geova non li ho inventati io...

-No, ma avresti potuto benissimo farlo, non te ne mancano certo le capacità, però ti ricordo che mi stavi raccontando del perché non rispondi al videofono, che me ne frega a me dei testimoni di Geova e di quello che fanno?

-Non lo so, ma un po’ di cultura generale non ti farebbe male, ogni tanto...

-Cosa mi fa bene o male lo decido io, se non ti dispiace, intanto tu cerca di essere un po’ più sintetico, vogliamo andare al sodo?

-Guarda che questa storia non l’ho mai raccontata a nessuno...

-Ti faccio rispettosamente notare che finora non l’hai raccontata nemmeno a me... perché non ci provi seriamente?

-Allora lasciami parlare, intanto confido anche che poi tu non vada a spifferarla in giro, ci siamo spiegati?

-Certo, per chi mi hai preso? Era mora o bionda?

-Capelli corvini, labbra sensuali, un neo sulla guancia destra...

-E come facevi a sapere che non era piena di silicone?

-Ho rischiato. Sembrava diversa dalle altre, aveva classe e personalità, non rideva per ogni cazzata, un po’ come se fosse un mezzo uomo, o una donna-killer...

-Ecco ! Che fosse un travestito mi è venuto in mente subito!

-La tua mente è schifosamente inquinata, certo col lavoro che fai...

-Sì, ora ci manca solo che mi fai la psicanalisi, ma mi dici una cosa: tu non fai lo stesso cazzo di lavoro? Allora taglia corto, che mi sono già abbondantemente rotto i coglioni: che avete fatto dopo?

-Siamo andati in un altra birreria e ci siamo scolati una bottiglia di Berlaskian, ha voluto pagare lei.

Scherzava in quella maniera che hanno le donne dei film post-modern, diceva battute secche ed irresistibili, completamente seria, siamo andati nella sua macchina e mi ha fatto bere un liquore che aveva in una bottiglina, verde scuro, buono ma amarissimo, a questo punto i miei ricordi mi si annebbiano, perché sembra più un sogno che realtà, ma ti giuro che è realmente accaduto...

-Insomma: te la sei scopata o no?

-Aspetta, qui viene il bello, me ne stavo completamente rilassato sulla comodissima poltrona della sua Morkjios nera...

-Ho già capito: il liquore! Era o non era drogato?

-Bravo, ero perso in un mondo di placidità e colori pastello, in una musica dolce, vecchiotta e romantica, credo che fosse Victor Laszlo o Diana Krall, o forse no, come si chiama quell’altra?

-Chi se ne frega! Che è successo dopo?

-Beh, dopo, in quell’atmosfera da sognaccio peccaminoso e notturno, lei mi ha spiegato con calma, tutto quello che mi avrebbe fatto, con la lingua, su determinate parti del mio corpo...

-Chissà quali.

-Non vuoi che te le dica?

-Risparmiati il fiato. A questo punto le sei saltato addosso.

-No, non mi sono mosso di un millimetro...  me ne stavo in una cazzo di estasi fottuta e...

-Che?

-Qui devi considerarmi il liquorino verde, Puleo, non lo so nemmeno io, guarda, magari non ero nemmeno più capace di muovermi e poi mi piaceva da morire, non avevo mai provato un piacere del genere... non escludo nemmeno di avere avuto un orgasmo o più di uno, senza che lei mi toccasse... se non nel mio più profondo essere, con le sue parole sensuali, la sua voce calma e ipnotica...

-Il mio più profondo essere? Sai che a volte, mentre ti sento parlare, mi pare di vederti per la prima volta? Io, dentro di me, di esseri ne ho uno solo e quello al richiamo della foresta salta sulla preda come una tigre!

-Lo so, ma con quel liquorino in corpo, anche tu non lo so dove andavi a sbattere il grugno, io ho perso semplicemente i sensi, poi mi sono trovato in un campo, pieno di relitti di automobili, tutto insanguinato, stava albeggiando ed era un posto che non conoscevo nemmeno... finché non ho visto la punta della vecchia chiesa diroccata dei Gesuiti in mezzo alla boscaglia, ho capito che ero tra il fiume e la chiesa...

-Brutta zona quella...

-Lo so, ho inciampato in più di uno scheletro, alcuni anche bruciati...

-Ma non hai detto che eri insanguinato?

-Ero pieno di sangue, sangue non mio, perché non avevo ferite, ma ero completamente bagnato di sangue.

-Allora che cazzo hai fatto?

-Ero mezzo disperato... ma rincoglionito del tutto, in compenso, la testa mi girava, o forse erano le cose tutte attorno che non volevano star ferme, mi pareva tutto un sogno... o piuttosto un incubo, meno male che avevo ancora il cellulare e ho telefonato a Marcos, che poi era lui che mi aveva presentato Ansia...

-Ansia? Si chiamava così?

-No, lei mi ha anche detto come si chiamava, ma io non me lo ricordo. La chiamo così perché quando lei mi telefona si presenta sempre con questa parola... e un respiro profondo...

-Quindi l’hai rivista, dopo.

-No, rivista no, abbiamo parlato al telefono.

-E Marcos che ti ha detto, come faceva a conoscerla?

-No, zero assoluto, l’avevano appena conosciuta, in un altro bar, però gli era parsa troppo strana a tutti, mi ha detto che lo sguardo di lei l’aveva spaventato... difficile immaginarsi Marcos spaventato, eppure...

-Allora tu non l’hai più  vista?

-No, te l’ho già detto: NOOOOO.

-Allora, devo tirarti fuori le parole colle tenaglie?

-No. Mi ha telefonato, si è scusata per quello che era successo, senza dirmelo direttamente, me lo ha fatto sembrare una cosa quasi normale, naturale, e dopo qualche minuto mi aveva di nuovo portato sull’altopiano del piacere sessuale, stavolta senza avermi dato nessun liquorino, mi ha ipnotizzato con la sua voce, le sue parole...

-E stavolta dove ti sei svegliato?

-A casa col telefono in mano, ma erano passate due ore...

-Tutto qui?

-No, avevo avuto una serie di orgasmi... ed ero di nuovo pieno di sangue, non so di chi...

-Non ti ricordi niente?

-Sì, cioè no, non so come spiegartelo, nel senso che poi l’esperienza si è ripetuta, più o meno uguale, lei mi telefonava, parlavamo un po’ e poi dopo tutto il resto...

-Ma avevi delle visioni, vedevi qualcosa o no?

-Sì, ma è roba difficile da raccontare, era come se le sue parole si trasformassero in immagini, lei parlava ed io vedevo cose, belle cose, sensuali, vedevo lei e anche altre donne, tutte bellissime, ma di diverso tipo, negre, bionde, mulatte... ma da un certo punto in poi non mi ricordavo mai più niente, per il resto è come se avessi avuto ogni volta un rapporto completo, anzi molto più del normale, ma questa è la parte buona... sangue a parte...

-E che c’entra tutto questo col fatto che non rispondi al videofono? 

-C’entra, c’entra, se mi lasci parlare te lo spiego.

-Ti sto ascoltando, ma è la pazienza che mi viene meno.

-Te l’avevo detto. E poi non riesci ad ascoltare con una faccia più intelligente? Boccheggi come una trota fuor d’acqua.

-Beh, questa è la mia faccia, cioè quella che faccio quando ascolto, mi dispiace ma dovrai adattarti.

-Vabbè, pazienza, il fatto è che quella notte, la prima notte, voglio dire, in quel posto dove mi sono trovato io, tutto insanguinato, c’è stato trovato un morto ammazzato, con vari e ben mirati fendenti, di una sciabola tipo quella dei Samurai, una Katana. Cioè l’hanno trovato la mattina seguente, non molto tempo dopo che io ero stato portato via da Marcos.

-E non l’hai ammazzato tu?

-No, cioè non mi ricordo niente, certo che non sono andato a confrontare il gruppo del sangue che avevo addosso...

-Sei sicuro che era proprio sangue?

-Non è la prima volta che vedo del sangue, il nostro lavoro ce lo impone, era la quantità che era eccessiva però...

-Ma ti sei svegliato vestito?

-Ben vestito, quanto zuppo.

-E gli sbirri?

-E che ne so? Non sono certo andato a chiederglielo.

-Ma che c’entra col fatto del cazzo di videofono, al quale grazioso apparecchietto tu non rispondi da giorni?

-Beh, il fatto è che poi ogni volta che lei mi chiamava, a me mi piaceva, e parecchio e tutto, a parte il sangue addosso, naturalmente, ma oltre a questo, il giorno dopo si trovava sempre un disgraziato tagliuzzato, da qualche parte.

-Ora comincio a capire, quindi vorresti dire che dopo, per questo paio d’insignificanti particolari, magari ti è venuta un po’ di... come dire...

-Un po’ d’ansia?

I due sorridono, ma più che un sorriso è una specie di ghigno, il più alto chiede il conto, dopo aver pagato se ne vanno.

 

 

Il suo stile era crudo, il contenuto era forte, oltre al dialogo c'era poco o niente di descrizione, si parlava di un futuro forse assai prossimo, in cui i killer erano funzionari pubblici, vestiti tutti uguali, con una divisa colorata e facilmente riconoscibile, che avevano forse la missione di toglier di mezzo la troppa gente che c'era in giro? O forse solo i dissidenti? Non si capiva bene, ma lo si poteva arguire. Anche qui un giallo dove il mistero rimaneva tale e quale, alla fine, che faceva riflettere ma non risolveva granché, al contrario dei gialli tradizionali, però come nella vita vera.

A proposito del bene e del male, quando dormiamo insieme io e Florence ogni tanto ci vediamo un film, o perlomeno ci proviamo. A volte, chiuse le rispettive libreria e pasticceria, scopriamo che siamo troppo stanchi per leggere e preferiamo piuttosto stressarci invano per trovare un film che piaccia a tutti e due. D’accordo è una cosa idiota, lo sappiamo anche noi, eppure insistiamo, amiamo andare a dormire incazzati. Il primo a saperlo a memoria dovrei essere io, che già quando sono da solo, per trovare un film che mi soddisfi non è facile e più sono stanco e più niente riesce a piacermi. Anche questa è una cosa che so a memoria, eppure insisto a oltranza, non ci posso fare niente. Quando la testa non mi aiuta dovrei spegnerla, ma è proprio quello il momento in cui ho maggior difficoltà a impormi contro il mio stesso cervello incompetente e tiranno. I film li scarico in internet e ne ho una scorta enorme, in vari Hard Disk esterni, di cui la maggior parte li ho già visti, o li ho iniziati e mi sono fatto un’idea, a volte vaga o distorta e di cui però non sempre mi ricordo. Alcune pellicole, anche se d’acchito non mi sono piaciute, le tengo lì per passarle a maggior esame e in quel limbo ci possono rimanere anni. Principalmente da questo archivio di film che non ho ancora visto, scelgo quelli da vedere insieme. Questo è dovuto al fatto che gli altri, che ho visto e mi sono piaciuti, mi hanno entusiasmato e sarei disposto anche a rivederli, allora li ho sottoposti più volte all’esame di Florence e tanti o troppi me li ha bocciati nei primi cinque minuti. Purtroppo i gusti non coincidono, a lei piacciono i film tragici e di amore, a me un po’ tutti gli altri, robe miste, preferibilmente meno manicheistici. La notte poi vorrei qualcosa di leggero, magari da farsi quattro risate. Difficile trovare qualcosa di ibrido che entrambi possiamo goderci in santa pace. Visto che i film li scarico io e conosco i suoi gusti, a me spetta la scelta e cerco sempre qualcosa che rispetti i suoi canoni senza calpestare troppo i miei. A volte ci siamo anche riusciti, ma raramente. Di solito ci dobbiamo sforzare per non arrivare a litigare. Oltretutto lei ha la fissa, dopo due secondi dall’inizio, di dire che quello l’abbiamo già visto e questo mi manda in bestia, soprattutto perché poi, alla fine, scopro che ha ragione. Personalmente cerco di evitare il film che mi deprime, come anche un libro, che tratti la sua storia senza umorismo, concentrandosi unicamente sull’eterna lotta quotidiana tra il bene e il male. La vita vera non è così, ci si diverte anche, si scherza un po’, volendo anche sulle nostre stesse disgrazie. No, i personaggi dei film che piacciono a Florence sono tutti antipatici e dopo un po’ mi scopro a volergli il più profondo male, ma non ce n’è bisogno, loro fanno già il possibile per distruggere ogni lato positivo della loro vita e di conseguenza del disgraziato film. Non mi riesce nemmeno di addormentarmi perché mi fanno troppa rabbia. Dell’eterna lotta tra il bene e il male siamo già obbligati tutto il giorno e tutti i giorni a sopportare i soliti ripetitivi sviluppi, a sottostare a tante cose nelle quali non desideriamo ancora e di nuovo infilarci, ma è inevitabile, è la vita. Insomma, non dico che nei film, o nei libri, si debba assolutamente fuggire dalla realtà e dalla routine, ma non c’è nessun bisogno di esagerare.

Mi viene spesso in mente la situazione standard serale di mio padre e mia madre, che dopo aver litigato perbene su quale programma guardare alla televisione principale, con tre altri apparecchi in casa, lei si addormentava sulla poltrona e lui faceva le parole crociate.

 

 

 

 

Capitolo 5

 

 

Sincronizzatomi non senza difficoltà con la sua profonda calma, Leo è una persona alla quale mi sento tanto vicino che ci vediamo anche durante i giorni in cui non ci sono riunioni, lo invito spesso a cena a casa mia, che ai fornelli c'ho una certa capacità e Florence preferisce ascoltarci distrattamente e lavare i piatti. Tutti e tre siamo buone forchette, ma non mangiamo qualsiasi porcheria ci mettono davanti.

Mi piace assai anche la compagnia di Dietmar e di Qiang, qualche volta sono venuto qui a Cime Tempestose nel fine settimana e le conversazioni che sono venute fuori sono state robe notevoli sulla filosofia della vita e relativa applicazione, che per la gente sono cose separate, nel migliore dei casi, ma qui si collegano perfino e si riesce a trovare delle attinenze insospettabili per la maggioranza degli abitanti della provincia di Pistoia o perfino del mondo intero.

La loro filosofia orientale mi pare che funzioni meglio delle nostre occidentali, per le quali sono sempre stato più che scettico, insomma la confusione ci garba poco a tutti e tre, siamo contro la competizione e il mondo - per come sta andando - non ci sconfinfera più da tempo.

Anche Marcos è calmo e ponderato, non ha la lentezza di Leo ma è acuto e divertente, in più ha un calore umano tipicamente brasiliano che gli permette di essere gradevole e assai poco invadente.

Alcuni di noi arrivano qui in mezzo a settimane di lavoro stressante, c'è gente sposata con regolare prole e tutto.

Personalmente lego poco coi più giovani tra cui Tommaso che mi ha portato qui, per quanto simpatico e affabile, è la persona alla quale mi sento meno vicino, forse perché è coniugato con tre figli. Non ci sarebbe niente di male, anzi, ma la vita di quel genere cambia irrimediabilmente una mentalità. Sia lui che Iuri hanno una maniera diversa di vedere le cose, Rino anche se è il più giovane, anche se poi non la applica alla sua vita reale, ha una filosofia più simile alla nostra.

La nostra di chi?

E poi come sarebbe la nostra filosofia?

Ci penso spesso. Non è solo una questione di età, ma di stile di vita, il fatto è che noi, anche se il mondo è cambiato, ce lo ricordiamo e ci piaceva di più come era prima. Ci rammentiamo perfino di quando si andava al bar a vedere la televisione e non tutte le case, specie in campagna, avevano la luce elettrica, la gente conversava di più personalmente e meno attraverso i vari tipi di apparecchi elettronici intermediari di oggi.

Intanto si sono formate due nuove fazioni rispetto ai finali dei racconti: i più antiquati preferiscono la teoria del piacere del cammino, dell'importanza più o meno equivalente di ogni parte del testo, gli interessa meno l'effetto finale forte e magari a sorpresa, agli altri invece no.

Noto però che anche chi, sebbene a voce dichiari il contrario, distribuisce poi nello scrivere più enfasi alle varie fasi nello scorrere delle storie, progressivamente meno all'indispensabile finale sensazionalistico.

Forse non se ne rendono conto ma si assomigliano sempre più, per questo Dietmar ha inventato un giochino, che li fa divertire nel cercare di indovinare chi ha scritto i racconti, tutti stampati in carattere NEW COURIER, che riproduce la calligrafia della più romantica e simbolica macchina da scrivere.

Raramente si indovina al primo colpo chi ha scritto il racconto e il più difficile da indovinare è proprio Iuri, che rideva dicendo che sarebbe stato di irrisoria facilità, sebbene inventi sempre delle scuse per non ammetterlo.

Una volta, insomma, il finale ...e tutti vissero felici e contenti era una maniera semplicistica di chiudere le ostilità. Nella nostra letteratura, gialla ma non troppo, l'assassino viene raramente assicurato alla giustizia, non solo, ma spesso ha ragione lui o si allea addirittura all'investigatore di turno per fregare le autorità costituite sempre meno giuste e più incapaci ogni giorno che passa, come gli altri esseri umani, di comportarsi in maniera coerente e leale.

 

Alla decima riunione, mi pare, o all'undicesima, Marcos si alzò e disse:

"Nessuno qui è capace di scrivere un racconto senza gli italiani di mezzo? Come è possibile che ci sia sempre da parlare di qualche italiano, quando si parla di gialli? E poi anche se fosse, i nostri non dovrebbero essere gialli alternativi?"

Risero tutti, ma quella sera si litigò di brutto, anche se era innegabile che avesse ragione, bastava prendere i verbali delle riunioni, dove c'era sempre in allegato ogni testo letto e guardare tra le righe.

Arrivammo alla conclusione che gli inventori della mafia, uno trai  popoli più emigranti del mondo, residenti nello stesso sottogruppo caucasico, avevano diritto - se non dovere - di essere citati in ogni atto di delinquenza, se non come braccio, spesso come mente, mandanti o esecutori di ogni prepotenza o porcheria della terra.

D'accordo: un'esagerazione del cavolo, ma loro, gli esseri umani, in un modo o nell'altro, sono tutti esagerati, anche se fanno finta di no, a pensarci bene anche io lo sono e questo in qualche modo ci unisce.

Verso mezzanotte, prima di buttarci sui materassini, conversai abbastanza con Marcos, seduti sul tronco in veranda, mi raccontò di Qiang, dicendomi cose assai eccentriche:

"Ci vuole tempo a capirlo, scherza sempre e non ride mai, la sua faccia - come avrai già notato - non è né triste né arrabbiata, è come se fosse sempre in meditazione, concentrato sulla sua respirazione. Se un giorno lo vedi sorridere è perché qualche cosa di veramente grave è appena accaduto. È l'unico qui che ha pubblicato libri per case editrici importanti, oltre ad essere il membro fondatore numero uno, il secondo è Dietmar. La loro filosofia è quella tipica orientale, se vai a vedere il buddismo stesso dice che la vita è sofferenza, ma non per questo il buddista deve necessariamente soffrire, anzi."

A prova di quello che era stato detto e dibattuto aspramente, il racconto più bello della ventiquattresima riunione parlava ancora di italiani. Lo aveva scritto Iuri e lo lesse abbastanza bene Dietmar. Iuri è un ex signore grasso e pelato che ci assicura di aver fatto l’assicuratore per cinquant’anni, anche se qualcuno obbietta che quel mestiere non esistesse ancora a quei tempi. Per riuscire a salire fino a Cime Tempestose è dovuto dimagrire trenta chili e andare in pensione, ma non ha rimpianti, dice e comunque è molto attivo su vari altri fronti di quella guerra senza quartiere che per lui, e per tanta altra gente, è la vita.

 

 

 

5) IL RITORNO DEL CIUCCI  Iuri Pecchia

 

“Siussi? Ma quale Siussi? CIUCCI! Si dice CIUCCI!”

I brasiliani avevano sempre avuto una certa difficoltà a pronunciare il suo cognome, di origine italiana e Rodolfo ci si era sempre arrabbiato, inutilmente.

Preferiva dimenticarsi che lui, come tutti i suoi compaesani di origine, non sapeva pronunciare la terminazione –ÃO, che avrebbe dovuto essere una specie di -AUN assai nasale, come nella parola ‘pão’, cioè pane, ma per tutti loro, figli di figli di immigrati italiani, inevitabilmente veniva fuori ‘pòn’.

Tutto questo non sarebbe stato un problema, né per i brasiliani e nemmeno per Rodolfo, ma a Rio Vermelho (Fiume Rosso) era troppo caldo, non ci si era mai abituato, anche se praticamente non conosceva altro posto che quello.

Sapeva che dove era nato il clima era più fresco e che la gente era più seria, non si facevano tanti intrallazzi e i propri superiori non erano corrotti come in Brasile.

Questo almeno ai tempi in cui era partito, con la sua famiglia, per l’America Latina.

Dopo una vita passata nello stato di Rio De Janeiro, alla fine della sua onorata carriera, l’ex delegado Rodolfo Ciucci iniziò vagamente a parlare di tornare in Italia.

Sì, lui diceva Italia, ma intendeva Mologno, dove era nato e vissuto fino ai cinque anni di età.

Certo che la sua pensione e la liquidazione di commissario della polizia, tradotti in Euro erano una miseria, anche in Brasile bastavano appena per non morire di fame, se tutto andava bene.

Sua moglie, Sueli Machado in Ciucci, non smetteva mai di ricordarglielo, come se ce ne fosse stato bisogno, ogni volta che entravano nell’argomento, ma a volte anche senza.

Rodolfo era un uomo pratico, anche se di soldi non ne aveva mai avuti, se l’era sempre cavata egregiamente... insomma, diciamo che se l’era cavata e basta.

Non aveva vizi, non spendeva nemmeno quel poco che si poteva permettere, tirava fuori la mano chiusa dalla tasca e l’apriva solo per la necessaria sopravvivenza e più per gli altri che per se stesso.

In Brasile, come nel resto del mondo, ma forse un po’ di più, i prezzi aumentano ogni giorno, ma gli stipendi no.

Lui in famiglia aveva sempre parlato, oltre al portoghese-brasiliano, anche la sua lingua originaria.

In più aveva finito e ripetuto due volte il corso d’italiano, organizzato dal consolato, dove sua moglie ora anche faceva lenti progressi.

Intanto il Ciucci leggeva quanto poteva, da Ammanniti a De Crescenzo, Cipolla, Eco, De Carlo e anche Camilleri.

Ora l’italiano lo parlava bene assai e lo capiva anche meglio, sentiva che ce l’aveva proprio nel sangue.

Fatto sta che dopo aver lottato verbalmente per settimane, con sua moglie, ma anche con i suoi figli Batista e Pedro, facendo ricorso, più spesso del solito, alla sua più peninsulare bestemmia, ci fu un’inaspettata combinazione di fatalità che cambiò le carte in tavola.

La vita, come si dice in Brasile, è una scatola a sorpresa e uno se ne accorge soprattutto dopo che una grossa gli è capitata.

Terzo figlio di sua zia Clara, dopo due femmine, suo cugino Mario era emigrato in Venezuela per seguire il padre, che aveva una grande fazenda, ma lui invece era diventato ricco nell’ambito dell’edilizia.

Poi era tornato anche lui da pensionato a morire in Italia, pochi anni dopo e precisamente a Fornaci, a due chilometri da Mologno.

In precedenza i due figli di Mario, con le rispettive signore, erano morti schiantati in un incidente stradale di un’automobile contro una quercia, la moglie invece di cancro e forse è meglio evitare ogni commento, in questo caso.

Insomma, quei due cugini non avevano avuto mai molti contatti e quei pochi da bambini.

Soprattutto negli ultimi anni, loro non sapevano né dove si trovavano, reciprocamente e rispettivamente e se, da qualche parte delle terre emerse conosciute, fossero ancora coi piedi sopra e non sotto.

Ricevuta la notizia dell’eredità di Mario, però, finalmente tutti gli argomenti contrari di sua moglie e dei suoi figli caddero di colpo, si dovettero rassegnare.

“Guardate che io ci ho pensato. L’unica risposta che ho trovato è questa.”

Disse, rispondendo ad una domanda che nessuno gli aveva fatto, il commissario in pensione, il giorno prima di partire, a cena in un ristorante trai più cari, colla sua famiglia e le famiglie dei due figli:

“Mio cugino era molto attaccato a mamma Nada…”

I bambini risero divertiti.

“Sì lo so che è un nome buffo e qui in Brasile significa ‘niente’, in Italia è solo un nome, poco comune, ma esiste e non ha un significato. Va bene?

C’è anche stata una cantante livornese, degli anni 60, che cantava la famosa canzone Ma che freddo fa… ma che ve ne può fregare oggi a voi, qui a Rio Vermelho?”

I bambini tacquero, per via dello sguardo minaccioso del nonno e lui poté finire la storia che poi loro si ricordarono per sempre, perché quella era l’ultima volta che lo avrebbero visto in Brasile.

“Mia madre e mio cugino erano molto attaccati, prima che lui partisse per il Venezuela, forse più lei a lui, che lui a lei, specialmente alla luce dei fatti che seguirono, o magari dovrei dire: alla luce della loro fottuta mancanza.

Infatti, poi, ogni anno, quando veniva in Italia in ferie, ad un certo punto smise di chiamarla, non so perché, smise di visitarla e lei si arrabbiò come una belva, non gliela perdonò mai e dopo non si sono incontrati che in paradiso, forse, o magari in purgatorio, o proprio all’inferno, nel caso che esistano veramente, da qualche parte. Credo che lui si sia sentito in colpa, in qualche maniera, ecco perché. Io lo so come vanno queste cose, un povero diavolo, una volta nella sua vita ha una debolezza o due, (a volte anche tre,) poi dovrebbe dare spiegazioni, che non gli garba per niente di concedere a chicchessia. Insomma quel disgraziato dovrebbe riuscire ad ammettere la sua colpa, se di colpa si può parlare, ma non ci riesce e gli anni passano, inesorabili. La gente poi ha il brutto vizio di morire, proprio quando nessuno se lo aspetta e le cose diventano impraticabili, ecco come funziona. Per questo Mario ha scelto me. L’unico rimasto in vita di noi tre fratelli, figli di Nada Bertani in Ciucci.”

 

Il viaggio fu lungo, perché da Rio Vermelho, Sueli e Rodolfo andarono in autobus a S.Paulo, che sono quasi due ore, se non ci sono imbottigliamenti, cioè avendo fortuna assai e loro quella volta ce l’ebbero. Da lì in aereo a Buenos Aires, aspettarono due ore e mezza, poi volarono fino a Madrid, dove  - dopo quattro ore e cinque minuti - ne presero un altro per Milano, lì attesero tre ore e venti e saliti sull’ultimo aeromobile, ne scesero finalmente a Pisa. Trenta ore tra autobus, voli e attese, ma non erano ancora arrivati. Quando si sedette sulla Fiat Uno presa a nolo, nonostante le lamentele di Sueli, volle partire subito per la destinazione finale, che doveva essere a circa un’ora da lì, ma coi numerosi, relativi e normali sbagli di strada, diventarono due e qualcosa.

L’ex commissario e sua moglie andarono dal notaio, a Barga. Era piuttosto freddo e dal fatto che non era sudato, Rodolfo dedusse che non era per niente stanco.

Bisogna sapere che un povero essere umano in Brasile sudava 24 ore su 24, 12 mesi all’anno e dal livello di inzuppamento degli indumenti, lui aveva imparato a ricavare il corrispondente grado di stanchezza.

Non aveva mai conosciuto, nemmeno da bambino, il notaio Ivo Chiappa, quando era basso sì, ma magro, un bambino timido, che col tempo era diventato tutto il contrario. Uomo grasso, basso e sempre rosso in faccia, amante del vino buono e delle storie raccontate la sera davanti al caminetto acceso a illuminare la stanza e a lasciare le descrizioni del passato nella penombra più romantica. Parlarono un bel po’ dei bei tempi andati, quando le mamme per mettere a letto i bambini gli dicevano: ora tutti al cinema Bianchi! Alludendo alle candide lenzuola che a quei tempi erano solo di quel colore.  Il notaio poi rise divertito alle storie poliziesche di Rodolfo in Brasile, lui però gli disse che là quelle erano storie serie, anche se a raccontarle lì non lo sembravano. Il Chiappa allora rise anche di più.

Gli era sempre piaciuto il Brasile, chissà perché, era un paese che avrebbe sempre voluto visitare: “Ma come si fa? Non si fa in tempo a fare tutto, quando mi guardo allo specchio vedo un vecchio, ma dentro di me io non mi sento proprio così… ho più energia di quando avevo vent’anni!”

Alla fine dei racconti e degli inviti reciproci, poi l’atto fu finalmente letto e le facce diventarono serie. Il capitale era diviso in cinque parti, trai quattro figli vivi dei due figli morti di Mario e Rodolfo. La sua parte non era tantissimo, ma neanche poco, soprattutto se pensava a quanti Reais ci avrebbe preso a cambiarli. La vita però è una scatola a sorpresa, Rodolfo lo sapeva bene, anche se spesso se ne dimenticava. La lettura delle varie voci terminò con un inaspettato scoppiettio di fuochi artificiali:

“… fa parte del lascito la casa colonica di Mologno, via di Campitello 12, con terreno circostante, stalla, i due garages, fienile, pollaio e metato con tutti gli annessi e connessi a essa congiunti e/o contenuti.”

Il Delegado si mise a piangere, perché era nato lì e quel posto aveva un valore sentimentale immenso per lui, ma la casa era di zio Dorando, padre di Mario e fratello di sua madre Guglielmina. Mentre sua moglie gli asciugava gli occhi con un fazzolettino e lui la scacciava con la manona, il Chiappa disse che i nipoti di Mario ci tenevano, come no, ma siccome il testamentario c’era assai affezionato e sapeva che loro l’avrebbero venduta, aveva scelto di darla a lui, con la giustificata speranza che invece ci sarebbe andato ad abitare. Poco lo conosceva, ma c’aveva azzeccato in pieno.

Scesero insieme al podere, di quasi un ettaro di superficie, perché le chiavi le doveva ritirare lo stesso Chiappa da un certo Rossi, che per essere chiamato vicino era forse un po’ troppo lontano, ma era pur sempre la casa abitata più prossima a tiro.

“Lei penserà che questa mia non è una procedura proprio a termini di legge, e avrebbe ragione a farmelo notare, ma è che ogni tanto Celso va ad aprire le finestre, leva i topi dalle trappole, rimette le esche… un mese fa il vento aveva strapazzato le tegole vecchie del tetto e lui è andato su da solo e le ha sostituite.

Insomma, un brav’uomo, come pochi ce ne sono, purtroppo, visto che nessuno lo paga per il disturbo, ma lei non lo conosce?”

Le parole del notaio finirono esattamente nell’attimo in cui quello stesso brav’uomo, in carne e ossa, saltò fuori da un cespuglio, proprio davanti alla macchina, che il Ciucci dovette frenare bruscamente per non metterlo sotto. Con una vanga tra le mani robuste, sembrò a Rodolfo, per quell’attimo di plastica immobilità, la statua di cera del contadino russo ai tempi della rivoluzione bolscevica, da Madame Tussaud a Londra, che lui non c’era mai stato, ma aveva visto le fotografie. Sueli invece si era spaventata. Sarà stato il baffo folto e spiovente, lo sguardo severo, pressoché staliniano, o la sorpresa di trovarselo davanti all’improvviso, l’agricolo utensile in mano, imbracciato come se fosse un’alabarda. Una volta scesi dalla macchina e scambiate le regolari strette di mano, le prime impressioni e relative frasi sul tempo di quel marzo imprevedibile e burlone, (perciò un marzo classico,) insomma, dopo nemmeno un minuto, Celso gli faceva già un’impressione diversa e migliore. E Rodolfo lo conosceva, sì, anche se l’aveva visto l’ultima volta una sessantina di anni prima e ci mise qualche secondo per ricollegare il nome alla persona cogli stivali di gomma a quel bambino grasso, sempre sporco e vivacissimo che d’improvviso si ricordò assai nitidamente. Suo cugino Mario lo chiamava maialissimo, ma non era il momento di rinverdire quell’immagine remota del passato e magari - per Celso - meno divertente. Ora aveva dei baffoni proprio fuorimoda ed era, in relazione allo spazio ed al tempo, forse meno grasso; doveva avere più o meno la sua età, qualche anno meno, probabilmente. Non volle niente per il suo lavoro e Rodolfo smise d’insistere quando Celso disse:

“No. Ve l’ho detto già prima, Rodolfo. Basta che m’invitiate ogni tanto a bere un bicchierotto, che ne so io, una fetta di salame e una di formaggio.”

“Se m’invitate anche me, mi farò carico di vettovaglie aggiuntive e di vino bono.” Si affrettò a dire il Chiappa e a Rodolfo parve di capire che nessuno dei due scherzasse.

In Brasile è uno stereotipo conosciuto, si dice sempre agli amici e ai conoscenti che si farà un churrasco (grigliata o barbecue,) per invitare tutti loro, per stare un po’ insieme - che diamine - e rimettere in ordine cronologico i pettegolezzi arretrati. Però poi l’ambizioso progetto  - spesso annunciato ai quattro venti - ‘regolarmente non esce dalla carta’, come si dice là, e tutti sanno che quella è la normale procedura, in questo determinato tipo di situazione. In Italia no, se si ricordava bene, promettere significava anche compiere, pur se le notizie, specialmente quelle politiche degli ultimi anni, sembravano dichiarare proprio il contrario. Rodolfo comunque rimase gradevolmente stupito e disse:

“Con piacere, Celso, anche lei Chiappa sarà il benvenuto, dopo tutti questi anni non mi aspettavo di essere accolto così bene, tu sei sposato Celso? Hai famiglia?”

Ma Celso non rispose, dal suo sguardo e da quello del Chiappa, capì che aveva toccato un tasto dolente. Trovarono una scappatoia all’imbarazzo andando a vedere la casa, che in fondo erano lì per quello. Era enorme e disabitata da parecchio tempo, l’umido era forte e diffuso, soprattutto dal lato del fiume, oltre il quale c’erano anche le Apuane, ma le pareti di pietra e il tetto, per fortuna, si trovavano in discrete condizioni. Le cantine nascondevano ancora le enormi, vecchie botti intere. Secondo Celso si potevano fare dei mobili con quelle tavole di legno buono assai, se Rodolfo però avesse voluto metterci del vino, si potevano usare anche meglio.

“Questa zona per fare il vino non è molto battuta, ma basta guardare queste botti giganti, per capire che una volta non era così. Certo, manca la forza del sole, ma del vinello leggero e onesto si può anche fare, come faceva il tu’ nonno, che tu’ padre quando andava giù a prenderlo in cantina lu’ si disperava, ma un era poi così cattivo come diceva lu’.”

“Mio padre è sempre stato esagerato.”

“Sì-sì, me lo ricordo.”Disse il Chiappa ridendo e anche Celso fece di sì con la testa, serio. Poco dopo accompagnarono il notaio a casa e andarono in una pensione lì vicino, dove, dopo una cena in pizzeria, passarono la notte fra sogni di un ben determinato passato remoto e altri di un futuro prossimo gioioso, ma più incerto e sfocato.

Alle sette il giorno dopo erano di nuovo in piedi e a Mologno, in via di Campitello, ci arrivarono alle otto spaccate.  Le montagne a Mologno sono soprattutto intorno, il paese è costruito sul largo greto del fiume, ma chiamarlo paese è eccessivo, trattandosi di una trentina di case sparse e nemmeno tutte abitate. Rodolfo ammirò in silenzio i muri della grande casa, fatti di pietre levigate e arrotondate dalla corrente del fiume, erano possenti trapezi che partivano larghi da terra, per giungere un po’ meno massicci al tetto, stretti appena un metro, lassù in alto. Il pianterreno era una cantina buia e polverosa, piena di ragnatele spesse e accumulate che dovevano avere l’età di Rodolfo o forse più. Partiva dal livello della strada, che lì faceva novanta gradi, (passando stretta-stretta tra la casa e la stalla/fienile/garage 1,) per infilarsi nel leggero pendio, man mano che saliva e diventava seminterrata. Oltre il portone alto assai, sul lato nord, per poter far entrare i barrocci che trasportavano i grossi bigongi della vendemmia, aveva solo qualche lercia e intasata presa d’aria, protetta da reti metalliche a maglia fina. I due piani di sopra erano divisi in quasi una ventina di stanze, ma separati verticalmente in due abitazioni. Una volta i contadini abitavano in quella a nord, la più piccola, o meglio dire: la meno grande. Sueli avrebbe scelto quella, se non altro perché per loro due bastava e avanzava, costava meno a rimetterla a posto e ci voleva meno a pulirla. Rodolfo però che nella parte sud c’era nato, non volle sentire storie.

Andarono a piedi a chiamare Celso, il quale avvisò che volendo lui c’aveva anche il telefono fisso e gli mostrò pure un cellulare modernissimo. Rodolfo invece no, non ce lo aveva mai avuto nemmeno in Brasile, a parte quello di servizio. Celso portò un termos pieno di caffè e tre tazzine. Si misero a pianificare i restauri seduti sulle scale di pietra del fienile, nella quale immagazzinavano la paglia per le vacche e da un buco le nutrivano buttandone una certa quantità nella mangiatoia della stalla sottostante. Celso e Sueli parlavano dei lunghissimi dettagli, perché lei parlava un italiano abbastanza maccheronico, che l’altro in qualche modo capiva e rispondeva in gergo Garfagnino dell’alta Mediavalle, che lei intuiva o magari faceva finta.

C’è da dire che, purtroppo,  in Garfagnana le C e le Q diventavano G, le T si trasformavano in D, le P erano le B… insomma le consonanti, in genere, s’indurivano. Ciucci quindi era più una specie di Giuggi, o qualcosa del genere. I linguisti, per fortuna, dicevano che la colpa era tutta dei Celti Liguri, infatti, una pronuncia simile, era presente anche sul litorale della provincia di Lucca, poi nel territorio di Massa e Carrara, risalendo cioè verso nord, nord-ovest. Non per questo Rodolfo non riusciva a fare attenzione, la sua mente se ne andava in giro per via dei ricordi e all’accento locale non ci pensava nemmeno. Certo, in una casa così c’era della storia, c’era passato un mucchio di gente. A vederla ora si ricordò che anche sotto la casa sud c’era un’abitazione meno ampia, prolungamento della cantina, dove stavano altri contadini. Lì di fronte l’ampia aia di cemento, cogli scoli laterali, dove si seccavano i fagioli, il granturco sgranato e così via. Di questi contadini si ricordò anche le facce e l’aspetto fisico, ma non i nomi. Celso gli disse che lui si chiamava Pietro Cavani, quello di lei se lo era dimenticato, una donna molto grinzosa e cogli occhiali, sempre con un grembiule marrone impermeabile, ma era gente molto simpatica e gentile. Poi Rodolfo si ricordò: lei si chiamava la Meri. Figurarsi che a quel tempo che lui se ne andò in Brasile, con la sua famiglia, i contadini che vivevano nell’altra casa, lato nord, erano degli abbrutiti a causa dell’alcool e che quasi non parlavano, camminavano come automi. Lui un gigante magro dal naso lungo e storto e dai capelli a cespuglio, lei una donna grassoccia dalla pelle chiara ma dalle guance - non a caso - rubizze, dagli occhi sgranati, che parevano vagare nel vuoto. Il nonno piegato in due da un’artrosi feroce, ma che non smetteva mai di lavorare. Solo i due bambini parevano normali, almeno a quel tempo, chissà dove erano finiti. E poi c’era anche Celso Rossi, che ora si era messo subito a disposizione, come se fosse stato tutti quegli anni ad aspettare il suo ritorno e che usava un italiano dalle conzonanti più dure del normale, la parlata Garfagnina.

Con la primavera che stava quasi diventando estate, iniziarono i lavori. Per non spendere tanto bisognava avere pazienza, aveva detto Sueli, che sennò i soldi dell’eredità finivano e dopo dovevano tornare in Brasile con la coda tra le gambe, o qualcosa del genere, che una maniera di dire così esisteva anche là. Perciò sistemata alla meglio la casa a sud, a pianterreno, quella piccola dei contadini, provvisoriamente si stabilirono lì. Prima di tutto si misero a scoperchiare e a rifare i travi del tetto, dove ce ne fosse bisogno, non erano tanti ma la confusione che quell’operazione provocava era delle peggiori. Rodolfo vagava di qua e di là, su e giù dalle scale, perduto nel passato remoto, non era in condizioni d’influire minimamente nei piani di restauro di sua moglie. Pur essendoci nato, quei muri, quelle finestre, quei mobili vecchi, tutta quella maniera di vivere differente dalla sua, o da quella brasiliana, gli si erano trasformati in esotici, estremamente romantici. Tra un bicchiere di vino rosso e una fetta di biroldo o di cacio, sia Celso che l’aiutante Delfo Giuntini, un arzillo vecchietto di Casabasciana, erano diventati di famiglia.

“La signora lo sa che qui c’è da fare assai, ma basta non avere fretta.”Diceva ogni giorno Celso.

“Fretta non ne abbiamo.”Rispondeva Sueli. “Basta che riusciamo a vivere decentemente mentre aspettiamo di essere pronti.”

“Eh sì.”Commentava distrattamente Rodolfo, che era così contento che avrebbe anche dormito fuori. E intanto maturava idee su idee per poter lavorare, ma non troppo, solo per mantenersi, ma non proprio come un re, che tanto la regina ci era abituata. Produrre vino fu la prima idea, la seconda un agriturismo, la terza un museo di agricoltura che tanto la casa è grande e poi c’è anche la capanna, le due rimesse e l’altana. La quarta era di fare tutto quanto insieme. Sueli, Celso e Delfo cercavano di frenare l’entusiasmo di Rodolfo, ma avevano troppo da fare, i due muratori a sporcare tutto e lei dietro a pulire per quel che poteva. Appena lo persero di vista, l’ex delegado stava già piantando uva, insieme a Dome Orsucci, una vecchia conoscenza, diventato esperto del ramo di vite, che mentre lo faceva gli mostrava come si tirava su una vigna. Nel tempo libero, poi, da solo, restaurava gli attrezzi agricoli di legno e di ferro. Si era comprato due pastori maremmani, Topo e Gigio, che abbaiavano assai, quando non c’era motivo e facevano le feste a chiunque arrivasse. Per fare la spesa, comprare il materiale per i lavori, più altre cose di ordinaria amministrazione, era necessaria un’automobile e il Ciucci comprò una vecchia ma ben conservata Fiat Panda verdolina.

“Il vino è cosa lenta, solo per assaggiare il primo frutto delle tue fatiche ti ci vuole del tempo, le viti non si possono accellerare, no, no, ci vogliono degli anni.”Diceva Dome.

“Le idee non ci vengono mai fuori realizzate come si vorrebbe.” Si lamentava allora Rodolfo, Delfo e Sueli scuotevano malinconicamente la testa, forse anche un po’ ironicamente, Celso suggeriva:

“Però, se mentre aspetta di bere quel vino, lei ci da’ una mano, noi finiamo prima e poi ci mettiamo tutti insieme a preparare il museo e l’agriturismo, intanto le viti passano i loro primi anni di rodaggio e noi non ce ne accorgiamo nemmeno.”

Rodolfo ci pensò bene, per qualche giorno, ma poi approvò e ci si mise subito con tutta la sua buona volontà. Però la schiena gli faceva male e anche la sua mente soffriva, vagava intorno senza riuscire a fissarsi su quello che stava facendo. La paiolina di cemento facilmente veniva rovesciata sulle già maltrattate scarpe altrui, i martelli cadevano dall’alto a rischio e pericolo di chi stava in basso, colla carriola sbatteva nel muretto appena murato e lo abbatteva. Insomma: ogni cosa veniva fatta nella maniera sbagliata, al momento sbagliato. Da sempre ruminava a lungo i suoi pensieri, come un attempato toro coi baffi, Rodolfo era troppo distratto, per fare un lavoro in cui il cervello si lascia spesso riposare, mentre il corpo si dà da fare. Allora il Chiappa, una sera davanti al caminetto dei Ciucci, ebbe un’idea pratica delle sue:

“La polizia qua è scarsa, poi li conoscono tutti e con la divisa danno troppo nell’occhio, la gente è un po’ violenta, ignorantotta, un investigatore privato è quello che ci vuole e ci manca.”

Detto fatto attraverso il notaio di cui sopra, amico di avvocati dei dintorni e di varie persone facoltose, si trovarono i primi clienti. Il primo caso fu quello dell’allevamento di trote Chiocca di Gallicano. Il posto era nascosto nel bosco e se non ci fosse stato l’ingresso e l’insegna non sarebbe stato possibile vederlo, dalla ripida strada per Verni. Rodolfo se ne appassionò subito. La signora Isolina era una donna spiccia e robusta, aveva preso le redini dell’impresa colla morte del marito e aveva tre dipendenti che si alternavano nei tre turni di otto ore. Lì ci voleva qualcuno 24 ore su 24, chi rimaneva di notte era guardiano, sì, ma doveva anche saper fare tutto quel che era necessario, a partire dal mangiare per i pesci fino al controllo della temperatura dell’acqua per gli avanotti, durante l’inverno. La vedova Chiocca disse che il problemaccio era che le sparivano regolarmente trote piccole, medie e grandi, perfino gli avanotti.

“Aha!” Disse subito Rodolfo.

“In che senso?”Chiese la signora.

“Nel senso che qui si tratta della concorrenza, magari nemmeno troppo lontana.”

Le grandi vasche di cemento erano state costruite sui due lati di una stretta valle, in mezzo scorreva il torrente dal quale prendevano l’acqua, gli alberi intorno erano alti e frondosi. Le trote erano di due tipi, Iridea e Salmonata.

Isolina disse che di soldi non ce ne aveva, ma che avrebbe potuto pagare il suo lavoro in trote fresche da mangiare e consegnate a casa sua, per una quantità da stabilire. Gli piacevano le trote a lui e a sua moglie? Sì, certo, anche se non le avevano mai assaggiate. Allora lei propose che si poteva anche arrivare a una quantità di cento chili, dei due tipi di trote, da pagare in due anni, da distribuire con un massimo di due chili alla settimana, salvo debite eccezioni. Il pesce gli piaceva, perciò accettò e non volle nemmeno sapere come si sarebbero regolati se magari non avesse acchiappato i ladri. Per come era fatto lui se l’era già presa a cuore ed era contento anche di ricominciare con il suo mestiere che gli era sempre piaciuto, però visto da un punto di osservazione differente, certo meno burocratico. La corruzione in Brasile non gli era mai andata giù, aveva sempre avuto dei superiori figli di puttana che pensavano solo a riscuotere i soldi di protezioni varie e i cittadini che andassero a farsi fottere. Il Ciucci volle iniziare subito e, visto che partiva in quarta, la vedova Chiocca gli disse che non c’era fretta, lì solo la sua presenza scacciava i malintenzionati.

Non gli era mai capitato che la vittima non avesse una smania dannata di prendere i malfattori, però gli piacque.

Si mise seduto su una panca e lasciò riposare un poco la mente, col gorgoglio dell’acqua come sottofondo, anzi, si stava quasi addormentando, ma lo prese improvvisamente un brivido di freddo e visto che la signora se ne era andata, si avvicinò all’inserviente di turno, Graziano Della Nina, che stava lanciando palate di miscela alle trote grandi, quelle già pronte per la vendita, gli spiegò. Graziano era un ometto silenzioso ma efficiente, secondo Isolina. Rodolfo cominciò a fargli domande a largo raggio, come si fa all’inizio, ma dopo un quarto d’ora cominciò a stringere:

“Con tutta questa enorme quantità di esemplari, divisa per tipo e grandezza, in vasche differenti, come si fa a capire che mancano trote e avanotti?”

“Io non lo so, lo chieda alla signora, a me mi pare tutto normale.”

“Ma voi fate inventari? O non avete sistemi di conteggio?”

“Finora no, almeno noi guardiani no, lei dice di sì, ma come non lo so...”

“Quindi Lei non ha notato niente di strano, in questi giorni, non lo so, qualcosa lasciato fuori posto...”

“Senta: qui ci si lavora in quattro, se si conta anche la padrona, le cose fuori posto si trovano sempre, per forza, ognuno c’ha il su’ sistema di lavoro, no?”

Il sole batteva poco in quell’avvallamento e verso le quattro di pomeriggio era già un freddaccio cane. Andò a casa di Nanni Cuma e subito dopo da Reno Treppio, gli altri due inservienti; le risposte furono in sostanza le stesse, alle medesime domande, parola più, parola meno. Ovviamente Isolina aveva un’opinione differente e giustificata, sull’argomento, la mattina dopo gli disse:

“È chiaro, caro il mi’ Ciucci, che se io dicessi i miei sistemi di conteggio a loro perderei un vantaggio, più che altro gli faccio credere di averne, ma la verità è che non ne ho nessuno, solo che, quando una grande quantità manca, salta all’occhio.”

“Quello che è strano allora, è che loro non abbiano notato niente, non le pare?”

“Magari sì.”

“E poi anche che siano tutti e tre d’accordo.”

“Beh, ora che me lo fa notare...”

La grande abilità da sbirro del Ciucci era che sapeva ascoltare ogni voce del coro, anche quando apparentemente stavano tutti zitti. Oppure quando erano tutti stranamente d’accordo, che è una cosa che non succede quasi mai, nel mondo emerso dalle acque, quello conosciuto dagli uomini.

 La sera del secondo giorno, davanti alla tavola apparecchiata, sorseggiando un bicchierotto di vino bianco, assaporando le prime trote della ditta Chiocca, fatte al forno col rosmarino e aglio, iniziò ad esporre il caso a quella che lui considerava la sua squadra di collaboratori, la quale, anche se non lo sapeva, non fiatò finché lui non avesse terminato del tutto il resoconto.

“Queste trote en propio bone...”Disse allora Celso.

“Davero, caro il mi’Ciucci.” Aggiunse Delfo.

“Ma i congiurati non potrebbero essere tutti e tre i guardiani?” Chiese Sueli.

“Non è escluso, sennò mi pare strano che siano così d’accordo e non abbiano notato niente e nessuno.” Disse Rodolfo.

“E se invece avessero ragione proprio loro?” Domandò Celso.

“Cioè che non mancasse niente?”Chiese Sueli.

“Non lo so. Mi pare tutto un po’ troppo manovrato... qui qualcuno non me la conta giusta, oppure anche tutti e quattro.” Concluse Rodolfo.

Dopo due ore di conversazione, di caldarroste e di vino rosso novello, prima di chiudere ufficialmente la seduta, per andare finalmente a letto, decisero che anche Sueli sarebbe andata a vedere la situazione, a fare qualche domanda cammuffata, non avvertendo nemmeno Isolina, come semplice visitatrice e potenziale cliente di un domani prossimo.

Intanto il Ciucci si dette da fare a trovare concorrenza attorno che non trovò, almeno fino a Pieve Fosciana, cioè a una ventina di chilometri da lì.

Troppo lontani?

L’allevamento in questione era il più moderno e computerizzato, gli avanotti venivano svezzati all’interno di un capannone climatizzato.

Erano disponibili sette tipi di trote differenti, che Rodolfo, prima, non sapeva nemmeno che esistessero, tra cui una trasparente della Cina, che mentre nuotavano gli si vedevano tutti gli organi interni che facevano proprio impressione, per non dire schifo.

A parte quella loro sottile antipatia, di gente che pareva lavorare con oggetti e non con esseri viventi, il Ciucci non ce li vedeva proprio, quelli, a rubare le trote di un allevamento più all’antica, con molte meno possibilità e varietà di loro.

Il secondo allevamento, in ordine di distanza, invece era a Saltocchio, a più di 30 km da Gallicano.

Lontanissimo?

Quella sera mangiarono più sul pesante: salsiccia in umido coi fagioli; e per bere, bevettero più sull’assai.

Celso era esausto e Delfo parlava anche meno del solito, che era cosa quasi impossibile.

Sueli gli spiegò che avevano fatto la ‘gittata’ di cemento in cantina, quindi le idee, che erano già poche, si erano tutte sciolte nel vino di ora e nella stanchezza che c’era già prima.

Sueli, quando quei due se erano già andati a casa del Rossi, disse in portoghese che era stata all’allevamento e c’era di turno Reno Treppio.

“Mi è sembrato sospettoso, si guardava attorno in maniera strana, come se dovesse arrivare qualcuno; quando gli ho detto che volevo solo visitare l’allevamento, c’è mancato poco che mi mandasse affanculo.

A tutto quello che gli ho domandato, o non mi ha risposto, o lo ha fatto telegraficamente o evasivamente.”

“È normale. O magari invece no.”

“Mi ha piantato in asso, non ci credi? Ha detto che aveva da fare.”

“Ma quando ti ha lasciato da sola, tu ne avrai approfittato, o no?”

“Da sola ma non troppo, ahà Rodò! L’ho sorpreso più volte mentre mi spiava da lontano, in mezzo agli alberi o dalle finestre del magazzino.”

“Comunque?”

“Comunque sia una cosa l’ho notata, forse anche interessante. Non lo so.”

“E cioè?”

“C’è un viottolo nel bosco, che tra gli alberi porta in fondo alla recinzione, lì la rete è un po’ storta, c’era anche del fango attaccato, con dei fili d’erba, come se qualcuno l’avesse scalata per entrare e uscire.”

“Bravissima!Io lo sapevo che mi avresti trovato il dannato bandolo della matassa!”

Quella notte Rodolfo sognò di essere dentro ad un canale, lui stesso era un pesce, ma non ce ne erano altri attorno e fischiava forte anche il vento.

Il vento sott’acqua?

Il sogno purtroppo non spiegò questo dettaglio, ma quando si svegliò, era tutto sudato e fuori il vento fischiava veramente.

Le cose non quadravano, e perché avrebbero dovuto? Sia in Italia che in Brasile le cose non quadrano quasi mai.

La mattina alle sette era già all’allevamento, la prima cosa che fece fu sincerarsi, con Nanni, sui turni di quei giorni. Lo chiamavano Calimero perché era scuro di pelle, per via della pubblicità degli anni 60, nella quale un pulcino nero, detto Calimero, si lavava con il detersivo AVA e diventava bianco, come tutti gli altri. I pulcini più che bianchi sono gialli, ma la televisione a quei tempi era in bianco e nero, lui quella pubblicità non l’aveva mai vista, perché era in Brasile, dopo che Isolina gli aveva raccontato quel dettaglio se lo era fatto spiegare dal Chiappa bevendo un caffè insieme nel suo ufficio.

La rete intanto era stata sostituita, però, da palo a palo, circa quattro metri, con due pali metallici in mezzo. La stradina invece era ancora al suo posto originario. Se a farlo era stato Reno, o Nanni, non si poteva sapere, ma ora era sicuro che il colpevole era uno di loro, o almeno era un complice. Nanni era scuro di carnagione, ma pareva anche arrabbiato, Rodolfo gli chiese della rete, ma non ne sapeva niente, e di quella stradina sotto? Nulla, neppure. Allora gli domandò se conosceva la parola omertà e se era per caso Siciliano, sì, ma solo di origine, per la Sicilia e solo per sentito dire, dell’omertà. I suoi erano arrivati da Pachino molti anni prima e lui era nato proprio lì vicino, a Sommocolonia. Ora mentre Nanni raccontava, contento di parlare di cose belle del passato, Rodolfo faceva di sì con la testa, ma invece si chiedeva perché uno che aveva accesso libero all’impianto, doveva scavalcare la rete, poi addirittura sostituirla perché nessuno se ne accorgesse.

Scese sulla stradina passando da fuori, camminando in senso inverso arrivò su uno spiazzo, che era raggiungibile da un’altra strada, ma non da quella asfaltata che conduceva all’allevamento. Poi il Ciucci considerò che naturalmente ci potevano essere altri allevamenti in formazione, non ancora aperti al pubblico. Attraverso il Chiappa, uomo ammanicato con il potere costituito, venne a sapere che ce n’era uno a Ghivizzano e lo andò a visitare di nascosto. Stavano ancora murando le vasche, su una specie di altopiano senza vegetazione, che li poteva spiare bene col cannocchiale del Chiappa. Notò subito che di pesci lì attorno non se ne vedevano, né c’erano possibili nascondigli.

Quella sera Delfo e Celso non c’erano, erano troppo stanchi e non sapevano nemmeno più cosa dovevano fare, visto che la parte in muratura ora era finita. Colse l’occasione per andare a casa del Chiappa Ivo che lo invitava da tempo e lui diceva sempre di no. La moglie era più grassa e più bassa di lui, che non era cosa facile, se glielo avessero detto non ci avrebbero creduto. Però era anche una cuoca coi controfiocchi, Adele, che zitta-zitta gli aveva preparato delle fottute pappardelle alla lepre, di secondo invece aveva infornato uno stinco di maiale con le patate e broccoli, che smisero tutti di parlare finché non fu spolpato l’osso e pulito il vassoio.

Essendo il notaio persona di possibilità, aveva innaffiato il tutto con un Brunello di Montalcino, che se ne erano scolati due bottiglie. Dopo le donne si ritirarono alla televisione, al normale pettegolezzo di rito, tanto per fare conoscenza e nello studio di Ivo i due si stravaccarono davanti ad una bottiglia quasi piena di cognac originale francese. Pareva che se non fosse stato proprio francese non si poteva nemmeno chiamare cognac, secondo le parole del Chiappa, che per la mangiata in questione parlava piuttosto a fatica, ma zitto non ci stava lo stesso. Mise su un CD di Andrea Bocelli e quando Rodolfo stava per addormentarsi beatamente, sulle melodiose note di Con te partirò , Ivo che se ne era accorto e aveva ricominciato, coll’aiuto del cognac e della finestra aperta, a respirare meglio, alzò il volume della voce e disse:

“La signora Isolina mi ha detto che le indagini vanno bene assai...”

“Se vanno bene non lo so, ma mi pare che quella gente là dell’allevamento non abbia tanta voglia di collaborare, a dire la verità.”

“In che senso, Ciucci?”

“Mi pare che tutti nascondano qualcosa, che mi vedano come un male, nemmeno troppo necessario, se lo vuol sapere proprio.”

“Però lei ha iniziato da troppo poco tempo, mi scusi tanto, non pretenderà di trovare subito il colpevole!”

“A dire il vero non sto cavando un ragno dal buco, in più non posso fare a meno di notare che tutti stanno remando contro...”

“Ah.”

“Sospetti per me sono loro, tutti loro, dicendo le cose come stanno veramente.”

“Ma come?”

“Forse dovrei fare degli appostamenti notturni, ma con la mia età e il freddo che c’è...”

“Nooo, non credo proprio che sia necessario, vada con calma e le cose si incastoneranno a dovere, nel loro rispettivo posticino, dia retta a me.”

Ma ormai la calma se ne era andata via col vino e col cognac e Rodolfo raccontò della rete storta e sporca, poi sostituita, del sentiero che portava a uno spiazzo di un’altra strada e del comportamento strano dei vari dipendenti, della sospetta mancanza di fretta della signora Chiocca e cose di questo genere. Ivo Chiappa iniziò a preoccuparsi anche lui e il Ciucci ne trovò strana la maniera, cominciò a credere che nella congiura ci fosse anche il notaio. Rodolfo cominciò a metterlo alle strette, con domande aggressive e alzando anche il volume. Alla fine, proprio mentre entravano le mogli nella sala-studio, richiamate dalle voci, lui stava dicendo:

“Va bene, caro il mi’ Ciucci, lei ha vinto, le dirò tutta la storia.”

Ma quando vide sua moglie e Sueli si bloccò.

Quelle due non capivano neanche lontanamente la situazione, ma videro che i mariti erano assai alterati e oltremodo rubizzi in faccia, si convinsero che l’alcool avesse parlato fin troppo alto, da dentro quei corpi avvinazzati e accognaccati... e bisognava correre ai ripari, cercarono di dividerli con ogni mezzo. Arrabbiato col mondo in generale, più in particolare coll’allevamento di trote, col notaio e principalmente con sua moglie, il Ciucci urlante venne quasi spinto, non solo a forza di parole, dagli altri tre, nell’automobile, senza riuscire a spiegarsi o a ricevere spiegazioni. Esposta la situazione alla moglie, persero la strada più volte e quando finirono la benzina se ne andarono a casa a piedi. Non avendo il telefono, né il cellulare, alle nove di mattina, quando Rodolfo stava finalmente per addormentarsi, si vide arrivare Ivo e Isolina. Sueli implorò ai due di andarsene, che suo marito stava finalmente dormendo, ma il Ciucci invece oramai era sveglio e arrivò in cucina coperto alla meglio da un accappatoio a righe, coi capelli ritti e gli occhi spiritati.

I due ospiti ebbero grosse difficoltà ad iniziare a parlare, visto che l’uomo aveva un diavolo per capello e anche se quelli erano pochi, erano assai agitati. Sueli cerco di rabbonire il marito e servì caffè e biscotti fatti in casa, mentre Isolina entrò subito nel vivo del discorso. Rodolfo era stato assoldato per sviare i sospetti della finanza che aveva motivo di credere che loro vendessero trote e avanotti senza fattura. Prima di lui avevano chiamato la polizia, che naturalmente non aveva scoperto niente. Intanto la Finanza, operando su denuncia dei concorrenti di Pieve Fosciana, nella persona di Marco Destro Piccionis, proprietario unico, aveva insistito, sicura del fatto suo, notando che le quantità delle trote si erano assottigliate negli ultimi tempi. Invece di calmarsi il Ciucci si arrabbiava sempre di più e non smetteva di domandare se quei sospetti erano giustificati dai fatti avvenuti o no e brontolava a denti stretti che se ne era venuto via dal Brasile proprio per quel motivo.

“Ma le trote piccole medie e gli avanotti a chi le vendete?”

“Agli altri allevamenti, nello spiazzo qui sotto, ma senza fattura, anche a loro gli va bene.” Spiegò Isolina.

Ivo disse che lui, in buona sostanza, era stato contattato e messo a capo delle indagini, non perché scoprisse qualcosa, anzi, ma solo per calmare la Finanza. Era proprio quello che non gli doveva dire, il Ciucci andò su tutte le furie:

“Cioè, fatemi capire, io mi dovrei calmare, ora, dopo che mi avete detto che confidavate nella mia incapacità e quindi non avete nemmeno pensato di avvisarmi?”

Allora provarono a parlargli della crisi, che se pagavano le tasse non avrebbero avuto possibilità di andare avanti e siccome quelli dell’allevamento Destro Piccionis gli garbavano ancora meno, si mise il cuore in pace, quando capì che il solito governo ladro era il maggior responsabile, per cui migliaia di ditte negli ultimi anni avevano chiuso. La signora Isolina gli promise di pagare il pattuito in trote fresche e consegnate a casa, bastava che le sue false ma insistite indagini durassero ancora una settimana o meglio due, tanto per fare scena. Gli giurarono solennemente che appena usciti dalla crisi si sarebbero di nuovo messi in regola. Alla fine del caffè e dei dolcetti di Sueli, il Chiappa mise la sua ciliegina sulla torta, spiegando la situazione precaria delle imprese italiane e tirò fuori una cartellina piena di ritagli di giornale. Gliene mostrò uno in particolare, articolo di un certo economista americano, Milton Friedman:

“Il mercato nero, Napoli, e l’evasione fiscale hanno salvato il vostro Paese, sottraendo ingenti capitali al controllo delle burocrazie statali. E per questo io ho più fiducia nell’Italia di quel che si possa avere dalle statistiche, che sono pessimiste.

Il vostro mercato nero è un modello di efficienza.

Il governo un modello di inefficienza.

In certe situazioni un evasore è un patriota.

Ci sono tasse immorali.

Non facciamo moralismi, un conto è rubare o uccidere, un conto evadere le tasse.

Lei ha mai conosciuto qualcuno che obietta al contrabbando, se non semplicemente per il pericolo di venir catturato?”.

Dalla viva voce di Friedman il suo credo, come condensato nel celebre volume, scritto con Anna Schwartz sulla storia della politica monetaria americana e come tramandato agli allievi: il Welfare State offende i valori antichi dell’umanesimo, argomentava già nel 1962 “Capitalism and Freedom”, scritto con la moglie Rose...

Che quelle cose le avesse dette un americano non gli garbò tanto, quello schifo di sistema economico lo avevano inventato proprio loro e portato alla maturazione di quegli anni che non aveva ancora aggettivi calzanti. Però erano cose giuste, le pensava anche lui e stava ancora dalla parte di Isolina, pur se ora in maniera diversa.

Nei giorni a seguire le sue indagini consistettero più che altro nel chiacchierare coi guardiani e nell’ammirare la natura circostante, ascoltare il rumore dell’acqua e sonnecchiare sulla panchina. Il suo primo caso in Italia era stato molto diverso da tutti gli altri in Brasile, non sapeva se si poteva dichiarare risolto, ma quella non era la cosa più importante. Essendo un commissario in pensione Rodolfo poté avere il trasferimento del suo porto d’armi brasiliano, ottenuto grazie al Chiappa e ai suoi fili lunghi, ai figli corti e grassocci come lui, e influenti. Sueli intanto era riuscita a trasferire la loro abitazione nella casa nord, che poi di lui era stata la sua prima intenzione. Quasi tutte le sere la compagnia di Celso e Delfo era di complemento e anche il Chiappa interveniva spesso, a volte portava anche la moglie Adele, e, se veniva a pranzo, anche il cane Pio XII° . Ogni tanto il Ciucci pensava se non era il caso di mettere su anche lui un vivaio di trote, nell’ambito del suo agriturismo-museo-vinicola eccetera eccetera. Magari una multiazienda che non sarebbe mai esistita, però sognare non costava niente ed era, insieme alla religione, inspiegabilmente un’attività esentasse, ma non si sapeva ancora per quanto.

 

 

Qui lo schema del giallo era stato stravolto per bene, la polizia e i malfattori si erano messi d'accordo a spese del governo, dopo aver dimostrato che quest'ultimo aveva torto, forse la stessa globalizzazione ne era responsabile, la crisi di turno sempre presente in occidente e manovrata da chi ne trae ricchezza. Le notizie sul Brasile, nella prima parte del racconto, avevano soddisfatto Marcos, per quanto un po' stereotipate secondo Qiang.

 

La mattina dopo  la mia trentesima seduta ci siamo fatti un bel bagno nel torrentello vicino alla casa, di acqua gelida, ma fuori era un caldo compensatore. Ogni occhio indiscreto avrebbe catalogato quella manifestazione spontanea come una roba tendente all'omosessualismo, se ci fossero state delle donne avrebbero detto che si volevano fare delle orge. Invece no, era solo amore per la natura. Dietmar poi ci ha letto l'introduzione che aveva pensato per il nostro progetto, già che c'era mi ha spiegato che ce ne era uno e qual era. Ho saputo solo in quel momento che uno degli obbiettivi del Club era una antologia di racconti da pubblicare, il titolo Gialli Ma Non Troppo pareva quasi obbligato. Secondo Qiang il libro avrebbe senza alcuna difficoltà potuto chiamarsi Bastiancontrari Non Eccessivamente Orientali, ma anche secondo lui il nome scelto era più calzante e proprio, intrigava e incuriosiva di più, era più corto e pratico.

"Se volessimo proprio tracciare un diagramma della nostra esistenza, scopriremmo che le nostre tendenze e la nostra stessa capacità di riconoscerle sono due cose distinte, aspetti separati e che raramente riescono a incontrarsi. Riuscire ad essere coscienti e coerenti è una manovra possibile, ma di sicuro difficile e rara. Bisogna sforzarsi di essere compatti, giusti con se stessi e con gli altri, ci vogliono dei principi saldi, uno dei quali è cercare di non ingannare se stessi, a prima vista facile, eppure quasi proibitivo. Attorno a noi siamo circondati piuttosto dal contrario, perciò si deve remare controcorrente, giacché la bugia sistematica e l'ipocrisia sono la regola generale e fondamentale di tutto ciò che ha a che fare con gli esseri umani, la sincerità e l'essere se stessi eccezioni bistrattate ed emarginate dal nostro sistema di vita. La nostra esistenza ha una grammatica occulta, regole assolutamente non universali eppure fondamentali, che senza saperlo ci affanniamo a praticare spesso senza capire, nella nostra routine di cittadini del mondo, mentre viviamo e non ci pensiamo, cerchiamo semplicemente di non soccombere. Poi, naturalmente, c'è la sintassi dell'esistenza, cioè saper dare un suo posto a ogni cosa, quindi anche e soprattutto alle persone, non dobbiamo preoccuparci se la maggior parte le lasciamo di lato, fa parte del gioco.

Una volta sistemati questi due rudi e impietosi regolamenti, viene la parte più bella, ci possiamo finalmente occupare dello stile, se la sopravvivenza e la filosofia non ci preoccupano più eccessivamente, allora possiamo dare ai nostri giorni un ritmo da noi scelto, senza mai dimenticarci che niente è immobile e definitivo, che di gente in gamba e gradevole ce n'è ancora tanta, che magari si nasconde un po', visto l'andazzo generale."

Dietmar poi ha detto che il racconto è un tipo di letteratura che in Italia funziona poco o niente, rispetto ai romanzi, in altri paesi europei e nel resto del mondo lo masticano di più e meglio, però ha motivo di credere che il peninsulare stia migliorando, anche perché la gente ha sempre meno tempo e il romanzo li impegnerebbe di più.

D'accordo: molti hanno proprio smesso di leggere, ancora di più non hanno mai nemmeno cominciato, ma altri, anche se pochi, è vero, hanno iniziato a leggere dei racconti, prima timidamente, magari roba estera, poi ci hanno preso gusto e ora attaccano anche raccolte italiane, timorosamente ma ci provano.

Il racconto giallo, poi è ancora di più una rarità, ammettiamolo senza timore: di solito il giallo è un romanzo intero, o anche una serie e tutto, basta pensare a Nero Wolfe, Poirot, Miss Marple, Sherlock Holmes e Maigret.

Ci ha ripetuto che se il principio fondamentale dei gialli è che l'investigatore di turno e i lettori potenziali abbiano gli stessi elementi per scoprire i colpevoli, nella vita reale però non tutti hanno le stesse informazioni e di solito chi ce le ha le nasconde agli altri, le usa come armi o le vende, le falsifica.

 

Le riunioni d'inverno, colla neve e il freddo, o con la pioggia, per quanto abbiano il loro innegabile fascino, sono più claustrofobiche, la sera, d'estate o a primavera, sedersi fuori su un tronco intorno al fuoco è più romantico e ho notato che i soci litigano assai meno, sono più assorbiti dal piacere di stare lì insieme.

Ma perché era stato scelto un posto del genere per fare i loro congressi? Qiang mi ha raccontato che lui era un piccolo impresario del riciclaggio dei tessuti a Prato. Quando la sua vita era cambiata e in meglio, ma non per caso:

"Non tutti sono a conoscenza del fatto che gli esseri umani hanno in dotazione un cambio perfettamente funzionante e che usarlo bene, saper cambiare marcia al momento giusto, non solo è importante, ma fondamentale.

Molto più comune e facile è lasciare sempre la stessa marcia e sforzare il motore fino a rovinarsi."

"In che senso? Non ho capito."

"Beh, io per esempio ho iniziato a fare della mia passione per i bonsai, un lavoro, una filosofia e alla fine uno stile di vita, ma non è sempre stato così. Il mio lavoro, la mia piccola impresa a Prato mi dava più stress che soddisfazione, più preoccupazioni che risultati. Ho capito che non era per me e ho cambiato marcia. Il club stesso, là non si chiamava così come ora, anzi non aveva nemmeno un nome. Era in centro, a Prato, un gruppo di discussione sulla vita, la filosofia, la letteratura in genere, c’erano diversi orientali, perlopiù cinesi.

Ho abbandonato tutto e sono venuto qua, ho separato casa e lavoro, poi li ho uniti di nuovo e poi li ho separati ancora... definitivamente? Chiederai tu. No, niente nella vita può essere definitivo, questo è uno dei rari punti fermi, quello cioè che non esistono punti fermi, dai quali partire per una serie di iniziative di ogni genere. Varie volte Iuri e anche altri di noi volevano cambiare il luogo delle riunioni, io ho detto no, Dietmar e Rino mi hanno dato ragione e anche Marcos. Abbiamo avuto anche due defezioni, ma siamo qua e ci si diverte assai, direi, impariamo e tutto. I bonsai vendono bene ed è una attività che ci piace, vivere quassù può sembrare complicato, ma è una meraviglia.

La gente ha paura di cambiare e non capisce che al mondo non è affatto una opzione ma è una cosa obbligata, una di quelle pochissime cose che si devono, si vogliono e si possono fare. Insomma rimanere fermi è la cosa più sbagliata che ci può essere, perché attorno a noi tutto si muove, a partire dal movimento degli astri, i pianeti, la terra, la luna e il mare e tutta la natura della quale ci siamo dimenticati di far parte, ma è meglio ricordarselo, invece, non solo quando si va in vacanza, ma tutti i giorni, sempre."

 

 

 

Capitolo 6

 

Sono stato per tanti anni un amante dei cani e un disprezzatore dei gatti. Finché non me ne hanno regalati due, fratello e sorella, che in pochi giorni mi hanno fatto completamente cambiare idea. Certo sono l’opposto del miglior amico dell’uomo, ma Romolo e la signora Pelosini sono assai differenti anche dall’idea che mi ero fatto dei felini domestici e sono persino molto diversi tra di loro. Sono più adatti all’interno della casa, a un eventuale appartamento, come il mio, basta lasciargli una finestra socchiusa. L’atmosfera di una vecchia pendola che scandisce i secondi e un gatto pigro, con gli occhi socchiusi, accovacciato su una poltrona, è un classico gradevole quanto romantico, un caminetto acceso anche non ci sta male. Il cane ha bisogno di più spazio ed è più dipendente dal padrone. Il gatto anche in città può correre sui tetti e arrampicarsi sugli alberi o dove vuole lui. I mici sono anche assai affettuosi, contro le mie precedenti convinzioni e ti fanno compagnia senza disturbarti e senza andare avanti e indietro correndo come i cani. Se non c’è bisogno camminano con calma e grazia, come le tigri, se c’è da scappare o da acchiappare un uccelletto possono diventare rapidissimi. Insomma sono più calmi e buoni compagni per eventuali lettori. Il gatto può rimanere immobile per ore a guardarti attraverso due occhi ridotti a fessure, il cane si ferma solo quando dorme.

 

 

Stare bene da soli significa saper anche apprezzare la compagnia, non stare insieme agli altri per necessità, piuttosto per il proprio reciproco piacere. Non accettare l'altrui presenza perché ci siamo - in qualche modo – obbligati, ma principalmente quando ci reca un benessere pratico. Figurarsi che quando ho conosciuto la signorina Florence Badalonì non potevo nemmeno immaginare una vita in compagnia e per fortuna neanche lei. Così io abito sopra la libreria Senza Parole e lei sopra la pasticceria che porta il suo stesso nome, chiusa il pomeriggio. Ci vediamo tutti i giorni in libreria, faccio sempre colazione da lei con le paste fresche, ma preferisco i pezzi salati. Facciamo sempre merenda in libreria, a volte pranziamo anche, ceniamo, dormiamo insieme. Difficilmente due o tre di queste cose nello stesso giorno. Non guardiamo la televisione per principio e non ci telefoniamo mai, se non per una malattia improvvisa o qualche rarissima urgenza. Odiamo i telefoni, figurarsi i cellulari, ma non stiamo in pensiero e se una non si fa viva vuol dire che non ne aveva voglia, non poteva o che preferiva altrimenti. Ogni spiegazione è superflua, ma se può servire da spunto per una chiacchierata è ben accetta.  Vediamo il rapporto di coppia come veicolo per apprezzare di più e meglio la vita in generale e non un rifugio per nascondersi dagli altri, come succede spesso in provincia. Non sempre facciamo le vacanze insieme, anzi a volte non facciamo nemmeno le vacanze.

Non necessariamente la routine è un male, ma avere giorni e ore prestabiliti per fare determinate cose è brutto quanto attorno a noi pare inevitabile. Ho già gli orari del negozio a scassarmi i cosiddetti, non voglio altro che mi obblighi a seguire un piano di un calendario o di un orologio. Che se ne vadano affanculo. L’unica cosa che faccio regolarmente oltre al lavoro è il club dei Gialli Ma Non Troppo, ma ci sono spinto piacevolmente dall’entusiasmo e già dal venerdì mattina non vedo l’ora che arrivi il giovedì sera.

Ricordo piacevolmente quel racconto ambientato in Sicilia, il lettore era Marcos, lo scrittore Tommaso, che era venuto da Caltanisetta, di famiglia siciliana. Anche qui il giallo è piuttosto un verdolino chiaro, la storia parla di mafia, è vero, ma lateralmente, il centro della questione è un altro. Magari l'etica delle persone che è sempre stata pessima o che si è fottuta recentemente, non si sa se dipende dalle zone, dalle temperature, dai vari tipi di cultura o da qualcos'altro.

 

 

6)UNA STORIA CHE SAREBBE POTUTA ACCADERE ANCHE ALTROVE  Tommaso Macchi

 

Cannizzaro è un paese in provincia di Catania, nella Sicilia orientale, quella più vicina al continente. Però è anche il cognome del protagonista di questa storia siciliana… sì, ma solo per caso.

L’ho sempre sentito chiamare Cannèzzaro, anche sua moglie e i suoi figli lo chiamavano così, ma probabilmente si scriverebbe Cannizzaro pure in Sicilia. In seguito conobbi anche suo padre e suo fratello Martino, scoprii che di vista conoscevo anche l’altro fratello, Roccuzzo e pure sua madre, della quale non mi ricordo il nome.  Erano amici di amici di famiglia.

Lui, però, mi fu presentato, anche se indirettamente, attraverso un’indicazione di un collega, con l’unico proposito di fargli rimettere in sesto la mia vecchia Fiat Ritmo, da tempo agonizzante.

Lo vidi per la prima volta a Capo d’Orlando, in un pomeriggio di sole prepotente, sulla piazzetta pavimentata di fronte alla sua officina meccanica.

Cannizzaro mi rimase subito simpatico, per via della sua maniera di fare, ma anche perché, dopo aver dato un’occhiata rapida e competente, parlò con tono da oracolo greco, dai quali Greci, anche se Magni, i siciliani discendono, almeno in parte.

Disse che i guasti erano tre e precisamente due di mezza tacca, ma il terzo assai caro da riparare. Però potevo economizzare, andando io stesso a prendere i pezzi di ricambio a Messina, invece che farli spedire, avrei risparmiato tempo e denaro andandoci pirsonalmenti.

Immedesimarsi nei panni del loro cliente è cosa rara  nella estesa categoria di quelli che vendono un qualsiasi genere di servizio, senza minimamente preoccuparsi di fare bene il loro mestiere.

Così feci, con la macchina di mio padre andai e tornai con i pezzi richiesti in tre ore e mezzo. La mattina dopo Cannizzaro cominciò a riparare il guasto.

Il conto, la sera seguente, non era alto e la macchina funzionava di nuovo bene, anzi, meglio di prima. A dire il vero non mi ricordavo nemmeno più di quando aveva funzionato così bene.

Da quel momento Cannizzaro diventò il mio meccanico di fiducia.

Inoltre, per un caso fortuito, lui frequentava lo stesso mio bar, il Centrale, che era proprio sotto casa sua, a San Gregorio, mentre io abitavo un poco fuori, in una contrada campagnola, alle Rocchetelle.

Ogni tanto, scendendo in paese, lo trovavo seduto con gli amici a giocare a carte o semplicemente appoggiato all’ingresso, quando era estate, coi pantaloni lunghi e a torso nudo, grassoccio com’era, spesso sudava senza pietà.

Mi sorprendevo di trovarlo lì anche durante l’orario di lavoro, ma lui diceva che la vita sembra corta, ma invece è larga e che i soci esistono proprio per permettere questo fondamentale e necessario allargamento.

Mi invitava spesso a bere, qualche volta accettavo e qualche volta rifiutavo, ma in entrambi i casi lui continuava lo stesso a snocciolare frasi comiche in dialetto puro o in un misto di italiano e gergo, spesso mi seguiva raccontando avventure e dialoghi assai divertenti, fino alla macchina, mentre me ne andavo.

La sua era un’insistenza simpatica, mi piaceva la sua maniera di fare, non mi faceva mai sentire obbligato.

Un giorno, stavo bevendo un Camparino prima di andare a pranzo, seduto ai tavolini fuori dal bar Centrale, proprio di fronte alla chiesa vecchia e arrivò lui, su una Mercedes Pagoda decappottabile, nera lucidissima, cappotta abbassata beige e con lo stereo a tutto volume che diffondeva canzoni di pessimo gusto a chilometri di distanza.

Disse che era roba malavitosa calabresa, tipo di musica della quale fino a quel momento io non sapevo nemmeno dell’esistenza e siccome era in dialetto non capivo una parola di quello che cantavano, ma lui rise e disse che era meglio così.

Era insieme a un piccoletto coi baffi, me lo presentò e cominciammo a ragionare come al solito, del più e del meno; pagai da bere a tutti e due ed entrammo in un argomento che per me era particolarmente interessante, a quell’epoca.

Dovevo fare un complesso lavoro di restauro generale a casa mia, prima di sposarmi e non sapevo a chi rivolgermi, era una casa antica e c’era bisogno di un professionista serio, che però non poteva nemmeno essere troppo caro, che di soldi ne avevo pochi.

Cannizzaro sorrise, senza dire niente, io gli spiegai  meglio la situazione e lui continuò a sorridere e a scuotere la testa, mi parve come a sottolineare l'assurdità della vita, finché io gli chiesi che cosa c'era di tanto divertente.

 “Mi scusi, non volevo essere sgarbato, è che lei ha avuto fortuna oggi e difficile non lo è più, come lei credeva, almeno per noi che abbiamo la fortuna di avere Corraduzzo qui accanto, anche se non parla mai, almeno se non interrogato, basta abbassare gli occhi e lo possiamo vedere, eccolo qua.”

Tale Corrado Grammichele, detto anche Corraduzzo, era un ometto minuscolo, scuro di pelle e di capelli, ma dagli occhi elettrici e che fumava una sigaretta attaccata alla seguente, perennemente.

Ridemmo guardandolo, lui rimase serio, come se non avesse sentito cosa aveva detto Cannizzaro, come se non lo conoscesse nemmeno, ma chiese a me.

“E di che epoca sarebbe la casa in quèstiòne?”

“Del millequattrocentocinquantadue, per la precisione...”

“Hai capito Corraduzzo? È proprio la nostra specialità.”

Cannizzaro dimostrava spesso un entusiasmo contagiante, specie quando c’era un lavoro e doveva convincere qualcuno che lui era la persona più qualificata per farlo e si trovava, per un caso fortuito lì a sua disposizione e miracolosamente senza niente da fare.

“Come sarebbe a dire la VOSTRA specialità?” Chiesi io.

“Lei deve capire che qua a San Gregorio e pure a Capo d’Orlando la vita è difficile, le macchine sono poche e allora si devono avere varie specialità, oltre che meccanico io sono anche vetraio e elettricista, più altre cose ancora che non mi ricordo neppure quante e quali sono, ma il mio vero lavoro è il muratore, quello cioè con il quale mi sento più a mio agio, che ci lavoro bene e pure i miei prezzi sono buoni, rispetto a quelli in giro sul mercato di tutta la Sicilia, ma in particolare di questa zona, dove, lei lo sa meglio di me, la professionalità è scarsa e quando si trova, il che non è sempre possibile, ecco che è carissima!

Ora, tornando a noi, con l’appoggio di Corraduzzo, che anche se, meschino, è purtciroppo bassotto assai, ha una elevatissima classe di restauratore rinascimentale, all’occorrenza sa andare anche più indietro nel tempo, dialoga senza alcuna difficoltà con gli Dei greci e così via, a vederlo così non sembra, ma Corraduzzo è una vera propria macchina dello spazio e del tempo, purtciroppo ancora incomprèso, ma garantisco io pirsonalmenti, con lui ci troviamo proprio messi bene, ma che dico: benissimo… e se lei volesse, possiamo pure scolarci alla svelta i qui presenti bicchieri di bibite fresche, che sennò si scaldano… e venire là subito e fare un preventivo, che poi le consegneremmo domani a mezzogiorno, minuto più minuto meno e senza accettare neppure eventuali inviti a pranzo, s’intende, che siamo gente seria, nòi.”

Il suo lavoro di meccanico fino a quel momento era stato impeccabile, la simpatia era accattivante e Corraduzzo, a parte il nome, sembrava una persona seria, infatti non rideva mai.

Fatto sta che, per farla breve, il preventivo fu fatto, il prezzo un po’ alto... ma forse mi aspettavo di peggio, la maniera di pagare - dilazionata - mi parve buona: insomma, si misero al lavoro due giorni dopo, che era un piacere starli a guardare.

Se avessi avuto una cinepresa sonora penso che sarebbe venuto fuori anche un bel cortometraggio sull’industriosità e la capacità manuale di due lavoratori, che, con una certa inventiva e qualche imprecazione soffocata, ovviavano la loro manifesta mancanza di apparecchiature sofisticate ed attrezzi appropriati, creando al momento ciò che gli serviva modificando attrezzi già esistenti, ma nati con altri scopi, o fabbricandosene di sana pianta.

Per farla breve, il mese seguente era tutto finito e salvo alcune prevedibili quanto furiose litigate di mia madre Ofelia con Corraduzzo, per via della sua scarsa abitudine alla pulizia a seguito dei vari restauri e delle sue migliaia di cicche di sigarette Nazionali Esportazione, (che abbiamo continuato a trovarle per anni in giro, ficcate dovunque,) e dello svolazzare insistito della conseguente cenere, tutto era andato bene.

Ecco, da quel momento, tutto quello di cui avevo bisogno, era telefonare a Cannizzaro e lui provvedeva a rimediare il difficile rapporto che ho con il bricolage e con quei mille tipi di lavoretti necessari in casa e zone limitrofe, giardino, cantina e soffitta inclusi.

Avevo bisogno di uno che svuotasse la fogna? Chiamavo e lui provvedeva a mandarmi qualcuno di fiducia, o meglio ancora, me lo vedevo arrivare pirsonalmenti, in pantaloncini corti e berrettino con la visiera, con la pancia che sfuggiva da sotto all’insufficiente maglietta con la colorata propaganda di articoli da caccia, su un trattore imprestato da chissà chi, con relativa sporchissima e maleodorante cisterna a rimorchio, cantando a squarciagola una qualsiasi canzone di Toto Cotugno.

Le sapeva tutte a memoria e ‘L’italiano’ era il suo inno.

Dovevo andare a Catania per lavoro e non potevo guidare perché mi ero fatto male ad un piede? Mi ci portava lui o Corraduzzo o trovava qualcuno che lo facesse convenientemente.

Stavo disperatamente cercando un idraulico per un guasto nel fine settimana? Ci pensava lui pirsonalmenti, o mi mandava uno dei suoi picciotti, che non erano pochi e pareva che su di loro avesse diritto di vita e di morte, li chiamava di notte, a Natale e Pasqua e loro arrivavano subito, sorridenti, contenti, senza protestare.

Con Corraduzzo pareva che fossero soci, in qualche maniera, ma se nella meccanica il capo era Cannizzaro, nella muratura erano pari grado e nei restauri chi comandava era il piccolo e implacabile fumatore.

Negli altri campi la gerarchia era flessibile e spontanea, ma anche per Cannizzaro i rami erano troppi e troppo ramificati per averne un’idea, anche incompleta, insomma, le sue innumerevoli specialità gli venivano in mente, più che altro, quando qualcuno aveva bisogno di qualcosa, se non la sapeva fare l’avrebbe imparata facendola.

 

Se la trovavo al bar, questa coppia difficilmente separabile, Corraduzzo mi faceva un rapido cenno di saluto e si faceva i fatti suoi, ma Cannizzaro, dopo avermi pagato puntualmente da bere, mi proponeva sempre affari di ogni tipo, dall’orologio, alla radio per la macchina, alla consulenza finanziaria, ai semi di prezzemolo che in Sicilia si chiama "petrosino" o meglio: petcirosino.

 Io, che a livello di soldi stavo sempre rasoterra, per via degli inizi del mio mestiere e dei preparativi del mio prossimo matrimonio, non compravo quasi mai niente, non mi lasciavo convincere, a meno che non avessi un effettivo bisogno, rifiutavo con cortesia.

Lui non se la prendeva, non cambiava espressione, riprendeva il discorso dall’altro lato e, per abitudine, le sue storie erano sempre tante e così piene di personaggi e di situazioni, che ci metteva sempre qualcosa in mezzo da vendere e nessuno ci faceva caso.

Mi faceva sempre piacere incontrarlo, mi porgeva sempre la mano, prima di tutto, come se fosse un grande piacere per lui trasmettere la sua fiducia per me e riceverne in cambio la  stessa misura, mentre quasi mi stritolava e diceva serio-serio qualche frase buffa in dialetto, sempre qualcosa di diverso, per farmi ridere e ci riusciva immancabilmente.

Spesso ci sedevamo al bar a parlare, più che altro era lui che raccontava storie e contro-storie, ma sapeva anche ascoltare, se io mi mostravo determinato a dire qualcosa. Se avevo un fatto significativo, ecco che si zittiva e cercava di seguire per filo e per segno, facendo domande e pretendendo continui chiarimenti, per trarne qualsiasi insegnamento; ma se ero indeciso, come quasi sempre ero, istintivamente mi sopraffaceva e parlava lui.

Le nostre conversazioni gli piacevano, ho ragione di credere, sono sempre stato un buon ascoltatore e al mondo questo è un tipo di persona raro e sorprendentemente gradevole e ricercato, perché la maggior parte ha voglia solo di parlare e ad ascoltare ci vuole molta più pazienza.

Non credo che mi vedesse solo come cliente potenziale, perché cominciò ben presto ad invitarmi a casa sua e conobbi la sua formidabile famiglia: moglie, nonna e cinque figli maschi, poi suo padre, sua madre e i fratelli, le relative famiglie laterali si attaccarono quasi subito alla mia conoscenza.

Tutte persone semplici, anche se assai diverse l’una dall’altra, simpatiche e dal cuore grande, divenni intimo ed amico di tutti in poco tempo.

La nonna parlava poco perché era sorda e non riusciva ad entrare nei discorsi, non sapeva mai di che cosa trattavano, ma, in quella sua incertezza, approvava sempre con ripetuti cenni della testa, ogni tanto c’infilava un bel proverbio completamente a sproposito e tutti ridevano.

Lei, pur se continuava a non capire, vedendo che si dimostrava contentezza, era contenta anche lei.

Dicono che il filosofo è colui che conserva durante la sua vita intera la capacità di stupirsi.

Pur essendo ancora giovane, mi pare proprio di essere un filosofo, perché nella mia vita mi sono stupito assai, spesso grazie al mio amico Cannizzaro.

Però, dopo quello che successe in seguito, pur non sapendo nemmeno come è finita quella storia, a distanza di anni continuo a pensarci e a stupirmi, a farmi delle domande, a cercare invano delle risposte, insomma: a filosofeggiare.

Finché si trattò di lavoro, nei miei confronti, il comportamento di Cannizzaro fu impeccabile, oltre che piacevolissima la sua compagnia.

I dolori iniziarono invece quando l’amicizia prese piede e si cominciò a parlare di favori.

Normalmente il peggio succede quando il nuovo amico, da semplice conoscente che era, inizia a chiedere sempre di più, ma non fu il nostro caso, anzi fu il contrario, o quasi.

Il primo, ultimo ed unico episodio, già sufficiente per scorraggiare quelli potenziali e futuri, partì dal mio matrimonio.

C’erano duecento potenziali invitati, facilmente potevano diventare trecento, mia madre voleva far tutto a casa nostra, dopo la messa, mio padre anche non amava i ristoranti e propendeva invece verso il risparmio sistematico o piuttosto ostinato, dipendendo solo dai punti di vista.

Visto che era giugno, un elegante buffet all’aperto sarebbe stato certo una meraviglia. La casa era in campagna, il giardino non c'era ma c'erano gli olivi, quindi era proprio quello che ci voleva; anche Giada, la mia promessa sposa, era entusiasta dell’idea.

Telefonai allora a Cannizzaro, solo per farmi spiegare cos’era meglio fare in questi casi, non sapevo da che parte iniziare, ma non credevo che lui si occupasse anche di banchetti.

Disse che ci pensava lui, che non mi sognassi nemmeno di chiamare qualcun altro, che ci rimaneva male, ‘anzi, che dico: malissimo o pure peggio’, che non provassi a scappare di lì, che stava già con un piede in macchina e avrebbe accettato eventualmente di bere anche un caffè, se eventualmente invitato e se non m’incomodasse troppo.

In un batter d'occhio era davanti a me e mi porgeva la manona.

Era cosa troppo importante e per telefono non si sa mai chi può ascoltare, recitò sussurrando in dialetto come in un film di mafia.

Sapeva dire le cose più idiote senza ridere, in completa serietà, in questo caso come un vero mafioso.

Mi prese a braccetto e mi portò in giro per il mio uliveto, mi disse, con il tono di chi sta raccontando una cosa strettamente confidenziale, come del resto faceva sempre, che c’era gente che conosceva lui e che faceva questi banchetti a un prezzo ragionevole, soprattutto se le cose più care le avesse procurate lui, pirsonalmenti, come la carne e il vino.

Ci tenne a specificare e a ribadire più volte che non intendeva guadagnarci, no, no, che era per l’amicizia che c’era tra noi, una mano lava l’altra e tutte e due lavano il culo, poi si devono rilavare, è chiaro, reciprocamente, è una questione d’igiene e così via.

Il matrimonio andò bene, il banchetto funzionò a dovere, il vino era buono e la carne di qualità.

Cannizzaro, automaticamente invitatosi da solo, che sennò ci sarei rimasto male, era arrivato con tutta la famiglia.

Addobbato forse con il vestito nero più caro di tutti quelli presenti e con una candida camicia bianca di seta, un fiocchino bordeaux e una rosa di colore rosa all’occhiello, in prima fila in ogni momento, raccontò storielle comiche di epoca e poi più recenti, verso la fine anche quelle più sconce, ma solo agli uomini ed arrivò a farci dimenticare lo scopo per il quale eravamo riuniti là, la qual cosa mi avrebbe forse anche offeso, se non si fosse trattato di lui.

Non si dimenticò di passare a tutti il suo biglietto da visita, naturalmente, giallo con scritta rosso scura, ‘Dall’araldica alla zappa, passate tutto in mano di un’unica ma grande persona: Giannetto Cannizzaro, l’uomo di cui avevate bisogno e non sapevate che esisteva’.

La cornicetta del biglietto era fatta di piccolissimi e differenti attrezzi da lavoro in fila: chiavi inglesi, cacciaviti, mestole da muratore, martelli, mischiati con clessidre, forchette e pure piccoli mouse da computer e binocoli, lapis e lampadine.

Seppi così che si chiamava Giannetto, ma non lo sentii mai chiamare a quella maniera.

Il prezzo delle varie cibarie mi parve alto, come quello del servizio di buffet, ma pagai, visto che i soldi erano di mio padre e che a lui non mancavano, se fossero stati miei avrei forse protestato un poco, non lo so, ma non m’importava allora e non m’importa ora, alla luce di quello che seguì, diventa un particolare irrilevante.

Il viaggio di nozze a Corfù durò venti giorni e quando tornai camminavo a dieci centimetri da terra.

Mia moglie era una creatura di un altro pianeta, uno migliore del nostro, più la conoscevo e meno riuscivo a trovargli difetti, perfino mia madre non c'era ancora riuscita.

Insomma eravamo stati troppo bene, il tempo atmosferico era stato buono e quell'altro era passato in un volo. Ci sentivamo tutti e due felici, anche gli uccellini sugli alberi cantavano Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà, o almeno così mi pareva.

Quando mio padre ci venne a prendere a Palermo, all’aeroporto di Punta Raisi, però, capii dalla sua faccia che aveva qualcosa da dirmi.

Le cose che aveva sul gozzo erano tre, me le disse solo dopo pranzo, seduti sotto la pergola, mentre le donne stavano rigovernando e bevevamo il caffè.

Dove erano finiti i soldi della carne, quelli del vino e quelli del servizio di buffet?

Pareva che ci stessero arrivando telefonate dei tre gruppi in questione, dicendo, sempre meno garbatamente, che era ora di essere pagati.

Chiamai subito Cannizzaro, ma non c’era.

In officina neppure e al suo posto un biglietto con scritto: “Torno subito, però, avendone urgente bisogno mi trovate al bar”.

Al bar però non c’era e nessuno l’aveva visto.

Lo aspettai, telefonai di nuovo a casa sua, tornai alla mia dopo due ore.

Ci parlai la sera dopo una ennesima telefonata, c’incontrammo al bar.

Dopo i preamboli cordiali fatti di quella sua eterna ma assai complessa e varia simpatia, costituita da un insieme sapientemente mescolato di stereotipi e di invenzioni del momento, legate all’attualità del caso e di altri casi meno attuali, incorniciati da quell’antica e quasi rude cortesia siciliana che non pare mai eccessiva, entrammo più direttamente nell’argomento.

Non parve né sorpreso né offeso, mi spiegò che c’era stato un intoppo bancario per via degli scioperi dei quali io certo dovevo aver saputo e che era uno scandalo perché guarda in che situazione metteva degli amici, di dover dubitare di altri amici, che stavano solo aiutando e facendo un favore a quei primi amici eccetera, senza guadagnarci un centesimo eccetera, ma la situazione si sarebbe regolarizzata in poco tempo eccetera, non dovevo proprio nemmeno pensare che ci fosse da preoccuparsi e quello era l’ultimo eccetera.

Riuscì a farmi sentire vergogna di me stesso, mi scusai in maniera un po’ confusa, ma lui mi capiva, come no, aveva una certa esperienza in giro per il mondo e proprio in giro per il mondo ne succedono di cose, anche peggiori di quella lì.

La colpa non era sua, però, ma piuttosto di qualcuno che si arricchiva alle spalle della povera gente, una mafia legalizzata e così via.

Cambiammo argomento, parlammo di calcio e di donne, di politica e del tempo, stava piovendo troppo, per essere in Sicilia, anzi stava piovendo troppo anche per essere in qualsiasi luogo dove non si voglia mettere su (o giù) una risaia, ma se pioveva così tanto, ancòra, purtciroppo il mare avrebbe sommerso l’isola e con l’acqua salata non si poteva nemmeno coltivare il riso, aveva sentito dire.

Saremmo perciò diventati tristi, per la mancanza di riso, per la pioggia e per la perdita dell’isola.

Ridemmo e ci scambiammo pacche sulle spalle, come ai bei vecchi tempi, che poi così lontani non erano.

In quei momenti, la storia dei mancati pagamenti, non è che non mi disturbasse, dentro di me, specialmente perché c’era andato di mezzo mio padre, ma ancora non mi sfiorava nemmeno il pensiero che Cannizzaro ne fosse veramente il responsabile, ancora meno che fosse una manovra premeditata. No, pareva troppo assurdo.

Ci salutammo verso le dieci, passai da mio padre, lo trovai addormentato davanti alla televisione, mia madre era andata a letto.

Gli scaldai un caffè e mentre lo beveva cercai di spiegargli quello che Cannizzaro mi aveva detto, o almeno ci provai.

Lui, invece di cercare di capire lo sviluppo degli eventi, si mise ad urlare, tanto che svegliò mia madre che scese a vedere cosa succedeva.

Tra le varie imprecazioni, maledizioni e bestemmie disse che una vergogna così non l’aveva mai provata in vita sua, che il mio carissimo amico Cannizzaro era un imbrogliòne e che io ero uno sprovveduto, non era possibile che ancora non mi fossi reso conto della situazione e che continuassi a voler giustificare quello che era successo e che ancora non era terminato, avrei visto pirsonalmenti cosa e còme e quanto stava ancòra per venire.

Ne ricavai che mio padre non era abituato a bere il caffè di sera. Certo doveva essere così. Me ne andai senza più dire niente, su opportuno suggerimento di mia madre.

 

Il tempo passò, con frequenti telefonate, sia di andata sia di ritorno, parlammo e riparlammo con Cannizzaro, Corraduzzo, le banche, i fornitori, tutto di nuovo e cambiando l’ordine, senza risultato che una crescente rabbia mia e soprattutto di mio padre.

Il mio anziano genitore non ne voleva sapere di starsene fuori da quella storia, come e quanto io gli chiedevo che lasciasse che me la sbrigassi da solo, che non ero più un bambino e così via.

“Se tu sapessi sbrigartela da sòlo, da sòlo ti lascerei fare, ma siccome poi questi soldi li dovrò tirare fuori io, per la seconda volta, e io lo so già, cerco di prevenire invece di curare, perché ancora tu non ti sei convinto di chi sei e di che tipo di amico sia il tuo Cannizzaro!!!”

Diceva gridando, al telefono o in mezzo alla gente, al bar o in piazza.

La sensazione crescente che ricevevo dal mondo circostante, in quei giorni, era di stare tra il martello e l’incudine.

Mia moglie, per fortuna, si negò a commentare il tutto e gliene fui assai grato.

Anzi, una mattina, appena alzati, mentre facevamo colazione, seduti l’uno di fronte all’altra, le chiesi che cosa ne pensasse e lei rispose che quello che io avessi deciso di fare, per lei andava bene ed io sentii di amarla ancora di più.

Riuscii ad acchiappare Cannizzaro a casa di domenica, lo trovai panciutamente in piedi e in pigiama attillato celeste a pallini neri, in cucina, con la cuffietta e la radiolina che ascoltava le partite di calcio, i bambini facevano il diavolo a quattro, si fa per dire, perché invece erano cinque e valevano per dieci, correvano e saltavano e gridavano come ossessi, come se li avessero liberati in quel momento da una lunga prigionia.

La nonna stava guardando la televisione, che tanto era quasi completamente sorda, l’apparecchio comunque era a tutto volume e la moglie di Cannizzaro, lì accanto, passava montagne di pomodori in un vecchio frullatore, il cui rumore pareva un motore ad elica di un aereo passeggeri, insieme a due amiche, che per udirsi, in quel ben determinato tipo di situazione, gridavano con quanto fiato avevano in gola.

Pareva una scena dell’assurdo, mi ricordò un poco il teatro di Ionesco, ma era invece la realtà più concreta e quotidiana per Cannizzaro e il suo consono nucleo familiare.

Aperta la porta dal figlio di mezzo, che aveva udito per caso il campanello, perché si era nascosto tra la porta e un armadio del corridoio, dopo che avevo suonato una decina di volte, ci misi alcuni minuti per fare quei quindici metri necessari per arrivare vicino al frigorifero dove Cannizzaro, in piedi, era appoggiato e sopra ci aveva posato la radiolina alla quale era collegato con la cuffietta.

In questo tragitto, un grosso vaso di terracotta, che si era poi spaccato rovinosamente a qualche metro da me, mi aveva sfiorato la testa.

Il capofamiglia aveva lo sguardo perso oltre la finestra e i tetti sottostanti, era concentrato nel seguire la schedina del Totocalcio che aveva in mano e le testimonianze sportive in diretta da tutti i campi da gioco d’Italia.

Naturalmente mi ricevette con una poderosa e cordiale stretta di mano, sul suo largo faccione nessun segno di sorpresa o nervosismo, proprio nessun cambiamento di atteggiamento rispetto a tutte le altre volte in cui ci eravamo incontrati.

Pareva impossibile che si fosse intascato tutto quel denaro e che pretendesse di essere creduto con quelle scuse che ormai non stavano più in piedi e ci voleva una grande faccia tosta solo a pensare di poterle usare ancora.

Ma era proprio così.

Nonostante questo ragionamento logico, con tutte le sue conseguenze derivanti e laterali, uscii di là frastornato e ancora credendo o volendo credere che esistesse un’altra spiegazione.

Me ne stavo andando da Corraduzzo, al bar Centrale, Cannizzaro aveva detto che i soldi li aveva dati a lui e lui gli aveva garantito di aver fatto i versamenti alla banca.

Corraduzzo stava giocando a carte ad un tavolino fuori, era luglio ed era caldo, dopo che le pioggie erano finite il tempo era diventato afoso, ora eravamo tornati al tradizionale calore secco africano.

Lo chiamai in disparte e gli chiesi della situazione, la base della quale era quello che Cannizzaro mi aveva appena riferito.

Non c’ero mai riuscito prima, ma in quel momento capii che cosa aveva in comune, Corraduzzo, con Cannizzaro: l’imperturbabilità.

Disse che non ne sapeva niente, senza mai cambiare espressione e come se fosse perfettamente normale che io fossi andato là, a chiedergli a muso duro di spiegarsi affinché potessi rendermi conto meglio di quella storia.

Per la prima volta sbottai, con lui, forse perché con Cannizzaro non c’ero riuscito e gridai come un matto, tutti udirono quello che dissi a lui, ma come se stessi parlando col suo principale, o socio, o pari grado che fosse.

Lui mi ascoltò, senza dire una parola, senza muoversi, guardandomi ma forse senza vedermi, finché mi stancai e lui ritornò a giocare a carte.

Cominciai a sentirmi veramente un idiota.

Anzi, riconobbi dentro di me di esserlo senz’altro.

Un mio amico d’infanzia, figlio di un amico intimo di mio padre, che passava di lì e vide la scena e soprattutto udì i miei strepiti, mi chiese se era per caso con Cannizzaro che ce l’avessi.

Risposi di sì e gli raccontai l’accaduto, come uno sfogo, mettendo enfasi e finzione teatrale ben oltre le mie consuete capacità, dato che, a cose normali, non mi azzardavo nemmeno a raccontare una barzelletta.

Scoprii che invece avevo il senso della tragedia, dentro di me, era solo rimasto nascosto, forse perché la mia vita era stata troppo facile, fino a quel momento.

Il mio amico rise, anche se non mi pareva il caso e questo lui lo capì subito dalla mia faccia, allora si scusò e mi spiegò che, un po’ tutti quelli che avevano avuto a che fare con lui, erano arrivati allo stesso punto dolente.

Lui stesso, che credeva di essere stato un suo grande amico, gli aveva pagato la metà in anticipo, con la scusa che doveva comprare il materiale, per un lavoro di restauro in casa sua, che Cannizzaro non gli aveva mai fatto ed era passato quasi un anno, quasi dodici mesi di scuse, sotterfugi, telefonate a vuoto e fughe.

 

Era chiaro che dovevo fare qualcosa e subito, perciò tornai a casa di Cannizzaro, dove naturalmente suo figlio Natale, il secondogenito, disse che non c’era.

Lo spinsi da parte ed entrai, guardai in ogni canto della casa, negli armadi, in terrazzo e sotto i letti, la numerosa famiglia mi guardava come in un incubo al rallentatore, come in un film basato su un racconto di Kafka.

Non lo trovai. Nessuno protestò o fece qualcosa che assomigliasse ad una faccia offesa.

C'erano abituati.

Intanto mio padre, maledicendo ora più me che Cannizzaro, aveva pagato i fornitori, per la seconda volta aveva tirato fuori quella cifra non certo trascurabile, mi giurò per telefono, rischiando di nuovo l’infarto, che erano gli ultimi che mi avrebbe dato, anche se glieli avessi restituiti tutti, moltiplicati per due e con gli interessi.

Cercando Cannizzaro io mi stavo avvelenando la vita, me ne rendevo conto, ma non avevo scelta.

La notte mi ci voleva troppo tempo per addormentarmi e mi ripassavo le cose da dirgli, le possibili risposte alle sue immancabili argomentazioni… ma ormai non si poteva più tornare indietro, dovevo trovarlo anche solo per dirgli cosa pensavo di lui e di quelli come lui.

Intanto Cannizzaro si negava al telefono, non andava più al bar, aveva chiuso addirittura l’officina per ‘riposo mensile’.

Era sempre stata sua consuetudine, a dir la verità, che una volta al mese, approfittando del momento più adatto, magari per il poco lavoro, chiudeva i battenti, appendeva fuori un biglietto foderato di nylon trasparente ed andava in giro per il mondo con i suoi amici, tra cui il fedele Corraduzzo.

Per lui, quando lavorava, non esistevano feste, se c’era da fare poteva essere sabato o domenica, Pasqua o Natale, il Primo Maggio o i primi due giorni di Novembre, Capodanno e il compleanno di sua moglie, o del suo primogenito Pietruzzo o dell’amata nonna Sibilla, niente da fare, si doveva rimboccare le maniche e darci sotto.

Sua moglie Rebecca aveva una specie di eterna aria di rassegnazione, specie quando raccontava cose come questa, una volta l’avevo incontrata per caso al supermercato e ne avevamo parlato, durante una di quelle sue fughe legalizzate.

Però avevo notato anche che lei lo amava e lui amava lei e la loro, in qualche maniera, era una famiglia assai felice, sicuramente più delle maggior parte delle famiglie che conoscevo.

Certo, quei giorni di festa erano uno scarico delle sue forti responsabilità, disse Rebecca, mentre guardava verso il cielo.

Poteva essere caccia o pesca, oppure semplice turismo, di solito erano quattro o cinque giorni, durante i quali sparivano di circolazione e ritornavano poi, quando si stancavano o avevano finito i soldi, a volte più magri e con gli occhi contenti, a volte carichi di pesce o di uccelli, spesso con l’alito pesante.

Bene,  anzi: male, o piuttosto: malissimo.

Figurarsi la scena del prossimo impatto con lui non era facile, ma fu così: lo trovai al funerale della nonna, e non c’ero andato certo per caso.

Cannizzaro però piangeva e io non me l’aspettavo, ero arrivato da dietro, ma non si scosse quando mi vide, né cambiò espressione, mi guardò a lungo, anche se era evidente che non mi vedeva.

Non riuscii ad aprire bocca… no, anzi, a pensarci bene, forse la bocca l’aprii, ma non ne uscì niente, nessun suono.

Il giorno dopo, deciso a finirla una volta per tutte, andai in officina e manco a dirlo era appena uscito, ‘per fare i pagamenti di routine’ e sembrava proprio una barzelletta, ma non riuscivo più a riderci su.

Chiesi acidamente a Corraduzzo se veramente Cannizzaro avesse un tal genere di routine, la qual cosa mi avrebbe sorpreso, ma nemmeno lui ci rise, quell’ometto non rideva mai e forse ora ne intravedevo alcuni motivi.

Oltre ai soldi persi che avevo già iniziato a restituire a mio padre, il mio rapporto con quest’ultimo si era guastato, il mio anziano genitore era uomo di principi rigidi, quello che si diceva un uomo tutto d’un pezzo, che ora non esistono più, nei tempi moderni e non so ancora se mi dispiace o no.

Mi aveva addirittura imposto che per ristabilire il nostro onore, la nostra bistrattatissima credibilità, avrei dovuto andare a nome suo da Don Antonino e lasciare il caso nelle sue capaci mani.

Avevo rifiutato, naturalmente, per cui, da quel momento mio padre, Attilio Savona, disse che i soldi che gli dovevo, non c’era bisogno di portarglieli a casa, che la mia vista lo disturbava un poco, potevo anche mandarglieli direttamente sul suo conto e che se volessi visitare mia madre, non c’erano problemi, ma se poteva essere la domenica pomeriggio era meglio, che poi era quando lui andava a visitare gli amici.

Mi domandai più volte come Cannizzaro potesse vivere in quella maniera, in un paese piccolo come San Gregorio, non era una cosa stancante e poco conveniente, principalmente per lui e la sua famiglia?

E, a proposito di ‘famiglie’, possibile che non lo avessero mai trovato troppo invadente e ingombrante, poco rispettoso, insomma, delle regole e della tradizione?

Ci pensavo da più di un mese, oramai, senza riuscire a capirlo, come faceva un uomo di famiglia a tirare avanti così, valeva la pena sopportare tutta quella pressione?

Perché, allora, non passava direttamente alla delinquenza organizzata? Se doveva assumersi dei rischi, almeno che lo facesse per guadagnare tanti soldi e in una maniera che fosse quella riconosciuta in giro, dalla parte delle autorità locali, protetto e rispettato dalle stesse istituzioni.

La volta seguente doveva essere quella decisiva, mi dicevo e mi sentivo male sia per quanto sarebbe successo, che per quanto tempo avrei dovuto ancora aspettare, che per il pensiero che magari si sarebbe dovuto ancora rimandare.

Quella situazione mi stava stressando troppo, doveva finire.

Cercando di trasferirmi nella sua testa, di immedesimarmi nella sua situazione, cercavo anche di capire come potesse sentirsi lui, braccato da tanti come me, o forse peggio di me.

Non ci riuscivo, nemmeno a immaginarmelo.

 

Lo trovai per strada, per caso, dopo averlo cercato per giorni e giorni, per mare e per terra e non ci fu nemmeno bisogno di parlare, il mio comportamento sorprese più me che lui, gli saltai addosso direttamente, gli sputai in faccia, cercando di colpirlo contemporaneamente con i miei cazzotti.

Fu assai differente da come mi ero figurato la scena per cento e mille volte dentro la mia testa, diverso da tutto quello che avevo vissuto dentro di me, come un sogno sudato, un incubo che sapevo che presto o tardi sarebbe dovuto avvenire.

Però i miei erano cazzotti di uno che non ne aveva mai dati a nessuno in vita sua e al primo di rimando, di uno che invece ne aveva certo più volte avuto bisogno, caddi subito al tappeto intontito.

Mi trovai intorno un mucchio di gente che mi aiutò a rialzarmi, quasi tutti mi dettero appoggio morale e un distinto signore che conoscevo, altro uomo di principi morali, come mio padre, mi disse che l’unica soddisfazione possibile, per quel determinato tipo di situazione, come di tutti gli altri che si consumano dalle nostre parti, pensai io, era quella attraverso le ‘famiglie’.

Pochi giorni dopo, con un vistoso occhio nero, me ne andai da mio padre, gli parlai in maniera franca e lui scosse la testa, comprensivo ma non troppo e telefonò a Don Antonino.

Nonostante tutto, mi dispiaceva ancora per Cannizzaro, che cosa gli avrebbero fatto non era una cosa che io potevo controllare, mi disse mio padre, ma loro avrebbero certo saputo cosa si fa in questi casi e poi non c’era solo il mio, ce ne erano vari in lista d’attesa.

Prima di andare all’appuntamento combinato da mio padre con Don Antonino, che era fissato per il giorno seguente, feci un ultimo tentativo di parlare con Cannizzaro, gli telefonai e sorprendentemente rispose direttamente lui.

Gli dissi le cose come stavano, apertamente, lui ammise, finalmente, ma i soldi non ce li aveva più, una famiglia grande come la sua e i vizi di un pover’uomo sono sempre più cari, oltretutto sua nonna era morta e il funerale e la bara, il posto in cimitero, gli erano costati un occhio della testa.

Al mondo d’oggi non c’è più niente di gratis, se proprio volevo saperlo, anche l’amicizia ormai è basata sui soldi… le opzioni aumentano, le spese anche e i soldi sono sempre meno, una specie di condanna dell’uomo moderno, pure nella vecchia Trinacria.

Gli dissi che non c’era bisogno di ingannare gli altri per fare quello che nessun medico gli aveva ordinato, poteva rinunciare alle sue uscite mensili con gli amici, non c’era bisogno di fare cinque figli, né di aver una macchina di lusso, io, per esempio, avevo un lavoro che mi garantiva un buon stipendio fisso e vivevo in maniera certo più modesta di lui.

Certo, si poteva, ma gli altri cosa ne pensavano? Ti trattavano come un poveraccio e allora bisognava mantenersi al passo coi tempi. Ma non era peggio, allora, essere braccato e considerato un imbroglione?

Mi accorsi, in quella conversazione penosa, che vivevamo su due pianeti differenti, i nostri punti di vista non si incontravano, gli dissi che stavo andando da Don Antonino, rispose che facessi pure quello che dovevo fare, non avrebbe cambiato proprio niente, il suo destino era segnato da tempo, ormai era solo questione di tempo.

Don Antonino Laganà era un uomo dal volto pieno di rientranze, nei, peluzzi, rughe e in più butterata dai foruncoli dell’adolescenza ormai lontana.

Seduto alla sua scrivania massiccia e scura, in quella stanza grande e in penombra, dall’odore leggermente ammuffito, il suo mezzobusto metteva una paura concreta alla quale non ero riuscito a prepararmi.

Quando parlava aveva la lenta musicalità della nostra lingua, dura e aspra, quella saggezza minimalista che sapeva amministrare da anni a San Gregorio e a Capo d’Orlando, pur senza mostrare troppo sangue in giro.

Mi ascoltò respirando pesantemente, guardandomi con imperscrutabile calma in faccia, ogni tanto distoglieva lo sguardo, come per riflettere.

Nessuno meglio di lui sapeva che per mettere a suo agio una persona, bastava non spaventarla troppo, ma almeno un poco era necessario, per non farla sentire troppo a suo agio.

Quando mi zittii, mi chiese che tipo di giustizia io volessi, alla quale domanda io non sapevo rispondere. Non si irritò, mi guardò solo negli occhi in maniera più continuata, ma non insistente:

“Carmelo Savona, tu mi devi dire solo una cosa, una sola: vuoi un contratto definitivo, o no?”

“No, quando mai? Che contratto? Che definitivo? Che significa contratto definitivo?”

Il Don sospirò, ci voleva pazienza con me, eppure le cose erano così semplici, solo io non avevo ancora capito come funzionava.

“Tu vorresti, se ho capito bene, solo spaventarlo e magari-magari senza fargli troppo male, è così?”

“Sì, sì, solo spaventarlo e che restituisca i soldi dovuti, certo, non a me, a mio padre, chiedendogli scusa, al massimo, non c’è bisogno di fargli del male, no?”

Mise rumorosamente le tozze mani sulla scrivania, spostò il baricentro del corpaccione raddrizzandolo quasi sulla poltrona e riportandolo poi alla posizione originale, intanto mi guardava facendo una prolungata smorfia con la bocca chiusa e le labbra all’infuori, spingendo il mento in avanti e piegando leggermente la testa all’indietro:

“C’è un piccolo problema, però, che è sopravvenuto solo stamattina…”

“E che cosa è successo stamattina?”

“Vedi, tuo padre mi aveva telefonato qualche giorno fa e mi aveva spiegato la situazione, che però io già conoscevo, poi ieri ha fissato il tuo appuntamento per oggi, ma prima ancora, a cominciare da molto prima della prima telefonata di tuo padre, ho cominciato ad avere tante altre lamentele e gli avvertimenti a Cannizzaro glieli abbiamo già dati tante… troppe… altre volte, la questione è più complicata e ostinata di quello che si pòtrebbe pensare… ultimamente poi l’ultimo sgarbo: non ha nemmeno pagato le spese del funerale della nonna… io di cose in vita mia ne ho viste, brutte, belle e così-così, ma non avevo mai visto nessun figghiu di bottana che non pagasse nemmeno le spese di un funerale, di una nonna paterna.

Ci siamo capiti?

Un uomo di ‘mmerda, un uomo senza logica, senza onore, chiamarlo uomo è già cosa tciroppo generòsa… e che cosa gli vuoi dire a uno così? Sono parole perse, né più né meno come una pisciata in mezzo al mare…”

In quel momento mi sorpresi che mi stavo vergognando per il mio ex amico Cannizzaro, un uomo che, in fondo mi aveva dato dei momenti di grande allegria, che forse non avevo mai provato con nessun altro.

Don Antonino, non so come fece, ma capì cosa stavo sentendo e se ne approfittò prontamente per farmi sentire un poco in colpa, arte che lui conosceva bene:

“E te non ti avevo nemmeno mai visto, eppure hai sempre vissuto qua, o quasi, so che lavori a San Fratello, ingegnere del comune, bravo, hai studiato, hai fatto bene… tuo padre è un uomo d’onore e non voglio nemmeno sapere perché, solo oggi, ti sei ricordato di me, ma se non era per lui t’arrangiavi, te lo dico francamente.”

Si fermò un attimo, anche per vedere l’effetto delle sue parole sul telone della mia faccia… (evidentemente quello era il cinema che preferiva,) e continuò senza fretta:

“Ma io mi sono perso in mezzo al mio bel discòrso, però, il fatto principale è che stamattina ho mandato due picciotti a visitare il tuo carissimo amico Cannizzaro e là non c’è più nessuno… se ne è andato, non c’è più, è scappato, lui e tutta la sua ‘bbella famigliola.

Ecco che il contratto di avvertimento non vale più, purtciroppo, oltre agli altri avvisi fatti in precedenza, anche per questo motivo: dobbiamo corrergli dietro e questo costa tempo e perciò anche denaro, quando lo prendiamo… e lo prenderemo, prima o poi, le pagherà tutte insieme…”

Con tutta la rabbia che potevo sentire per Cannizzaro questa frase me la sentii dentro come una pugnalata.

“Ma allora perché minchia mi ha chiesto se volevo un contratto definitivo o no?”

Da sprovveduto quale sono, a volte non riconosco, a tempo debito, la buona occasione per starmene in rispettoso silenzio.

Il suo sguardo parve indurirsi per un attimo, ma poi si aprì in un sorriso, poco amichevole, certo, ironico e tagliente, ma il primo, l’ultimo e perciò unico che avrei visto in quella faccia scura:

“Ragazzo mio, volevo solo conoscerti un poco, sennò, magari-magari, non ne avremo più altre occasioni… e chi lo sa?”

Gli uomini in fondo sono ancora animali, anche se si sono distanziati dalla loro vita più boschiva e oggi vestono la cravatta con più naturalezza.

Forse non sono migliorati, magari sono pure peggiorati, almeno da alcuni determinati punti di vista.

Sappiamo che molti popoli primitivi della nostra, non solo storicamente affascinante penisola, adottavano nomi di animali, come loro ideali capostipiti.

Secondo la tradizione il nome Itali (da cui Italia) sarebbe derivato da Vituli, un’antica popolazione stanziata nella Calabria e così chiamata da Vitulus (in latino = vitello), altri esempi i Picenti da ‘picus’ che poi è il picchio e gli Irpini da ‘hirpus’ o lupo.

Difficile dire come sia il carattere, fisico e morale, dell’italiano medio.

Ci sono molte differenze, da nord a sud, dalla città alla campagna, dalle isole alle montagne.

Anzi, a volte, nella stessa famiglia si hanno le diversità maggiori, basta guardare i due fratelli di Cannizzaro e suo padre, gente dalla specchiata onestà.

Non so cosa gli sia successo, a Giannetto Cannizzaro, non ho più visto né lui, né Don Antonino, il quale morì pochi mesi dopo e non fu nemmeno di morte violenta, dicono.

Ogni tanto, chiudendo le palpebre, mi trovo davanti l’immagine della facciona seria di Cannizzaro, nello sviluppo di frasi rapide e concantenate, in un roteare di occhi bovini, in un mulinare di gesti di braccia, introduzione per una successiva battuta finale, che avrebbe fatto spanciare dal ridere tutti i presenti.

Mio padre ammette a malincuore che era simpatico, sì, ma in maniera calcolata, per potersene poi approfittare schifòsamente.

Io obbietto, invece, che era anche generoso e offriva sempre da bere a tutti, donava la sua allegria e senza scegliere a chi, non solo e non sempre per sfruttarne le conseguenze.

Mi dette sempre l’impressione di essere buono, nonostante tutto, di aver un cuore grande e che la sua scarsa affidabilità, che sfociava spesso e volentieri - per non dire quasi sempre - nel truffaldino, fosse debolezza, una maniera per girare intorno ai problemi senza avere la forza di affrontarli in maniera più cosciente.

Insomma, come succede a tante persone, lo sforzo enorme che faceva per risolvere le cose, distorcendo le responsabilità e cambiando di posto i responsabili, era ben maggiore di quello che avrebbe fatto se si fosse comportato in maniera onesta e un po’ più logica.

Ma non era solo questo.

Due cose che in altre persone contrasterebbero, sincerità e falsità, in lui magicamente pareva che convivessero con grande armonia.

Spero che stiano bene, nonostante tutto, lui e la sua rumorosa famiglia e che abbia imparato qualcosa dalla sua storia, ora che la sua geografia è cambiata.

Insomma: una storia triste e allegra allo stesso tempo, che potrebbe essere accaduta dovunque e che mi piacerebbe veramente di sapere come è andata a finire, ma qua non si può più nemmeno nominare il suo nome invano: ti guardano male, ti lasciano a parlare da solo, se ne vanno.

 

 

A Cime Tempestose ogni tanto si prova anche a fare serate a catering misto. Quella volta non andò tanto bene, mi ricordo che il vino lo aveva portato Tommaso ed era forte, sincero e rustico, le polpette di Iuri buone ma troppo pesanti e le frittelle di Dietmar mattonate per gli stomaci, con un vago sapore misto di prezzemolo, gesso e origano. Lui disse che dentro c’era anche del pollo, ma nessuno ne trovò traccia. Le risultanti scorregge notturne più rumorose del solito, ma relativamente meno puzzolenti.

 

 

Capitolo 7

 

 

Chi non ha mai provato il silenzio assoluto non lo cerca affatto e forse ne avrebbe anche paura. Quel vuoto acustico doloroso per alcuni e sublime per altri, in montagna spesso si manifesta, anche a Cime tempestose, senza nemmeno uno stormire di fronde, né il ronzare di un’ape, o un campanaccio lontano delle pecore.

Dopo un’altra dose di stress lavorativo non indifferente siamo arrivati su particolarmente stanchi, soprattutto di avere a che fare con gente che ci complicava la vita senza tirarne fuori alcun vantaggio, se non il gusto di nuocere, speriamo almeno inconsciamente.

Manco a farlo apposta ecco un racconto che cadeva come il cacio sui maccheroni. Per strana coincidenza quella sera i ravioli e il sugo di carne fatti dalla moglie di Tommaso erano ottimi, anche se lui si era dimenticato di portare il formaggio. Lo perdonammo anche se era imperdonabile.

Il manoscritto in questione, ambientato in Brasile, psicologico e inquietante, era stato scritto da Marcos Pontes e letto da me, in via eccezionale, forse per testare anche le mie capacità, che nel caso specifico, ahimè, sono piuttosto scarse. Per leggere bene ci vuole un attore, l'intonazione è  importante e chi pensa troppo a quello che sta leggendo non ci riesce, bisogna prepararsi prima, ma ci vuole del talento, della predisposizione che io non ho, anche se mi piacerebbe.

Marcos aveva ancora un italiano orale un poco zoppicante, ma la scrittura era impeccabile, all'occorrenza usava bene sia le espressioni regionali che termini più dotti e specialistici. I due brasili che si raccontavano a Cime Tempestose erano diversi, quello di Leo era di clima più caldo, di gente più scura e maggior pericolo, non solo di vita, per gli abitanti. Forse perché era di Ilheus, nello stato di Bahia. Quello di Marcos era più europeo e freddo d’inverno, con più psicologia e meno pericolo urbano. Infatti era nato a Jaguarão all’estremo sud, nello stato del Rio Grande do Sul, alla frontiera con l'Uruguay e abbastanza vicino all'Argentina. Tra le due città brasiliane ci sono approssimativamente tremila chilometri di saliscendi, di strade piene di buche e mal illuminate, più pericolose della guerra fredda, perché spesso erano anche calde, a volte anche bollenti.

 

7)LO SGUARDO DELL’ENTOMOLOGO Marcos Pontes

 

 

Quando lavoravo come professore di materie scientifiche mi sorpresi di quanti soffrissero della strana Sindrome del Bastiancontrario. Se in classe mi azzardavo a dire una cosa di cui ero obbligato a citare l’esistenza, ma di cui ero anche certo dell’inutilità, ecco che per loro, automaticamente, diventava la più importante ed unica questione, almeno fino alla fine della lezione. Molti di loro se la ricordavano anche nelle seguenti e insistevano nello spiegare per forza, a tutti, nuove ed interessanti sfaccettature sulle quali si erano esaustivamente documentati. Non valeva la pena di dargli eccessiva soddisfazione, perché allora si convincevano ancora di più dell’importanza nascosta dell’argomento in questione. Col tempo imparai a mettermi un po’ da parte e a considerare questi soggetti soprattutto a livello antropologico. Dopo un po’ quelli si stancavano, soprattutto se nessuno li contrastava.

Ho notato che ci sono anche persone che se tu dici che i peperoni ti hanno fatto male, per esempio quelli che erano sulla pizza, vogliono convincerti che era un’altra cosa, ma non i peperoni. Se dici che il caffè non ti fa dormire, per loro diventerà un punto d’onore dimostrarti che non è vero, è solo una questione psicologica.

Un mio conoscente è convinto di essere bravo a fare i  discorsi, cosa dalla quale invece io mi sento terrorizzato. Ne è proprio orgoglioso e quando ce n’è bisogno lo chiamano immancabilmente. Se qualcuno gli chiede qual è il suo segreto, dice che sono tre:

1)Prima dico quello che sto per dire

2)Poi lo dico

3)Dopo ripeto quello che ho detto.

Naturalmente, poi, finita la lista dei ringraziamenti e delle ruffianate, lo scheletro del discorso vero e proprio sono dei luoghi comuni triti e detti mille volte da altri in occasioni del genere o anche completamente differenti, durante conferenze o celebrazioni di qualsiasi tipo. La maggior parte della gente la pensa come me, a riguardo: i discorsi sono cose che nessuno ha voglia di fare e nemmeno di ascoltare.

Proprio ieri ho visto un documentario sull’archeologia e anche sulla scienza in generale, in cui gli intervistati dicevano che teorie nuove, o prove importanti che cozzavano con tutto il precedente di quella materia, venivano accantonate e nascoste, semplicemente perché scomode, si sarebbe dovuto mettere tutto di nuovo in discussione.

Sono arrivato alla conclusione che gli umani amano ingannarsi sistematicamente: prima lo fanno con se stessi, poi con gli altri, gli altri lo fanno con loro e la verità rimane perlopiù intoccata. Tutto questo non gl’impedisce certo di sventolarla come una bandiera sacra e inviolabile, ma ne parlano come una cosa astratta, che naturalmente non conoscono e nella pratica non vogliono nemmeno conoscere, anzi: ci stanno attentissimi a non venirne nemmeno sfiorati. Se si tratta di una facciata piace a tutti, però nella sua applicazione pratica non gl’interessa, perché è una cosa scomoda.

La verità è troppo rigida, si capisce, invece la bugia apre un ventaglio enorme di possibilità, si può scegliere quella che ci piace di più, quella che ci avvantaggia maggiormente, se ne avessimo bisogno, se ne possono cambiare anche delle parti, strada facendo. Si sfocia di nuovo inevitabilmente nella solita antropologia, una scienza molto vasta che io posso dire d’ignorare profondamente, ma che mi affascina.

Nella mia routine di ogni giorno, cerco di capire gli esseri umani e meno ci riesco e più mi appassiono all’argomento. Leggo riviste specializzate e mi studio persino i grafici, confronto me stesso e la mia esperienza attiva nel mondo degli umani, pratiche e teorie, parole e omissioni: assordanti silenzi.

Ogni tanto mi chiedo come fanno le persone senza scrupoli a dormire la notte. La risposta è nel modo in cui certe cose agiscono dentro la mente, quindi  anche nel corpo del vivente, si capisce bene che a loro non fanno male, ma non è affatto un calcolo o una scelta comportarsi così. In maniera retroattiva si riesce a comprendere, eppure non a prevenire, i meccanismi non sono semplici e soprattutto non agiscono alla stessa maniera sui differenti soggetti. Sempre accanto a me, mia moglie non condivide affatto la passione per l’antropologia maccheronica, spesso mi prende in giro e confesso che mi ci diverto anch’io a discutere tesi che non riesco a dimostrare nemmeno a me stesso. Almeno abbiamo un argomento che ci tiene impegnati, Luiza è l’unica persona con cui parlo abbastanza, tutti i giorni, specialmente durante i pasti, la mattina e la sera a letto. Ci accomuna soprattutto un determinato senso dell’humour, prendiamo sul serio tutto e niente.  Normalmente lei però tende a dimenticare quello che ci siamo detti, e anche la mia memoria non è più quella di un tempo, per cui registro di nascosto le nostre conversazioni. Il fatto è che poi lei dice che mi sono inventato quelle cose e poi mi vengono dei dubbi anche a me.  Non che m’interessi di aver ragione, fino a poco tempo fa non le avevo nemmeno detto niente, ma grazie al mio trucchetto ho potuto registrare il nostro dialogo, avvenuto a letto, la sera verso le 22, mentre sorseggiavamo camomilla e ascoltavamo musica classica a basso volume. Inutile dire che è diventato un documento storico, per quello che si è saputo dopo.

Di solito sono io che lancio l’argomento, Luiza è più stanca, passa la sua giornata in mezzo alla gente e ha meno voglia di parlare:

-Sai che cosa ho scoperto oggi?

-No.

-Indovina.

-Che ne so?

-Prova a indovinare.

-Vediamo: oggi sei uscito, quindi possono essere successe tante cose, molte di più del normale, di quando stai a casa, cioè nel 99% dei casi. Che non rispondi nemmeno al telefono…

-Non è vero, magari non mi scapicollo per arrivare in tempo… e poi a volte non riesco proprio a comunicare con questi forsennati che chiamano per vendere qualcosa.

Se ci metto un secondo per pensare, poi, prima di rispondere, figurati che pensano che io abbia riattaccato…

-E a volte riattacchi veramente.

-Nooo, e chi te lo ha detto?

-La mia nuova amica Xica…

-È nordestina?

-Sì, sei per caso diventato razzista?

-No, figurati, solo che la maggior parte di quelle che telefonano dai Call Center sono del Nordest…

-Va bene, la prossima volta le dico di fare un accento più Paulista…

-Così avremo risolto anche questo caso.

Tornando a noi, non riesci proprio ad indovinare che cosa può essere successo oggi di sconvolgente?

-Non lo so, lasciamici pensare in maniera logica, con calma. Oggi, io, per esempio, so che sei andato dal dentista, non è che avevi appuntamento anche con Pedro?

-No, ma la mia scoperta riguarda tutti e due, ma in maniera diversa, questi stimati professionisti.

Stimati da te, almeno, non da me.

-No, certo, quando mai? Allora che hai scoperto? Che sei omosessuale e che da grande vuoi fare il dentista?

-Vabbè, vedo che stai pensando ad uno scherzo, ma invece è serio, piuttosto drammatico direi…

-Come sei sempre esagerato… Allora, me lo vuoi dire tu? Vedi che mi sto cominciando a preoccupare…

-Brava! Proprio preoccupata devi essere, perché ce n’è motivo, te lo dico io…

-Mi vuoi dire finalmente di cosa stiamo parlando?

-Sì, hai ragione, te lo dico subito: Pedro è uno psicopatico.

-Come uno psicopatico? Ma se è uno psichiatra…

-Infatti, questo è il tragico della commedia della vita, della sua assurda ma a volte divertente mistura di tragedia e commedia…

-Non dire cretinate. E poi, come è che tu hai potuto fare una scoperta del genere? Perché proprio oggi?

-Beh, oggi dal dentista, ho dovuto aspettare una mezzoretta, quindi come al solito mi sono attaccato alle riviste, ce ne erano di nuovissime, ancora cellofanate ed allora ne ho scelta una pseudo-scientifica… non mi ricordo come si chiama, ma è una nuova, non l’avevo mai vista.

-Una rivista mai vista, interessante...

-SUPER-INTERESSANTE! Ecco come si chiama!

-Bel nome, veramente, originale e per niente sensazionalista.

-Tutte lo sono, il mondo occidentale è diventato così, le notizie sono merci da vendere e nient’altro.

-È vero. Quindi è stata questa rivista che ti ha sussurrato in un orecchio che Pedro è psicopatico?

-Non direttamente, ma mi ha fornito un identikit sorprendentemente perfetto, combacia troppo bene per non essere vero…

-Tu sei fuori di testa.

-No, NOI siamo fuori di testa, tu perché mi obblighi a queste sedute con uno psicopatico ed io che so che non ne avrei bisogno, nemmeno se fosse una persona degna, la qual cosa non è.

Solo perché, ora che sono in pensione, non esco e me ne sto qui tranquillo tutto il giorno, allora per te è un motivo di preoccupazione.

Se ti ho assecondato finora, lo ho fatto per te, per farti stare tranquilla, magari anche perché ero curioso, lo ammetto, ma ora non mi chiedere di continuare.

-Il mondo è rimasto uguale a prima, come te lo devo dire? Chi è diventato eccessivamente critico sei tu, uomo perennemente in pantofole e vestaglia di raso.

-Questo lo dici tu, vedi che il mondo è peggiorato forte, rifiutarsi di guardare le cose in faccia non serve.

-Sei tu che ti rifiuti di uscire, non io.

-Esco solo quando è necessario. A che serve uscire se poi dopo ci si limita a fingere che tutto vada bene, che niente sia cambiato?

-Quella che finge sarei io? No, caro, bisogna cercare anche di essere positivi no? Chiudersi in un bunker non ha senso.

Ma, aspetta un po’, perché dicevi che SIAMO fuori di testa? Pensavo che tu insinuassi che lo sarei stata solo io, da come sei partito…

-Infatti, ma sono fuori di testa anch’io, solo perché ti do retta e acconsento a farmi scandagliare il profondo del mio essere da un pazzo che magari è pure pericoloso…

-Ma che pericoloso? Se me lo ha raccomandato Carlos! Eppoi è l’unico disposto a fare visite a domicilio...

-Che meraviglia! Due motivi più che validi: ecco da chi è venuta la raccomandazione, da uno che ha passato la vita sdraiato sul divanetto ed è diventato sempre più scemo… se tu me lo avessi detto prima mi sarei rifiutato, stai sicura.

-Non ti è simpatico, lo so, ma Carlos è una persona intelligentissima…

-Su questo posso anche essere d’accordo, però si comporta come un idiota, da chi ha imparato non lo so, certo che i suoi vari terapeuti sono stati capaci solo di farlo diventare sempre più cretino.

Sembra quasi un finocchione.

Non ho niente contro i finocchioni autentici, intendiamoci, ma quelli che lo sembrano e basta, per fuggire da qualcos’altro...

-Lo so, la vita ci delude spesso, non è quasi mai come ce la eravamo immaginata…

-No, ma è inevitabile, guarda: in alcuni casi sembra che ci si sforzi proprio perché le cose vadano male, la maniera di cercare la felicità unilateralmente e in maniera ossessiva porta per forza ad una profonda infelicità…

-Sì. Sì, me lo hai detto miliardi di volte. Vabbè, torniamo a noi: che diceva la rivista?

-Diceva che lo psicopatico non è sempre un delinquente, come tutti pensano, anche se in prigione se ne trova la maggior percentuale, cioè il 20%.

Può essere una persona gentilissima, manipolatrice, arrivista, che non lega con nessuno e sa capire meravigliosamente bene i sentimenti degli altri e come sfruttarli alla perfezione, anche se lui, lo psicopatico, non ne ha.

Ma è proprio questo il suo trucco.

-E questo identikit sarebbe quello di Pedro? Ma se è una persona stupenda, solare, sempre allegro, intelligente e disponibile…

-Scusa, ma tu lo conosci? Mi avevi detto di no...

-No, l’ho solo incrociato un paio di volte, che però mi hanno confermato questa impressione, chi me ne ha parlato e in termini entusiastici è stato proprio  Carlos…

-Ecco, come volevasi dimostrare.

-Cosa?

-Cencio ti dice che Straccio è una persona eccezionalmente positiva e tu cosa fai? Gli credi? Sono due grandi falsi, te lo dico io, solo che Carlos è fondamentalmente buono, il suo problema è l’abbondanza di sentimenti che gli provoca una turbolenza di confusione in testa… ma Pedro no, è sottile e a volte perfino impercettibile, ma se solo si rende necessario ecco che ti passa addosso come un caterpillar e ti schiaccia… e sai perché? Non ha sentimenti, ha sempre ragione lui, perché è determinato e se si fissa che qualcosa è come dice lui e non come dici te, è meglio che ti scansi, sennò sono cazzi tuoi… a forza di frasi e insidie verbali ben mirate, ti mette k.o.

-Non è che invece sei tu che esageri? Non sarebbe la prima volta. Fammi qualche esempio pratico.

-Niente di trascendentale, sempre piccole cose, infatti non ti ho mai detto niente, ho sempre saputo che gli psicoterapeuti hanno un carattere forte…

Però certe robe sono indicative, lo avevo sospettato, ma ora lo so di certo.

-Allora, questi esempi?

-Beh, come sai noi due fissiamo gli appuntamenti di volta in volta, perché lui ha un’agenda molto movimentata, quindi io devo stare a quello che vuole lui ed è anche giusto, perché da pensionato posso fare quello che voglio e quando voglio, poi essendo lui disposto a venire qui, dopo tutto, non posso avere pretese supplementari…

-Va bene, ne abbiamo già parlato più volte, non c’è bisogno di spiegarmi…

-Sì, scusa, allora lui per esempio dice: ti va bene martedì alle 19?

Io dico: sì va benissimo.

Poi lui ci ripensa, dice no, martedì no, va bene giovedì alle 16?

Certo, sì, per me va bene, rispondo io.

Poi magari mi ritelefona e cambia di nuovo l’orario.

In alcuni casi è riuscito a cambiare fino a quattro volte, data e ora.

E sempre io gli rispondo di sì.

Bene, il giorno prestabilito poi non viene, o viene un’ora prima, o mezz’ora dopo, o all’orario in cui l’ora doveva terminare.

Spesso non è un problema, per me, tanto io di fissato non c’ho niente.

Ma quello che mi manda in bestia è che lui nega, dice che sono sempre e solo io a sbagliarmi…

-E non potrebbe essere?

-Guarda, la prima volta con tutta la confusione che aveva fatto mi sono ricreduto anch’io, di quello che ne avevo pensato, ma dopo, con metodo e diligenza mi sono messo a segnarmi tutte le volte che aveva cambiato e l’ultimo appuntamento, quello valido…

-E allora?

-Tu lo sai che quando io mi metto ad usare metodi scientifici ho una certa capacità… non mi succede spesso, ma se mi sfidi divento di un’esattezza millimetrica…

-Non sempre.

-Quando è che mi sono sbagliato?

-Quella volta che dovevi andare a prendere Marcio all’aeroporto, per esempio.

-Ma te l’ho detto che non trovavo la chiave di casa, che potevo fare? Uscire e lasciare la porta aperta? O cercare disperatamente di ritrovarla? O rimanere fuori fino al tuo ritorno?

-Va bè, sì, un fattore esterno era intervenuto in questo caso.

-Che poi eri stata tu che avevi preso per sbaglio la mia, quindi io ho dovuto cercare la tua…

-Vabbè, vabbè, ammetto che a volte faccio dei pasticci, tu sei molto più ordinato; poi, quando ti convinci che vuoi essere scientifico, sei veramente un mostro.

Ma tornando alla tua storia?

-Tornando alla mia storia, non mi ricordo dove eravamo rimasti.

-Che ti segnavi tutti gli orari metodicamente.

-Infatti, così ho fatto, ma lui ha continuato a negare, poi ha iniziato ad inventare altre scuse: che mi aveva mandato un messaggio con il telefonino, per avvertirmi che non poteva venire, che aveva avuto un imprevisto.

Messaggio che io puntualmente non avevo ricevuto, o avevo ricevuto solo il giorno dopo, o solo qualche ora dopo…

-Ma tu perché non mi hai mai raccontato niente?

-Bella domanda. All’inizio mi vergognavo io per lui. Poi ho cercato di capire meglio cosa stava succedendo.

Confesso che all’inizio ho dubitato di me stesso, da tanto che questa storia mi pareva paradossale.

Pensavo che magari ero io che ero impazzito, o che Jonesco da morto mi aveva catturato e ficcato in una delle sue opere teatrali…

-Certo che te sei esagerato sempre, nel bene nel male…

-Questo è vero, la colpa diventa indirettamente mia, a volte mi ci infilo tanto che ne soffro più del necessario.

Certo molto di più di uno che non ha sentimenti…

-Ma poi che è successo?

-Poi ci ha provato anche con gli e-mail: ma il trucco era lo stesso, qui ho pensato che era solo un povero idiota, ma ancora di più lo ero io che gli davo retta.

Finché gli ho detto che era inutile continuare, che tutti e due sapevamo quale era la realtà, perché sforzarsi tanto di negarla?

-E lui?

-Ha tirato fuori delle scuse così stiracchiate che si schiantavano da sole, ha cominciato a dire che i suoi pazienti in genere facevano di peggio… cose senza senso, almeno per me, ha perso totalmente la logica… e senza mai ammettere che aveva mentito e pure ripetutamente, solo per non fare brutta figura…

-Beh...

-Intendiamoci, non che siano cose di grande importanza, ma quando siamo arrivati quasi a litigare, mi è sembrato così assurdo, che io mi metta a nudo, che io mi apra nelle cose più intime con lui, che mi faccia dire che cosa dovrei fare da uno che si comporta come un bambino, che inventa ramificatissime scuse solo per evitare di ammettere di essersi sbagliato…

-Beh, se è così hai ragione, però da questo a dire che è uno psicopatico…

-Allora leggiti questo identikit. Secondo me combina.

La donna coi bigodini si mette a leggere la rivista che l’uomo in pantofole, uscito dal dentista, aveva comprato, per guardarsela con calma.

L’articolo è di sei pagine, con varie fotografie, grafici, composizioni di figure, il tutto abbastanza sensazionalista.

“Ci sono 69 milioni di psicopatici nel mondo, l’1% della popolazione mondiale, 20% della gente che è in prigione, 86,5% dei serial killer.

È 4 volte più comune trovare psicopatici nelle imprese che nella popolazione in generale.

Lo psicopatico non ha sentimenti, ma sa riconoscere, interpretare e poi usare, meravigliosamente bene, i sentimenti degli altri.

Mostra ammirazione per il talento e per i punti forti della vittima. Vuole essere visto come l’unico che veramente nota il suo potenziale nascosto.

Identifica perfettamente le caratteristiche della personalità della vittima e finge di condividere gusti ed interessi.

La vittima, pensando di aver trovato finalmente un amico, gli confida i suoi segreti più intimi, apre il suo cuore rivelando paure e speranze.

Ultimo stadio della manipolazione, lo psicopatico crea un anello di congiunzione psicologico che promette una relazione stabile.

È superficiale, non gli importa dei contenuti, ma solo di come potrebbe ‘venderli’

È narcisista: si preoccupa solo di se stesso

È manipolatore: mente e usa le persone per riuscire ad ottenere quello che vuole

È freddo, è razionale e calcolatore, perché ha poca attività nel sistema limbico, centro di emozioni come paura, tristezza, disgusto.

Senza rimorso: non sente colpa. La parte del cervello responsabile ha bassa attività.

Senza empatia: non riesce a mettersi nei panni degli altri.

Irresponsabile: si impegna solo in ciò che gli può portare benefici.

Impulsivo: tenta di soddisfare le sue necessità al momento

Incapace di pianificare: non stabilisce mai una meta a lungo termine

Imprudente: corre rischi e prende decisioni audaci”

(fonte: Without Conscience - Robert Hare)

 

Forse mia moglie non aveva tutti i torti, sono sempre stato un po’ esagerato, sia nel correre troppo velocemente alle conclusioni, che poi a fondarci sopra tutto il mio credo a venire.

Secondo lei non correvo alcun rischio, e alla luce dei fatti a seguire aveva ragione lei, solo che nessuno di noi poteva saperlo.

Intanto io non mi sentivo affatto tranquillo e ho detto a Pedro che poteva bastare così, lui non ha protestato, credo che abbia pensato che fosse per via dei nostri attriti.

Di questo con lui non ne ho parlato, naturalmente, ma credevo che in questo caso fosse proprio lo psicoterapeuta che avesse bisogno di una robusta cura, non io.

Per quanto misantropo, solitario e diffidente sono una persona abbastanza equilibrata, almeno in vecchiaia, lo sono diventato sempre di più e lo vedo soprattutto confrontandomi con gli altri.

Ma psicopatici si nasce o si diventa?

Non lo so, però tutto il mondo occidentale, spinto dalla voglia di risultati, dall’assurdità di voler sempre crescere in spazi e tempi  limitati, si sta comportando alla stessa maniera, solo che non se ne accorge.

Insomma: magari nessuno nasce cattivo, ma è la società, quindi la vita stessa, che ti porta a delle distorsioni del tuo carattere che a volte sono da te conosciute e persino bene, ma alle quali non puoi sfuggire.

Che cosa era successo a Pedro Calheiros, per diventare quello che era, non poteva essere troppo differente da quello che era accaduto a tanti altri, che però avevano sfogato le loro magagne in modo diverso.

Alla luce di quello che venne fuori, solo un anno dopo, certo si poteva dire che Pedro fosse uno psicopatico, ma di un tipo abbastanza raffinato, perché non era uno che inseguiva solo il traguardo, ma si godeva, in una certa qual maniera, anche il percorso.

Uno psicopatico in genere vede il suo lavoro solo come mezzo per arrivare a risultati in denaro e/o potere.

Invece Pedro amava in qualche modo distorto ed abnorme il suo lavoro, tanto che lo proteggeva anche da se stesso, come si capirà in seguito.

Quando ho messo in dubbio la sua professionalità, nel caso di orari e appuntamenti non rispettati, per la prima volta ha perso la sua sicurezza, ha inventato scuse senza senso.

Forse non volendo lo avevo colto in un punto debole.

Apparentemente era uno normale - se solo la normalità esistesse - intelligente e tutto, arguto e affabile, forse un po’ troppo solitario, ma quello non è un crimine, sennò per primo arresterebbero me.

Recitava a memoria, meravigliosamente bene e senza ridere, le battute dette dagli altri, ma io l’avevo capito che era solo un cliché, che non era tanto per divertirsi, le usava piuttosto per far credere che lui fosse quello che voleva che gli altri credessero.

Magari il fatto che avesse un codice di comportamento assai logico e pieno di buonsenso, nei limiti del possibile, gli aveva permesso di agire indisturbato per anni.

La gente sarebbe voluta più volentieri rimanere nella sua ignoranza, rispetto a questa sgradevole verità, a cominciare da Luiza.

Ho saputo che diceva sempre che la realtà non aveva temperatura, Pedro, quando qualcuno lo accusava di interpretarla con una certa freddezza.

Alla fine sono rimasto antropologicamente impressionato, se così posso dire, oltre che da tanti particolari assurdi ma anche logici, da altri dettagli per me ancora incomprensibili.

Delle sue venticinque vittime ora si sanno vita morte e miracoli, compresa la tecnica usata con ognuna di esse, attraverso giornali e programmi televisivi che si fanno grassi sulla morbosità della situazione.

La sua etica professionale comunque è fuori questione: si è scoperto che non ha ucciso nessuno dei suoi pazienti, nemmeno un ex.

Del movente quindi nessuno ci capisce niente, Pedro ha massacrato delle persone di tanti tipi differenti e che non si conoscevano tra di loro, alcune lui le conosceva, altre no.

Un serial killer colpisce una determinata categoria, qualcuno che fa parte di un folle disegno, spesso dalla logica complessa e distorta, ma alla fine, col senno di poi, comprensibile.

Qui sembra che le vittime siano state scelte a caso, oppure facevano parte di quella larghissima fascia dell’umanità che non erano mai state, nemmeno per un secondo, in cura da lui.

Era questa la loro colpa?

 

 

 

Qui si parlava anche male degli psicologi, giacché Marcos era stato uno di loro, ma più che criticare la sua stessa categoria, quindi anche un po' se stesso, ironizzava in maniera pungente sulle tendenze alle malattie mentali dell'uomo della società moderna.

Per quanto esagerato, più o meno per tutte e due le fazioni, Qiang ha obbiettato che secondo lui era invece attualissimo e senza dubbio in anticipo sulla percezione della società stessa, sempre pronta a scusarsi e a giustificarsi, ma molto meno a cercare di cambiare qualcosa, eventualmente persino a migliorare. A Qiang è piaciuta anche la maniera in cui Marcos parla dei bastiancontrari all'inizio, in maniera che tutti possano confrontarli con la loro fazione degli Stoici, completamente differenti. Marcos nel suo racconto è riuscito anche a far soffrire tutti: protagonisti e lettori, e questo agli Stoici era particolarmente gradito.

"Qui non solo si rimane nel mistero, sui motivi reali, se ce ne sono veramente di validi, per praticare tali efferati delitti, ma li si rivela solo in fondo, poco prima della fine. Un tipo di struttura innovativa perciò preziosa per il club." Ha detto Qiang ed è stato premiato da una poderosa salva di pernacchie, che lui ha interpretato come un segno di approvazione, e lo ha retribuito con dei piccoli inchini, le mani giunte in maniera tipicamente orientale.

In seguito alcuni membri hanno citato persone che assomigliavano allo psicopatico in questione, tra cui Dietmar che magari per caso quella sera era assente ed è nata una bella litigata, ma quella gentaglia si è divertita assai. Qui tutto è per scherzo e sul serio, per questo e per altre ragioni intrinseche mi piace assai. Un po' come il mio rapporto con Florence nel quale giochiamo a fare gli adulti, ma senza crederci veramente che sia una cosa buona e giusta smettere di essere bambini alla nostra vetusta età.

 

 

Capitolo 8

 

 

Florence vuole sempre che vada dal dottore, secondo me ne avrebbe più bisogno lei, che ha sempre la tosse e ingerisce più medicine che acqua. Comunque io rispondo che non ci vado, perché non vorrei che mi trovassero cose che nemmeno cercavano. Lei dice che tutti gli uomini sono così, che suo padre quando riuscirono a portarlo dal medico, dopo anni di tentativi, era già troppo tardi e morì. Io dico che è proprio per quello che non ci vado, voglio continuare a vivere e lei si arrabbia e dice che con me non si può parlare. Meno male, così sta zitta.

Ho iniziato finalmente a scrivere il mio racconto  giallo ma non troppo, come da tempo avevo mentito di aver già portato a buon punto. Mi era venuta da tempo un'idea che avevo sviluppato attraverso alcune annotazioni, per un eventuale romanzo da scrivere quando avessi avuto più tempo, o in vecchiaia. Insomma in quella delle due situazioni che si fosse verificata prima.

Prima di conoscere Harold ero dell’idea, abbastanza comune, che una società per funzionare efficamente, debba necessariamente essere formata da un numero di soci dispari e inferiore a tre. L’ho conosciuto a Edimburgh, dove aveva una libreria che ora ha lasciato a un socio, a sua volta. Ero rimasto conquistato sia dalla maniera di lavorare che dalla libreria Honey Pie, da come era luminosa, ben organizzata ed efficace sia nella sua filosofia più spiccia, che nelle prodigiose vendite e avendo attaccato discorso di conseguenza, piacevolmente sorpreso dal suo italiano entusiastico e solo un po’ zoppicante, appreso in seguito che per lui il grande sogno era una libreria in Toscana, gli ho fatto per scherzo - ma sul serio - la mia proposta, e lui sul serio - ma facendo finta di scherzare - l’ha accettata.

Harold King fa parte di quel rarefatto numero di individui umani, ma anche un po’ disumani, che sapevo esistessero, ma non ne avevo ancora incontrato nessuno. Non avendo abbastanza di quello a cui hanno diritto, che è già tanto, vogliono sobbarcarsi anche il lavoro degli altri, in questo caso il mio, che gli ho ceduto senza limiti né remore. Da quando Harold è sceso giù a Pistoia il mio orario al pubblico è scomparso, nel senso che mi sono dimenticato dell’orologio, vado in negozio quando ho voglia e lui è sempre contentissimo. Insomma il mio guadagno è del cinquanta per cento, ma io lavoro per la percentuale di tempo che io stesso stabilisco in base a tutte le altre mie esigenze, che improvvisamente sono diventate più importanti della libreria, che mi piace anche assai, ma purtroppo si ha a che fare anche e soprattutto con la gente, che mi garba sempre meno. Quando sono in negozio fa quasi tutto lui e a me non resta che appoggiarmi a qualche scaffale a parlare del più o del meno con i clienti più simpatici, a volte anche di letteratura e di libri, lo ammetto, ma piuttosto raramente. Harold ha un’energia inesauribile e una voglia di fare che solo a guardarlo mi stanco, quindi cerco di ignorarlo. Florence viene chiamata solo in casi di emergenza, dice che Harry potrebbe anche rubare dei soldi, visto che io non lo controllo proprio e che sta da solo in libreria quasi tutto il tempo, ma io le dico che anche se lo facesse, sebbene io non ci creda, ne avrebbe il sacrosanto diritto e la mia approvazione incondizionata.

Intanto ho iniziato con Qiang e Rino la mia attività di produttore di Bonsai, avendone finalmente capito e approvato a fondo la filosofia.

 

Nonostante la parola Bon-sai sia giapponese, l'arte che descrive, ha origine durante l'impero cinese. Prima del 700 d.C. i cinesi avevano iniziato l'arte del pun-tsai, utilizzando tecniche speciali per crescere alberi nani in vaso. Originariamente solo l'elite della società praticò il pun-tsai con esemplari autoctoni raccolti e gli alberi furono distribuiti in tutta la Cina come regali di lusso. Durante il periodo Kamakura, periodo nel quale il Giappone adottò la maggior parte delle tradizioni culturali della Cina, l'arte di coltivare alberi in vaso venne introdotta in Giappone. I giapponesi svilupparono il Bonsai secondo certi principi a causa dell'influenza del Buddismo Zen e del fatto che il Giappone è solo il 4% delle dimensioni della Cina continentale. La gamma delle forme del paesaggio fu quindi molto più limitata. Molte famose tecniche, stili e strumenti furono sviluppati in Giappone traendo spunto da quelli originali cinesi. Sebbene conosciuto in misura limitata al di fuori dell'Asia per tre secoli, solo recentemente il bonsai si è diffuso veramente fuori dalle sue terre di origine.

E pensare che prima mi faceva addirittura soffrire la vista di quegli alberi in miniatura, sapendo che quelle piantine erano diventate così proprio perché avevano dovuto minimizzare le loro attività, per aver sofferto sistematiche privazioni.

Qiang mi aveva spiegato che è così anche per gli uomini, nonostante i deliri di grandezza di molti, la vita non necessariamente deve essere la realizzazione di progetti grandiosi, che poi sono un'esaltazione esagerata dell'umana vanità: nel piccolo si è molto più felici, ci si concentra meglio sulle cose che ci piacciono, ci si dedica alle persone che ci stanno vicine e si fa anche meno male agli altri.

Non ci sarebbe niente di sbagliato nel successo, ha detto, se fosse solo il riconoscimento pubblico conseguente alla realizzazione del proprio talento, se non sviluppasse successivamente nell'uomo un meccanismo che in molti casi lo porta a pensare di essere un essere superiore. Che cosa è il successo se non una proiezione del dannato istinto d'imitazione che c’illude di poter diventare dio in terra? Un bel giorno ci si accorge poi, che la nostra frustrazione è diventata uno stile di vita che ci ha fatto sistematicamente allontanare dalle cose buone che erano alla nostra portata e che si realizzano meglio in una dimensione umile e limitata e diventano proibitive in una scala dilatata come quella che fantasticando di onnipotente grandezza si è creata nell'immaginario collettivo, manipolato dai mass-media e dal sottostante capitalismo-consumismo, mentalità da mostri senza testa, sempre più simile a una specie di mal cammuffato nichilismo? Non si può vivere senza credere a niente, ma si vive anche malissimo se si crede nelle cose sbagliate, quelle senza un'anima.

Qiang era uno che pregava molto, aveva scelto quel posto per via della quattro chiesette, dove entrava spesso per le orazioni, quando ci passava o ci andava di proposito, la sua religione era composta, mezza cattolica, un po' buddista e anche Manitù gli garbava assai. La mitologia greca gli piaceva anche perché non considerava le divinità come esseri perfetti, ma piuttosto cialtroni e pieni di difetti, come gli esseri umani. In definitiva per lui la religione era la natura.

 

Dopo due mesi di fatica per gli occhi e per la mente, non senza una poderosa soddisfazione per il risultato, sono stato chiamato a presentare il mio sofferto parto al club. Non si poteva fare il gioco di indovinare l'autore, perché quella era una specie di cerimonia simbolica e ufficiale, ma ho ottenuto di scegliere il lettore per il mio racconto, perché così avrei guadagnato una buona fascia di gradimento in più, visto che quando leggo penso troppo e il risultato è che leggo male. Ho scelto Iuri, che sapeva il fatto suo, anche perché recitava in una piccola compagnia di teatro e faceva il disc-jockey a Radio Vado e Tornio.

 

 

8)LA MANUTENZIONE DI UN ESSERE UMANO      

 

                                                                 Felice Lazzari

 

 

Dicesi delinquente di uno che delinque abitualmente, i motivi possono essere vari, oppure anche troppi, però uno che è stato in galera non necessariamente è un delinquente. È vero che la polizia non gli ispirava fiducia al Noci, anzi al contrario, se ne vedeva passare una macchina lo attraversava un brivido sulla faccia barbuta, anche se quello che gli era successo era stato in Belgio, ora in Italia, nel paese in cui era nato, si sentiva allo stesso modo.

La società moderna non è che non si meriti i cosiddetti atti fuorilegge da parte del cittadino, visto che spesso lui lo è suo malgrado e che le regole da trasgredire sono tante e una buona parte valgono solo per chi non sa aggirarle sistematicamente. Personalmente non sono di quel tipo di persone che danno tutto per scontato. Insomma può darsi che Attilio Noci prima non avesse capito qualcosa di sé o del mondo circostante, o anche che abbia semplicemente avuto sfortuna, magari in un'unica occasione che gli è costata cara. Tra sé e sé ammetteva che non era stato molto intelligente, che magari aveva anche avuto sfortuna, ma quella stessa sfortuna gli aveva portato fortuna, in un certo senso, perché poi, uscito di prigione, apprezzava di più la vita anche se resa difficile dagli stessi uomini, con la sua pur scarsa libertà, la natura anche se sempre più contaminata, un cielo azzurro oppure addirittura nuvoloso e una giornata di lavoro perfino duro, ma spensierato.

Lo avevo conosciuto al Bar della Zappa, dove io ero il solitario barista e lui ogni giorno prendeva un caffè al vetro, leggeva il giornale salutava e se ne andava. Senza mai parlare con nessuno, pur sorridendo se necessario e mantenendosi gentile con tutti, ma esprimendosi a monosillabi pronunciati a malapena, difficilmente riconoscibili da gemiti e grugniti appena accennati. Un giorno, forse per caso, mi guardò negli occhi e mi ci persi. Avevo capito due cose in un colpo solo: la prima che lui avrebbe avuto bisogno di un amico; la seconda che anche io ne avrei avuto una certa urgenza, essendone da sempre sprovvisto. Intorno a noi non c'era nessuno e fuori pioveva forte, lui rimase ancora un po', quando se ne andò sentii che quel silenzio era diventato differente, ma non avrei saputo spiegare come.

Da quel giorno, una frase alla volta, che poi faticarono per arrivare a due o tre in fila, rispettivamente, noi diventammo amici davvero, ma questo non significa che parlassimo molto anche dopo, o che mi volesse raccontare la sua storia passata, o io alla lui la mia, ma anche i lunghi silenzi con lui non pesavano, perché non c'era ansia, né da parte sua né dalla mia.

Il Noci era un indipendente completo, si potrebbe dire a 360 gradi, ma doveva darsi da fare per mantenersi con i soldi. Era idraulico, falegname, imbianchino, muratore, rilegava libri e faceva tanti altri piccoli lavoretti, come svuotare cantine e soffitte, cercava e vendeva funghi, pescava e smerciava i pesci, tagliava legna nei boschi per chi la voleva per il caminetto. Non aveva studiato, solo in prigione si era fatto una cultura e parlava qualcosa di simile all'inglese gommoso masticato dagli eschimesi insieme alla carne di foca. Leggeva molto, guardava poco o nulla la televisione, però gli garbavano i documentari sulla natura, sugli animali, su certi posti esotici del mondo, ma senza turisti in giro e anch'io condividevo questa sua insignificante eppure indicativa preferenza. Avevamo una passione comune anche per la letteratura bizzarra e di nicchia, scoprimmo che entrambi amavamo alcuni autori che pochi conoscevano come Matteuccio Scodinzola, toscano di Batignano, che scriveva frasi cortissime e quasi mai usava aggettivi, odiava gli avverbi e parlava di cose molto diverse tra di loro, ma in genere erano accozzaglie composte di racconti spezzati, apparentemente slegati tra di loro, però alla fine si capiva il nesso che invece li collegava e c'era una morale, un messaggio o anche due, raramente tre, quasi mai quattro. Il suo era stato un successo forse anche più che di nicchia, la sua estrema semplicità pochi potevano capirla e meno ancora apprezzarla, ma noi ci si faceva delle belle risate e ci stimolava anche a riflettere sulla bellezza della vita in campagna, su quanto poco ci basterebbe se non ci creassimo dei bisogni falsi e troppo voraci di soldi.

Non stavamo male, noi tre, ma ci mancava qualcosa, forse qualche dinamica, qualche sogno, un qualcosa insomma che non sapevamo nemmeno se, dove e quando esistesse, se fosse mai esistito. Se ci mancava qualcosa avevamo anche qualcosa di troppo, nel senso che a disturbarci, magari, c'era tutto quel mulinare intorno di gente, automobili, biciclette da corsa e non, moto, aerei, elicotteri e brutte notizie come un bombardamento quotidiano dal quale pur non sentendone bisogno, come altra gente invece ne sentiva, noi ce lo dovevamo sorbire in silenzio, che tanto protestare non serviva a niente. La gente del Quercione non era cattiva, ma forse un po' troppo stupida e chiusa, non che noi fossimo intelligenti e aperti, magari lo eravamo solo in un'altra maniera e poi non c'era bisogno anche di esagerare nelle quantità.

Una volta rotto il ghiaccio degli inizi di una promettente amicizia, il Noci alternava i silenzi lunghi ai monologhi lunghissimi, agli agganci filosofici spesso per me incomprensibili, alle citazioni sparse e alle sue barzellette che a me non facevano assolutamente ridere. Non che Attilio non fosse buffo, ma lo era specialmente quando voleva essere serio. Se solo sorridevo delle sue inevitabili manifestazioni, che per me erano divertenti ma per lui spesso anche drammatiche, ecco che si arrabbiava e io allora ridevo anche di più e lui si arrabbiava di più e così via. Viveva in una casettina vecchia e minuscola, all'esterno assai scrostata, con un bel pezzo di terra intorno non recintato, la strada non ci arrivava nemmeno, c'erano da fare trecento metri a piedi, ma se l'era comprata e pagata tutta. Le tre stanzette + bagno e cucinotto erano accoglienti, piene di libri e di piccoli quadri, che grandi non ce ne stavano.

Dopo due anni nei quali la nostra strana amicizia era rimasta magari un po' statica, ma certo sempre piacevole, che il Bar della Zappa era passato in mano ai cinesi, come tanti altri in Italia, un evento esterno ci pose di fronte ai fatti: dovevamo assolutamente prendere delle decisioni e noi non eravamo certo dei tipi che ne prendevano spesso e nemmeno volentieri.

Da disoccupato ero passato a lavorare per Attilio, il quale mi passava metà dei lavori che facevamo insieme e il 100% di quelli che facevo da solo. Tra le altre cose eravamo anche cacciatori, nel significato più largo, cioè di quelli che sparano poco o niente. Insomma si girava per la campagna la domenica mattina con il fucile in mano a raccogliere funghi e frutti di bosco e se a mezzogiorno non avevamo neanche sparato un colpo, ce ne andavamo per niente delusi a pranzo a casa mia, visto che mia moglie cucinava in maniera discreta e in compagnia del Noci non soffriva in maniera esagerata, come altre donne da lui conosciute, che da prima del suo arresto, non aveva più avuto una fidanzata né purtroppo neppure neanche un mezzo succedaneo femminile o maschile che fosse.

Quella mattina di fine inverno, dietro alla Certosa da un cespuglio saltò fuori una mano, nel senso che spuntava da lì, c'era sicuramente anche prima, solo che noi non l'avevamo notata. Era ferma da tempo, era quasi putrefatta, i cani l'avevano trovata, con tutto il fetore che ne veniva fuori e con il loro istinto di supporto ai pessimi cacciatori che eravamo, ci avevano condotto lì davanti, di fronte ai fatti ed eventuali dannati contro-fatti.

Trattavasi probabilmente di cadavere maschio e quasi sciolto dal tempo e anche dallo spazio, insomma dalla pioggia e dal sole, infine dall'aria stessa, si sa e quindi dai fattori atmosferici, come succede in questi casi. Cani e cinghiali avevano fatto il resto, senza ordine, con scarsa lungimiranza, come accade in certi frangenti, almeno dal nostro punto di vista umano.

Erano le undici e tre quarti, la prima idea idiota che mi venne fu di avvisare la polizia, cosa che al Noci ovviamente non piacque. Non litigammo, giacché nessuno dei due ne era capace, io non ci riesco neanche con mia moglie e a volte ne sento un po' la mancanza. Insomma era pure tardi e avevamo piuttosto fame. Alla fine lo lasciammo lì, senza toccarlo nemmeno che ci faceva anche un po' schifo, pover'uomo o quello che era stato.

A pranzo fummo più taciturni del solito e Maria Gemma se ne accorse, ma non disse niente, forse per non infrangere quel silenzio imbarazzante rotto solo dai rumori di gengive all'opera, più i normali e non sempre leggeri risucchi idraulici. Ma il giorno dopo quello era ancora lì, più squagliato che mai, e poi anche il giorno seguente, nessuno faceva niente e noi neppure. Al quarto sopralluogo decidemmo di sotterrarlo sommariamente e mentre lo spostavamo verso la faticosa buca nel terreno argilloso ne cadde una mappa, forse da una tasca, se mai ce ne fosse stata una là in mezzo a quello sfacelo, il quale rotolino sporco assai fissato con un nastro scolorito subito ci incuriosì. C'era anche un portafogli e gonfio, non solo di muffe varie, qualche ago di pino e un po' di ghiaietta fina. Ci pigliammo anche il suo contenuto e ce lo dividemmo. Tanto per non abbandonare all'incerto destino quei milleottocento euro in biglietti da cento, che anche se puzzavano non ci facevano certo ribrezzo, a nessuno dei due. Lo adagiammo nella buca, ricoprimmo tutto e ci spargemmo sopra aghi di pino, foglie e così via.

La mappa era un pezzettaccio di pelle consunto e scolorito, non ci si capiva niente, perciò doveva essere autentica. Solo una cosa era chiara, se di un tesoro si fosse davvero trattato era dentro la Certosa del Quercione, a pochi metri dal fatto e contro-fatto il quale ora era rappresentato anche dalla causa della morte, se d'infarto o assassinio si trattasse e di esumare il cadavere ci venne anche in mente, ma alla fine era un lavoro schifoso, con risultati incerti se non improbabili e poi chi se ne fregava.

Il Noci disse che aveva sentito parlare di un tesoro nascosto dai nazisti in tempo di guerra, un bottino di razzie, tra gioielli e opere d'arte. Al che io dissi che erano solo epiche stupidate e lui concordò, mi parve però senza eccessiva convinzione e magari anch'io ero apparso allo stesso indeciso modo a lui. Nei film si vede come vanno a finire quelle storie lì, la gente s'illude, poi qualche maledizione di Montezuma, o qualche altra divinità sufficientemente incazzata li fa morire schiantati, oppure li arrestano e così sia. Eppure quel mucchio virtuale di potenziali soldi ci faceva gola, perché nella vita reale si sa che gli stipendi sono sempre più striminziti e si deve lavorare giorno e notte per sopravvivere appena dignitosamente.

Il Noci oltre che un mezzo filosofo di vita era un fine osservatore intero e un tre quarti di curioso, perché non amava il pettegolezzo ed era piuttosto riservato di carattere. Insomma in internet aveva trovato che da un sito francese, visto che la Francia era la patria fondatrice dell'ordine, si sapeva il numero dei frati della Certosa  al momento erano undici. Altre notizie ci aveva portato a leggere e foto stampate perfino dei loro liquori commercializzati e variopinti, a base d'erbe e ricette millenarie.

 

LA CERTOSA DEL QUERCIONE

La Certosa del Quercione, dedicata allo Spirito Santo, sorge ai piedi delle colline della Lucchesia. La sua costruzione iniziò nel 1340 per volontà di un ricco mercante lucchese, Gardo di Bartolomeo Aldebrandi. Degli edifici originari della Certosa rimane il piccolo chiostro risalente al XIV secolo. Tutti gli altri edifici monastici furono rinnovati pressoché totalmente nel XVI-XVII secolo: il chiostro fu ricostruito nel 1509 e la chiesa fu ornata di affreschi nel 1693. Nessun evento di rilievo deve aver turbato l’esistenza della Certosa del Quercione sino al tempo della caduta della repubblica di Lucca sotto il dominio napoleonico. Nel 1806, sotto il principato di Felice Baciocchi ed Elisa Bonaparte, tutti gli Ordini religiosi dello stato lucchese furono soppressi e ai certosini del Quercione fu ordinato di abbandonare il monastero. Dapprima si rifugiarono presso i Fabiolani del vicino convento di san Cerbone, che tuttavia venne anch’esso presto soppresso e i certosini si dispersero, mentre il loro monastero, entrato nel demanio statale, fu alienato a privati. Singolarmente, fu un’altra persecuzione a ridare vita alla Certosa. Questa era rimasta pressoché intatta nelle sue strutture e in buona parte dei suoi arredi e si trovava in vendita, quando nel 1903 i certosini della Grande Certosa dovettero abbandonare la casa madre dell’Ordine in seguito alla nuova soppressione degli Ordini religiosi in Francia. Il Reverendo Padre dom Michel Baglin, dopo aver predisposto un sopralluogo per constatarne le condizioni, decise di acquistarla per trasferirvi la comunità in esilio della Grande Certosa. L’atto di acquisto fu effettuato il 10 novembre 1903 e subito furono iniziati i lavori per il riadattamento e l’ampliamento dei locali monastici. Questi lavori consistettero principalmente: nella costruzione di nuovi edifici presso l’ingresso del monastero per accogliere i partecipanti ai Capitoli generali; nell’ampliamento della chiesa mediante un allungamento di tre campate dalla parte della facciata; nella costruzione di un secondo chiostro attiguo a quello originario, in modo da rendere il numero delle celle più che raddoppiato.

La comunità della Grande Certosa si stabilì nella Certosa del Quercione il 24 settembre 1904. Vi rimase fino al giugno 1940, quando fu possibile ricuperare il monastero della Grande Certosa. Da allora il Quercione è una Certosa autonoma dell’Ordine. Durante l’ultima guerra, la Certosa del Quercione fu vittima di una durissima prova. Avendo generosamente dato rifugio ad ebrei e perseguitati politici – senza distinzione di partiti, di nazionalità, di religione – nella notte fra il 1° e il 2 settembre 1944 i soldati tedeschi invasero il monastero, da dove il giorno seguente evacuarono tutti i religiosi e i civili che non erano riusciti a fuggire o a nascondersi, trasferendoli con vari autocarri a Nocchi, nei pressi di Camaiore, dove furono rinchiusi per più giorni nei locali del frantoio. La maggior parte di essi furono fucilati, in luoghi e giorni differenti, ma specialmente nei dintorni di Massa, la domenica 10 settembre; altri furono avviati, a gruppi separati, alla deportazione. Dodici furono i certosini fucilati, tra i quali il priore dom Martino Binz, il procuratore dom Gabriele Maria Costa e dom Bernardo M. Montes de Oca, già vescovo di Valencia (Venezuela) e novizio al Quercione dal 1943. Il sacrificio delle loro vite, offerte per fedeltà al Vangelo e alla carità di Cristo, rimane come segno e seme di pace, e il 5 settembre 2001 fu solennemente commemorato con il conferimento della medaglia d’oro al valor civile concessa dal Capo dello Stato. Passati quei tragici eventi, dopo varie peripezie i certosini poterono rientrare nei mesi successivi al Quercione, dove si riprese la regolare vita monastica.  Pur avendo una lunga storia, la Certosa del Quercione non si presenta particolarmente ricca di opere d’arte, diversamente dalle vicine Certose monumentali di Pisa (Calci) e di Firenze (Galluzzo). Probabilmente è stata questa sua relativa povertà artistica che le ha consentito di rimanere in disparte dalle visite turistiche e così conservare tra le sue mura la solitudine e il silenzio che costituiscono l’autentica ricchezza di una Certosa, ed è in questa solitudine e in questo nascondimento che i certosini pregano e si offrono a Dio per il mondo intero.

 

Il Noci diceva che non ci credeva al tesoro, però eravamo tutti e due curiosi, una delle non poche cose che avevamo in comune, oltre al fatto che si discorreva poco o niente e che non ci si arrabbiava mai. Come spesso succede quello che si dice qua è un po' diverso da queste notizie trovate in internet sui vari siti che si copiavano un po' a vicenda.

Se ne passarono le settimane, comunque, non so più quante, prima che sulla collinetta che sovrastava il recinto della Certosa, inaspettatamente lui tirasse fuori un binocolo e iniziò a guardare là sotto. Quando mi avvicinai incuriosito disse:

“Guarda qui, dalla mappa ho capito che il tesoro è nascosto in quella torretta.”

“Ma non c'ha nemmeno una finestra...”

“Infatti.”

Si decise comunque di andare a parlare con il vecchio del Mulin di Mezzo, forse la persona più anziana del Quercione e che si era anche nascosto nella Certosa, quando i tedeschi lo cercavano, lui e un'altra ventina. Pare che li ammazzarono tutti dopo e che lui prima potesse parlare, che lo avevano torturato, probabilmente aveva tradito gli altri, ma c'erano in giro voci discordanti, come accade sempre in questi casi.

Il Cardosi viveva da solo in una casina stretta e lunga, arredata un po' rozzamente, parte del vecchio mulino. Lui stesso non pareva molto raffinato, di sicuro era sordomuto, però aveva degli occhi arzilli, quando vide la mappa mugolò forte e si chiuse in un silenzio che personalmente trovai anche preferibile da un certo punto di vista, cioè di ascolto, quello delle mie orecchie, ma non dava altri segni di vita che indicarci la porta con gli occhi e con la mano. Di fronte a un biglietto da cento ricominciò a mugolare più piano, ma cogli occhi chiusi, poi quando i biglietti diventarono due aprì gli occhi e mugolò più forte, a tre smise di gemere e ci scrisse su un foglio di carta gialla “Io nun so nula, ma dicano che è soterato nella torreta ceca.” Per quanto non fosse per niente chiaro, come si facesse a sotterrare un cosa  in una torretta, probabilmente non di origine boema, piuttosto sprovvista di occhi o meglio di finestre, chissà se aveva almeno la bocca, cioè una porta. Il Cardosi non volle più dire niente, nemmeno di fronte a quattro bigliettoni, ma i soldi se li pigliò tutti e si trasformò di nuovo in una brutta statua a grandezza naturale alla scarsa luce bianca che filtrava dai vetri sporchi di un'unica lontana finestra. Di buono c'era che non poteva parlare e farci scoprire, che noi due in quella storia c'eravamo già dentro fino al collo ed eravamo anche sotto di quattrocento euri, come li chiamava il Noci, pur se guadagnati disonestamente, in un certo qual modo, erano sempre duecento a testa e nessuno dei due veleggiava nella ricchezza o ci aveva mai navigato.

A quel punto ogni minuto che passava ci faceva crescere l'ansia di sapere. Era venale avidità oppure solo curiosità? Forse un confuso misto delle due cose. Mia moglie ci guardava come se avesse capito tutto, ma come avrebbe potuto? Quella donna a volte mi pareva una strega con poteri soprannaturali, niente a che fare con l'aspetto fisico. Forse eravamo noi che non sapevamo mentire né dissimulare, ma lei aveva uno speciale talento per leggere il futuro, il presente e il passato, ma di quello non gliene fregava niente. Noi due invece eravamo più romantici, ma non è mai stata una virtù troppo apprezzata. Alla fine glielo dissi, prima che si arrabbiasse con me per averglielo nascosto, non si sorprese per niente, anzi ci consigliò ammodino, come mi aspettavo. Insomma: mia moglie non l'ho sposata per caso, anche se io sono laureato e lei ha la terza media, quando c'è qualcosa di complicato ascolto quello che dice Maria Gemmina e invariabilmente lo applico alla lettera. Mi sono sempre trovato bene, anche perché so che la base di ogni buon rapporto è la stima reciproca, infatti appena confessato il misfatto in corso lei disse:

“Proprio due biscarotti siete, ma che fretta avete? Se c'è un tesoro là dentro e ha aspettato tutti questi anni, non sarà un giorno in più o uno in meno a farvelo scappare. Il Cardosi anche se è sordomuto sa farsi intendere e vi ha già fregato dei soldi, senza dirvi niente che non sapevate già.”

Tacitamente il Noci si dimostrò piuttosto in disaccordo con lei, lo arguii dalla faccia scura e dagli occhi fissi sulla televisione spenta, in silenzio continuava a masticare il pollo arrosto, il caso volle che fosse anche un po' più legnosetto del solito. L'avevo capito che associava l'idea della polizia a quella della donna, secondo lui tutt'e due controllavano e frenavano principalmente gli impulsi dei poveri maschi intorno, a partire da sua madre fino ad arrivare alla sua unica innamorata. Aveva avuto poco a che fare con tutte e due, sia con le donne che con la polizia, ne aveva ricavato però esperienze assai negative e compatte.

Mia moglie Maria Gemma dal canto suo, non è mai stata di eccessive parole, ma è sempre stato più facile ricevere da lei un vaffanculo piuttosto che un elogio, che quelli magari qualche volta li avrà anche pensati, non dico di no, ma se li è tenuti per sé, se mai ne abbia pronunciato uno io non ero presente.

Passammo all'azione senza dire niente, una mattina ventosa da una camminata nel bosco scavalcai il muro, dalla parte dove appoggiato provvidenzialmente agli alberi quasi cadeva e senza dire una parola il Noci mi seguì, di là non si vedeva un anima in giro. I primi duecento metri, forse più, erano allo scoperto, poi evitando la ghiaia dei vialetti, cercando di camminare sui bordi erbosi delle stradine, entrammo tra un edificio e l'altro, e ci avvicinammo alla torretta che come avevamo temuto non aveva nemmeno una porta, ma era attaccata a un muro dello stesso materiale pietroso di un palazzetto da cui arguimmo che bisognava passare.

Come?

Non lo sapevamo.

Dopo alcune settimane il nostro rapporto, il mio con il Noci, si fece più stretto, ci vedevamo tutti i giorni al lavoro, la sera se non ci trovavamo per caso, anche se di vero caso non si trattava quasi mai, io andavo da lui o lui veniva da me.

Era inverno e a casa sua c'era il caminetto sempre acceso la sera, pure a casa mia cominciammo anche a noi a seguire questa pratica che chissà perché avevamo perso con gli anni. I cani e i gatti sonnacchiosi su qualche sedia o poltrona, luci spente e il fuoco che scoppiettava, le scarse parole risuonavano nella semioscurità attorno, a casa sua ci sentivamo più loquaci, a casa mia chi parlava era più spesso mia moglie o la televisione.

Da noi il rintocco delle ore intere e anche mezze dal campanile della Certosa è una roba romantica che personalmente apprezzo perché risuona di passato e la modernità l'apprezziamo poco, sia io che il Noci. A Gemma piacerebbe anche ma non se la può permettere.

Il prossimo passo fu lui a darlo, entrò da solo di notte nella Certosa e fece una mappa approssimativa dell'interno degli edifici aperti, poi insieme ci tornammo e entrammo in quella che doveva essere la torre cieca. Era piena di cianfrusaglie, sedie rotte accatastate e panche, ma da lì sotto, non senza difficoltà scalzammo un pezzo di pavimento di pietre piatte e cemento e subito sotto c'era la terra. Scoprimmo in seguito che in quel palazzetto stesso i frati non mettevano piede, era come un deposito, lasciato aperto perché non c'era niente di valore e soprattutto i monaci non rubano perché la vita lì dentro non ha bisogno di denaro o di valori materiali.

Lo Scodinzola intanto, nel suo opuscolo bucolico, “Maremma Campagnola”, c'invitava alla calma riflessione invernale abbinata alle castagne e al vino nuovo, cose che a noi piacevano anche, ma quest'ultime ci provocavano talvolta delle diarree moleste, se mai ne fossero esistite di piacevoli. La riflessione, di per sé, secondo mia moglie Maria Gemma, era roba da polli, lei decideva tutto di schianto e non si sbagliava mai. Noi glielo facemmo notare che non avevamo mai visto un pollo riflettere, ma a lei non gliene fregava niente e tirava a dritto.

Di nuovo una pausa piena di rintocchi di campanile, di giorni che rapidamente, secondo i nostri punti di vista altalenanti, diventavano settimane e poi mesi... intanto c'incontravamo e ci mettevamo a fare del silenzio una conversazione, dell'osservazione - ai tanti fenomeni a disposizione - uno stile di vita.

Il Quercione, come dice il nome stesso, è conosciuto per le sue fitte pinete che montando sulle colline diventano piene di castagni. Ci sono anche le querce, ma poche, qualcuna anche grande, ma più che altro dei lecci che si perdono un po' in mezzo agli altri alberi. Il paese è composto di case, come di solito accade, alcune vecchie, più numerose quelle nuove, in mezzo una strada troppo larga e dritta che usano come se fosse Indianapolis, affinché a nessuno venga in mente di uscirsene all'improvviso senza rischiare la vita. Cani, gatti, conigli, anatre e galline non si possono più lasciare liberi da un bel po'.

Tutti hanno il garage ma nessuno lo usa, preferiscono lasciare tutta una fila di macchine sulla strada, affinché diventi stretta, ma questo non gl'impedisce poi di passarci a tutta velocità. Ho notato che poi nessuno fa manovra, vanno fino alla pizzeria e girano nella piazzetta, ma ci sono almeno duecento metri.0

Siamo assai affezionati ai nostri cani, noi ne abbiamo tre, il Noci cinque, ma in certe epoche è arrivato a sette, perché adotta automaticamente i randagi che passano di qua, ma poi gliene mettono sempre qualcuno sotto le ruote, lui è l'unico che li lascia liberi di andare e venire. Non sempre ritornano. Non ho ancora capito se è più sprovveduto lui che li fa andare in giro, o il mondo moderno che non garantisce più a nessuno anche una parziale incolumità sulle strade. Intanto la scarsa libertà che abbiamo diventa sempre più esigua.

Nel suo terreno tante piccole croci intagliate a mano fanno a nascondino trai cespugli. Gli piacciono i nomi russi, o comunque dell'est europeo, quindi si leggono i vari Anatoli, Igor, Ivan, Galina (che a mio parere sarebbe più appropriato per il pollame), Dimitri, Laszlo, Irina scolpiti sui legni lisciati perbenino e a volte anche dipinti.

Le nostre ricerche in Certosa ristagnarono per un mese o più, finché tornammo a scavare nella torre cieca, dopo aver spostato faticosamente  tutto l'ammasso di roba vecchia e le pietre sconnesse, cercando di fare meno rumore possibile, lavorando esclusivamente durante le ore di preghiera dei frati.

Nei momenti meno adatti il Noci si metteva a raccontare barzellette secondo me piuttosto tristi, che secondo lui avevano qualcosa a che fare con la situazione, secondo me no. Alla fine non rideva neanche lui. Mi sono sempre chiesto perché lo facesse, non mi sono ancora risposto, forse perché aveva paura e voleva sdrammatizzare, ma mi pareva che invece drammatizzasse ulteriormente.

Per un'altezza di due metri togliemmo tutta la terra sotto, insomma, senza trovare che un cofanetto metallico, lavorato tutto a borchie, che conteneva un pezzo di legno ammuffito con sopra inciso rozzamente un numero romano:  XXXVII, per gli amici 37. Ricorremmo a mia moglie, che purtroppo o per fortuna andava sempre alla messa, la quale non ci nascose che secondo lei sembravamo di nuovo dei coglioncelli fuori strada. Scartato il vangelo, i cui riferimenti erano magari somiglianti come pure leggermente differenti, per noi quasi cattolici solo attraverso amici e conoscenti, scoprimmo sulla base di ripetuti, faticosi e forse anche rischiosi sopralluoghi, che i quadri nelle varie cappelle erano numerati con i numeri romani, come diceva mia moglie.

Nella chiesetta con entrata esterna alla Certosa, il Maggetto significava piccole celebrazioni quotidiane, con il parroco del Quercione, alle 17 di ogni giorno feriale, per tutto il mese il maggio. C'entrammo dall'interno che non era chiuso a chiave e dietro al quadro 37, detto anche XXXVII, trovammo uno schizzo che ritraeva rozzamente una piccola cappella che avevamo visto, passandoci accanto. A volte ci nascondevamo un attimo lì per vedere se era apparso qualcuno in giro, sulle rive del laghetto, vicino al boschetto, sempre dentro il recinto della Certosa. Nel disegno la cappella in questione era però vista attraverso tre aperture, una porta e due finestre, la seconda delle quali ad arco.

Cosa strana era che dopo vari sopralluoghi e mesi di appostamenti non avevamo visto ancora un singolo certosino o frate laico che fosse, nemmeno uno: solo rumori, lontani, intermedi e vicini. Poi echi di voci di preghiere notturne e diurne dentro la chiesa interna. Sapevamo che erano rimasti in pochi, ma dov'erano? Ogni tanto andavano a passeggiare fuori dalla Certosa e allora li vedevamo, la maggior parte sembravano stranieri. Con un drone degli svizzeri avevano fatto foto e dei filmati dall'alto della Certosa che avevano messo su Youtube e poi su Facebook, ma i frati glieli avevano fatti togliere.

Pensavamo ancora a quel cadavere, nascosto da noi e non ancora ritrovato dalla polizia, ma certo qualcun altro lo doveva aver visto. Che cosa gli era successo? Non lo avevano per caso ammazzato? Ogni tanto qualche frase isolata rivelava la nostra ansia di sapere, ma di cui avevamo anche paura di essere accusati, oppure, magari, di fare la stessa fine. Il mistero era via-via più fitto, giacché denso di niente, aperto a ogni congettura o peggio ancora a fantasie galoppanti.

Matteuccio Scodinzola, scrittore e suo malgrado filosofo, oltre che ruspante maremmano, diceva in tutte le salse che bisognava avere un oggi solatio per ogni ieri o domani troppo ombroso e umido. Suggeriva che bisognava immagazzinare le cose positive per ogni urgenza negativa, per farlo ogni porzione di vita doveva avere soluzioni immediate, sennò si pietrifica una routine poco efficace, niente di più facile che trasformarsi in  persone automatiche e insensibili.

La vita è disciplina, privazione e rinuncia, diceva Attilio dalla sua, ma se scegliamo chi e cosa togliere, da questa confusione di oggetti, situazioni, animali e anche troppe persone, quello che rimane è bello, anche se non è puro, non è di quello che abbiamo bisogno. La purezza e la perfezione sono solo modelli teorici che sono accompagnati troppo spesso dal dolore, perché molto raramente corrispondono alle nostre aspettative, ma chi cazzo ce le ha ficcate in testa poi?

Messi insieme, io e il Noci un ragionamento filosofico lo sapevamo anche articolare, ma mai niente di pratico, rigorosamente. Maria Gemma invece era il contrario, nessun intellettualismo arido e fine a se stesso, ma tutto immediato e con i piedi bene per terra.

Le donne, si sa, fin dagli albori dell'agricoltura svilupparono la loro istintiva visione d'assieme, mentre l'uomo andava a caccia, loro pensavano all'allevamento e a piantare qualcosetta di vegetale, perché lui spesso tornava a mani vuote e con la coda tra le gambe. Stavano attorno alla capanna e badavano ai bambini, alle bestie, all'orticello. La fame diventò sempre meno minacciosa, grazie a loro. Non è per caso che tutt'oggi alla donna spetta un compito a lungo termine, di calcolo generale della situazione, di regolare e continuo controllo sull'uomo, che non vede l'ora di spendere e spargere, di ubriacarsi e di fare baldoria, pur lasciando perdere le puttane che non è vero che sono il mestiere più antico del mondo, magari solo il quarto o quinto.

Insomma anche la sua stessa vista, di Maria Gemma, mette a fuoco tutta la situazione, mentre io, il cacciatore, mi vedo solo un punto davanti e tutto attorno si sfoca. L'uomo si concentra sulla preda, ha un solo obbiettivo, per questo fallisce sistematicamente. Noi maschi separiamo senza volerlo la pratica dalla teoria, lì accanto invece la donna ha sempre la pratica davanti agli occhi, ci guarda teneramente e scuote la testa perplessa, quando noi biscarotti ci perdiamo nella teoria.

Gemma non è simpatica, tutto al contrario, non gliene frega proprio niente di accattivarsi l'altrui gradimento, ma se e quando ne avverte la necessità, ti prende a randellate e ti rimette sulla via del cammino, ti allinea alla realtà e riporta la tua esistenza a qualcosa che assomigli a una roba non dico quasi razionale, ma che ci si avvicini più possibile. Mentre lei è calcolatrice al centesimo io e il Noci siamo approssimativi a oltranza e legati per il collo al caso e a tutte le sue possibili ramificazioni a patto che siano più o meno irrazionali e talvolta anche oniriche. Visto che la preda ripetutamente ci sfugge, come il tesoro dei frati o magari quello dei tedeschi, mentre mia moglie applica la matematica alla sua e anche alla nostra giornata campagnola, noi discutiamo se c'è arte o no nei quadri di Rothko e ragioniamo sul controverso sesso degli angeli, intanto passano i giorni, i mesi e gli anni.

Tornando al Quercione e in particolare nella Certosa, dietro al quadro c'era scritto anche qualcosa in tedesco, ma al contrario, attraverso Gemma e Google Traduttore arrivammo alla conclusione che significava “10 metri davanti”, ma a che cosa non lo diceva. Quindi di notte, di fronte alla chiesetta, cominciammo ad aprire e a chiudere buche di approssimativa profondità di due metri, rimettendo poi a posto perfino le zolle con l'erba, senza trovare niente di niente. Dopo aver scavato tutto intorno alla chiesetta, per una superficie larga circa venticinque metri di diametro, venimmo a sapere che stavamo guardando il dito invece della luna.

Le operazioni erano durate un mese, alla fine stremati, pur senza volerlo avevamo chiesto di nuovo aiuto a Gemma. Scoprimmo allora, dopo aver subito alcune offese leggere e altre un po' più pesanti, (ma meno numerose,) che il disegno mostrava la chiesetta, attraverso una porta di un edificio che noi avevamo sempre visto chiusa e la finestra dall'altra parte. In  combinazione, dietro ancora una finestra ad arco di una casa diroccata e il posto giusto era oltre quella finestra, rimasta in piedi per caso, oltre la quale ora c'era il laghetto delle carpe, ma a quel tempo no.

Scavare nell'acqua non è facile, anche se è solo profonda un metro o poco più. Dopo vani tentativi e notti insonni mia moglie disse che era meglio asciugare il lago e magari mangiarsi anche le carpe, che vanno sapute cucinare, ma lei ne era capace, ed era lì anche per questo.

Ma come? Chiedemmo noi.

L'importante era drogarle bene, spiegò lei, per nascondere il sapore del fango, oppure metterle in purga, nell'acqua pulita... ma il Noci la interruppe rispettosamente alzando la mano per dirle che il nostro dubbio era riferito piuttosto a come svuotare il lago. Lei, dopo averlo apostrofato in malo modo, avermi incluso per la proprietà transitiva a quelle stesse categorie dai più indesiderate, spiegò che bisognava solo fare alla svelta. C'era un fosso che portava l'acqua e uno che usciva e continuava verso valle? Bastava chiudere il primo e aprire di più il secondo. Facile come bere un bicchier d'acqua, o al massimo due, non più di tre.

Mentre ci progettavamo sopra, per poter riuscire a fare tutto bene e scappare senza essere visti o sentiti, ecco che trovarono il cadavere sfatto e da noi sotterrato alla meglio. Determinarono che era stato ucciso, forse perché c'era ancora un pugnale lì attorno con residui di sangue attaccati. Non si sapeva chi l'avesse ritrovato, ma il Cardosi era diventato particolarmente ammiccante e mugolante quando lo incontravamo.

Perché noi non l'avevamo visto? Chi l'aveva pugnalato? E poi la mappa, perché c'era stato bisogno di una mappa? Bastava sapere che bisognava scavare nella torre cieca. O eravamo forse stati noi che l'avevamo interpretata male?

Mia moglie rispose per filo e per segno a tutte queste domande con aria di superiorità malcelata. Oppure sembrava pensierosa, non completamente certa di quello che ci diceva. Non so dire se le sue frasi fossero rassicuranti o no, ma noi non c'eravamo per niente tranquillizzati e per questo si decise di aspettare un po'.

Oltre che un rompicoglioni intero il Noci era un mezzo filosofo, e diceva che in natura la paura non esisteva, quella che sentivamo noi era solo una roba indotta e in verità era piuttosto la paura della paura, o anche la paura della paura della paura e così via ci costruivamo spesso dei copioni pronti, prima di cominciare ad agire, anzi a volte di conseguenza non si agiva proprio. Gli animali quella non ce l'avevano, anche se a volte vivendo a contatto con noi l'imparavano loro malgrado e dopo stavano peggio. I cani per esempio non avevano la concezione del tempo, non si pensavano mai addosso. Non avevano la nostra non sempre necessaria abitudine di cercare d'indovinare sempre cosa diavolo sarebbe avvenuto dopo.

Era il 15 di maggio, se tutto andava bene e non ci arrestavano - perché mai avrebbero dovuto? Chiese lei - saremmo entrati di nuovo in campo in agosto, approfittando dell'epoca più secca, anche per quel laghetto. Lei voleva sapere dove era la mappa, ma il Noci che l'aveva in consegna non la trovava più. Le parolacce non ci davano noia, a me al Noci, c'eravamo abituati, anche agli abbinamenti delle divinità cristiane con dispregiativi di vario tipo e nomi di animali. Anche se fosse una rappresentante del gentil sesso a bestemmiare, la nostra storia personale aveva forgiato il nostro carattere paziente, resistente e anche un po' stoico. A volte però la loro concentrazione e insistenza ci pareva eccessiva,  Gemma diceva che se non si sfogava subito dopo era peggio, la magagne poi ci piovevano addosso a noialtri due, come la grandine, e aveva ragione.

Chi non ha cervello abbia gambe diceva lei, io ridevo e esprimevo l'opinione che, visto che lui zoppicava assai, avrebbe forse dovuto trovare un altro organo più efficace da usare, il Noci ci mandava affanculo tutti e due e anche Maria Gemma rideva di gusto ed era una cosa da segnare sul calendario.

Che cosa è che ci fa alzare la mattina e che ci tiene un po' in sospeso costringendoci a fare i primi passi incerti invece di starcene al calduccio tra le coperte in un infinito oblio? Si e ci chiedeva talvolta Attilio. La necessaria sopravvivenza? L'orario di lavoro? La speranza di un giorno migliore?

Non lo sapeva esattamente, anzi nemmeno sommariamente.

La curiosità, forse, ma di quella buona, può essere per un sogno irrealizzabile o anche per qualcosa di estremamente pratico, ne formulava l'ipotesi. L'importante, magari, è che non lo sappiamo ancora bene come sia, ma sospettiamo o meglio vogliamo credere che sia qualcosa di bello, fantastichiamo quindi su qualcosa di potenzialmente solido, su emozioni a venire, sull'aria ancora da friggere?

Un Noci sbarbato, perciò irriconoscibile e propositivo fu quello che il primo agosto venne a svegliarmi e a prelevarmi dopo una sommaria colazione alle sette del mattino, per portarmi in Certosa, al lavoro per scavare quel canaletto che avrebbe dovuto asciugare il lago. Mia moglie era perplessa e scuoteva la testa, era un po' che non pioveva e questo non era necessariamente un bene.

Incontrammo undici frati a passeggio, alcuni di loro erano novizi quindi senza ancora la tonaca, e noi ci chiedemmo: ma questa non è l'ora della preghiera? Forse ci avevano informato male? Aveva ragione mia moglie che eravamo degli sprovveduti allo sbando?

La terra era - come spesso succede - troppo bassa per le nostre schiene curvate, in più secca, dura e pietrosa i nostri sogni di scavatori s'infransero ben presto sulle pale e i picconi storti, ma non ci perdemmo d'animo. Eravamo quasi ansiosi che ci scoprissero, inconsciamente, che apparisse finalmente un essere umano che non fossimo noi due, dentro a quel recinto, ma non successe.

Secco il fosso di entrata, aperto e sfondato quello di uscita, un tubo flessibile anche spillava un rivolo d'acqua nella vallata sottostante. Per fortuna o per sfortuna il laghetto non si vedeva dalle finestre della Certosa, né dalle celle dei frati, c'era una fila di alberi in mezzo. Non c'era bisogno di asciugarlo totalmente, bastava arrivare a quei dieci passi o metri che fossero e a sera c'eravamo riusciti. Avevamo rinunciato alle carpe che nell'acqua più bassa ancora nuotavano tranquille, ma l'acqua era del colore della terra argillosa. Per scavare noi non avevamo più forza.

Il giorno seguente iniziammo di buon'ora ad aprire buche su buche, partendo da quella centrale più larga e fonda; neanche a dirlo niente tesoro e le bestemmie che non sapevamo dire apertamente, dal dentro cominciavamo a pensarle.

Alla fine ci mettemmo a pescare le carpe e ne prendemmo un bel po' con una rete, prima di rimettere tutto com'era. Al ritorno a casa mia moglie non lesinò in titoli dispregiativi, non tutti rivolti a noi, ma anche ai frati, ai tedeschi e a chi cazzo fosse stato a seminare quegli indizi falsi, ma intanto quella sera mettemmo qualcosa di concreto sotto i denti.

Il sogno di un cambiamento di vita ci aveva contagiato però inguaribilmente e rovistammo dovunque per anni e anni, senza mai arrenderci all'evidenza: se un tesoro ci fosse stato era nascosto bene, magari anche fuori di lì; ma a noi non c'importava.

La manutenzione di un essere umano non sarebbe così complicata, se quello stesso essere umano e la società che si è costruito attorno non fossero diventati sempre più complessi e dal funzionamento progressivamente sempre più improbabile, visto che l'intenzione fondamentale di tanti se non di tutti non è l'integrazione e l'efficacia dell'ambiente in cui si vive, ma il vantaggio personale, a scapito di quello degli altri.

Io e il Noci avevamo meno bisogno di soldi e conforto, rispetto alla maggioranza delle persone, forse anche perché non guardavamo la televisione, non avevamo grossi contatti su Facebook, Twitter e altre social network, non avevamo proprio niente da dimostrare a nessuno. Piuttosto condividevamo tacitamente gli infimi ma spesso piacevoli agganci alla realtà, le centinaia di migliaia di dettagli che fanno di una giornata una roba insospettabilmente ricca, basta avere la calma di vederli, senza doversi nemmeno sforzare a cercare di guardarli troppo.

La sua fortuna magari era stata la prigione che lo aveva reso così pieno di valori minimi e incrollabili, facilmente ripetibili ma che non lo annoiavano mai. Invece io avevo imparato da chissà chi e da chissà cosa, forse dall'esagerata indifferenza attorno a me, avevo iniziato chissà quando a fare caso a tutto quello che mi circondava, a tagliare ogni capello in quattro e magari poi a guardarlo, all'occorrenza, anche con il metaforico microscopio. Non sapevo spiegare tutto, ma intanto annotavo le variazioni.

L'esistenza di una persona, ammettiamo pure di due, a volte anche di tre, è piena di piccoli particolari ai quali normalmente non si fa caso perché corriamo in una direzione unica e valorizziamo solo determinati oggetti e situazioni, gli altri li buttiamo semplicemente via come quei pescatori moderni con le grandi reti che pescano senza volerlo tanti pesci che per loro non hanno particolare valore, se ne fregano di tutto e li ributtano in mare morti. Questi oggetti e situazioni per noi è come se non esistessero, anzi come se ci disturbassero, ci distogliessero dai nostri propositi fondamentali. Il mare magari, come la vita, è troppo dispersivo e bisogna concentrarsi, ma è meglio non esagerare. Mia moglie si concentrava su cose diverse dalle mie, per esempio, così non ci confondevamo. C'eravamo messi insieme senza saperne il motivo, forse perché eravamo molto diversi e magari insieme potevamo formare una squadra alla quale non interessasse di essere la migliore, ma che avesse piuttosto la necessaria efficacia per arrivare alla fine dei mesi a disposizione. Sapevamo che erano tanti e tutti in fila minacciosi davanti a noi, ma per dimenticarsene bisognava avere un meccanismo ben oliato e funzionante su cui poter contare. Niente figli, su questo eravamo d'accordo, sapevamo a stento badare a noi stessi e il mondo non aveva pietà.

Non si seppe mai chi fosse quell'uomo morto, ma scoprirono qualche anno dopo, che là dentro di frati non ce ne era nemmeno uno, che non si sa a quale scopo inscenavano perfino le loro saltuarie passeggiate, i rintocchi della campane erano registrati, le preghiere notturne e diurne anche.

Intanto noi avevamo cominciato ad apprezzare ancora di più quel che avevamo ed era anche quello un tesoro, nel doloroso caos generale attorno, anche se mia moglie avrebbe preferito l'altro.

Non smettemmo mai di cercare e quella prospettiva anche un po' idiota, di risolvere la vita sognando di avere finalmente tanti soldi, funzionò a dovere.

Lo Scodinzola diceva che nella vita bisogna preoccuparsi poco del domani e pure dello ieri se abbiamo un sufficiente oggi, ma qui si trattava piuttosto di una prospettiva sfuggente, di un sogno anche realizzabile che poi però non si realizzava mai, guarda  combinazione, ma intanto ci permetteva d'ingannare noi stessi, insomma ci teneva in forma, allenati non si sapeva ancora per cosa. Il Noci diceva che lui non se ne intendeva ma che il paesaggio del Quercione era bellissimo e che io non ci facevo caso perché non ero mai andato via da lì. Negli ultimi anni, con meno campi coltivati e più alberi tagliati, il colpo d'occhio era anche più ampio e profondo. Dal punto di vista estetico, per il turista o per il semplice osservatore era migliorata.]

 

Per prima cosa hanno detto che era troppo lungo, poi però che non era affatto noioso e che era facile immedesimarcisi, in quella situazione, insomma: che sembrava di essere là. "Quelle spiegazioni finali erano piuttosto dispensabili." Ha detto Rino ed è seguito un brusio di approvazione. In particolare il personaggio di Maria Gemma è parso poco credibile, poiché contraddittorio nel suo comportamento, e le spiegazioni finali hanno generato una discussione accesa, come avevo sperato. Gli Stoici accusavano le ingiustificate giustificazioni e gli Epicurei le difendevano e le lodavano, dichiarando che quelle erano robe necessarie per meglio comprendere la situazione in questione, tutto ciò che il resto del testo piacevole e tutto in precedenza non aveva avuto occasione di commentaree chiarire. Allora mi sono accorto che a un certo punto, se le avessi tolte, avrei scontentato gli uni e accontentato gli altri, cioè non avrei potuto farlo, ma anche lasciandocele avrei ottenuto in pratica lo stesso risultato.

Secondo Qiang tutti i gialli, anche i più consacrati, hanno il loro punto debole, se non più di uno. Un aspetto in cui la macchina perfetta della storia inciampa e non è più credibile, se individuato, allora sta agli scrittori avveduti il nasconderlo, in qualsiasi maniera elegante e quindi il più possibile impercettibile. Uno dei giochini del Club era proprio cercare questo punto debole e discuterne per ore ed ore.

Il mio, secondo lui, ne aveva vari, di punti deboli, per questo gli garbava, ma anche perché, mentre Iuri leggeva, era riuscito a immaginare l'atmosfera rarefatta e allo stesso tempo claustrofobica della situazione, cioè aveva vissuto emozionalmente le sensazioni che io avevo provato a riprodurre. Però il mistero, secondo Iuri, visto che poi non viene svelato del tutto, anzi per niente, avrebbe potuto rimanere un po' meno stretto e un po' più largo, che minchia voleva dire però anche se ha provato a spiegarlo io non l’ho capito, forse qualcun altro sì.

Alla fine gli Stoici hanno accusato gli Epicurei di essere troppo Stoici e gli Epicurei invece gli Stoici di essere eccessivamente Epicurei. Non la facevano più finita, ma io non ero autorizzato a mandarli affanculo perché non ero ancora un socio. La mia ammissione, però, secondo Tommaso quasi scontata, è stata infatti approvata all'unanimità. Solo Qiang ha detto che come membro esterno gli garbavo di più, che da quel momento mi sarei certo impegnato meno e sarei perfino mancato a qualche riunione, qui ho pensato che si sbagliava, ma tutti hanno riso. Ha terminato il suo intervento dichiarando che il numero otto non gli piaceva, oltretutto, sette come numero di membri era assai più affascinante, magari si poteva organizzare qualche falso incidente di percorso e tutti hanno riso di nuovo.

Mi hanno chiesto di quale fazione volevo far parte, ora che ero membro effettivo, Epicurei o Stoici? Ho scosso la testa ed espresso il desiderio, se possibile, di fondare una nuova fazione, di cui Marcos anche avrebbe fatto parte: gli Indecisi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 9

 

A scuola non ho studiato mai molto, anzi quasi niente, ma ho letto assai, forse anche troppo, e oltre all’Italia ho conosciuto il Brasile e la Germania, dove ho abitato per alcuni anni. Ho avuto modo di notare che gli esseri umani, pur riconducibili a certi standard comuni di vario tipo, sono molto diversi tra di loro, si assomigliano, è vero, ma solo in parte e principalmente perché hanno un certo involontario ma forte istinto di imitazione.

Intanto miei racconti non vendono quasi niente in Italia, un po’ di più in Brasile e molto di più in Germania. Fare il traduttore per me non è facile. Non sono affatto famoso, scrivo molto più di quello che viene pubblicato e quando poi ci riesco c’è da guadagnare poco o niente. Insomma per farlo ci vuole una forza di volontà e una tempra non indifferenti. Nonostante questo, in Brasile ho trovato così tanti candidati che mi sono potuto permettere di selezionarli e testarli, tutti avvisati delle regole impietose del gioco. Il che mi ha portato, in un secondo momento, di trovare tra di loro anche un traduttore in tedesco, che in Germania non avevo trovato in nessuna maniera. Balthazar Zinn aveva scritto in portoghese varie opere teatrali e mi disse un giorno che quello che scrivevo era uno studio sul carattere delle persone, cosa che io stesso non avevo mai notato. I brasiliani possono possono avere tanti difetti, ma quanto a calore umano sono inimitabili, simpatici, persone di cuore e sono molto più romantici di quanto si creda, certo in maniera diversa dagli italiani e dagli europei.

Secondo me, uno dei migliori pezzi fu quello di Rino Piccioni, accettato nella duecentoquarantreesima riunione con le solite riserve dal gruppo, ma che racconta una realtà tipicamente toscana e che alla fine ha completato il progetto del primo volume dei Gialli Ma Non Troppo, che naturalmente sarà autoprodotto e autodistribuito. Il secondo passo del progetto è fondare una piccola casa editrice autogestita e controcorrente.

 

 

Capitolo 9

 

 

 

9)LA MOGLIE DEL CAMIONISTA

 

Maria Assunta Pelosini

Non solo in Inghilterra c'è una vera e propria ossessione per i pratini all'inglese, anche in Italia e più precisamente a S.Gustavo, specialmente in estate e primavera non si può mai stare in pace, magari a leggere un po' di buona letteratura, che attaccano con quel rumore infernale delle falciatrici a motore, che quelle elettriche ne fanno meno, ma pur sempre troppo.

A S.Gustavo c'è anche un microcosmo di paese toscano interessante, pur come tanti altri, ma se ci mettiamo a studiarlo ce ne sorprendiamo, gli uomini sono diversi dalle donne, d'accordo, però tra di loro, anche all'interno delle due categorie, si assomigliano solo apparentemente.

Per esempio ci sono tante donne, meno spesso uomini, che spiano i vicini e gli eventuali passanti da dietro le persiane o veneziane che siano, ma perlopiù lo fanno in un modo meschino.

La loro curiosità è solo una mania, non lo fanno in modo per niente scientifico, non hanno un briciolo d'entusiasmo e nemmeno di metodo, cercano solo di fuggire dai loro stessi problemi. Basta scoprire o semplicemente opinare che gli altri ne abbiano di più e peggiori dei nostri. Si tratta di una sistematica di ragionamenti a senso unico, che funzionano perfino meglio che nascondere la testa sotto terra come gli struzzi, per evitare ogni tipo di problema.

 

Adalberto Maria Lemucchi

La signora Pelosini è una specie d'antropologa ben camuffata con il grembiule da donna di casa. Mi è bastato poco per capire che la vita l'ha portata dove lei non avrebbe voluto, è vero che poi gli ci è anche piaciuto, un po' come a tanti di noi, ma forse in un modo speciale. Voglio dire che se la società fosse stata differente, quando lei era giovane, o se la sua famiglia non fosse stata quello che era, cioè una assai tradizionale, Maria Assunta avrebbe potuto essere una detective ben pagata e amante del suo lavoro. Io lo so perché la spio da tempo, e anche se sono un uomo, la mia è un'attitudine da moglie di camionista, come si dice in gergo, cioè tipica di quelle donne che avendo il marito sempre in viaggio, non hanno abbastanza cose da fare per non sviluppare una curiosità spesso morbosa, ma nel mio caso, come nel caso di Maria Assunta, a sfondo di studio del vario e misterioso genere umano.

Anzitutto legge parecchio e roba assai lontana da Liala e da Sidney Sheldon, l'ho vista spesso seduta in veranda con dei Piero Chiara e degli Sciascia di tutto rispetto. Non disdegna i gialli, ma non legge Agatha Christie, ultimamente l'ho sorpresa con i libri di Stieg Larsson che sono dei mattoni alti una decina di centimetri e pieni di particolari. E poi romanzi di spionaggio anche cervellotici e meticolosi come Le Carré.

Insomma, che è una fine osservatrice, un buon osservatore come me lo vede anche solo da come guarda il mondo circostante, da come strizza gli occhi e si mantiene sulla riflessione senza fretta, anche mentre gli altri o le altre non chiudono la bocca un secondo e spennellano le loro frasi con ripetuti quanto inutili aggettivi. Non è che non ascolti, potrebbe sembrarlo, ma non è così, Assunta soppesa e separa le cose più interessanti per il suo personale uso, che mi pare sia unicamente lo studio dell'essere umano, dal più normale al più disumano, lo sguardo spassionato dell'entomologa.

Lo so perché ultimamente ci ho anche attaccato discorso, e non deve aver pensato che per pochi attimi che potevo essere interessato a lei come donna, deve aver capito chi sono e come sono da tempo, se lei spia me come io spio lei.

Sono ormai dieci anni che vivo qui e quando arrivai lei era già piazzata dietro le tende a far la tara su tutto e tutti. Credo che sappia tutto di me e invece io so troppo poco ancora di lei e questo mi affascina e mi sprona a far meglio e di più.

La sera per esempio non sento musica, né televisione accesa, va bene che è una lettrice assidua, ma non credo che legga tutto il tempo o che vada a letto presto. Già che la gente durante il giorno è fuori per lavoro, secondo me è la sera che ci tiene tutti sotto controllo, solo che non si fa scoprire mai.

Opportunamente l'altro giorno, dopo anni di essenziali buongiorni e buonasere, mai accompagnati da nient'altro che sorrisi di circostanza, l'ho salutata con la mano e da trenta metri le ho gridato:

-Buon giorno signora Pelosiniiii!Ha visto che magnifica giornata abbiamo stamattina?

Non si è fatta per niente pregare. Ho constatato che aveva anche una bella voce, e urlava come un libro stampato a lettere cubitali:

-Noooooo, certo che non mi è sfuggita la limpidezza del cielo e il sole caldo: una meravigliaaa! Se ci ha fatto caso, laggiù ci sono anche delle nuvolette gonfie (me le ha indicate col dito) che si dovrebbero fare anche delle belle fotoooo, per via del contrasto netto con il cielo azzurro scuro. Una cosa rara, glielo dico iooo!

-Infattiii, la giornata ideale per fare del giardinaggio.

Ho detto io alludendo al suo pratino all'inglese che sembrava diventato un po' troppo alla Mongola delle grandi praterie, e magari agli arbusti e pure agli alberi della Tundra potati chissà quando, forse tra il mio arrivo a S.Gustavo e la rivoluzione di ottobre.

-Ha ragione, caro Lemucchi, ma vede nella vita non c'è tempo per fare tutto e mentre fai una cosa e magari ne sei tutta soddisfatta, ne stai già trascurando un'altra, o addirittura una serie.

-Proprio vero, signora Pelosini, lei mi ha letto nel pensiero, stavo pensando proprio oggi, ma è piuttosto un pensiero insistente negli ultimi tempi, che se io dovessi tornare indietro...

E così via discorrendo, e riducendo a ogni frase i metri di distanza che ci separavano, a un certo punto ci siamo trovati seduti sulle sue comode poltrone della veranda e stavamo mentendo in maniera meravigliosa sul nostro passato, con qualche raro fondo di verità, che lì mischiato nessuno avrebbe saputo distinguerlo, e poi a noi stessi ci pareva più interessante e in un certo senso quasi esotico.

 

Maria Assunta Pelosini

Quel Lemucchi è proprio un fenomeno, attacca discorso e si appiccica come una specie di latin lover, gli argomenti non gli mancano, né una grande flessibilità di comportamento con una signora, ma in fondo quello che gli interessa sono solo gli esseri umani, secondo me, uno studio che magari lui direbbe antropologico.

Fatto sta che da quel giorno ogni tanto ci restituivamo a vicenda ogni visita, seppur senza fretta e con qualche porzione di tempo in mezzo, a volte anche intere settimane.

C'è da dire che non entravamo mai nel ramo del pettegolezzo, sia perché apertamente lo ripudiavamo, almeno alla luce del sole, e quindi la notte e il mistero ci garbavano di più, e poi il gioco tacitamente accettato da entrambi era quello di fingere di essere in una maniera, più o meno come fanno tutti, la differenza era che noi lo sapevamo a memoria, che eravamo di un'altra e nemmeno tanto comune. Proprio per questo, ma anche per altri, ci piaceva.

 

Adalberto Maria Lemucchi

Quando la villetta numero otto ha ricevuto i suoi nuovi proprietari, dopo più di sei mesi dalla morte della signora Castagna, scoperta dal postino oltre due settimane dal decesso attraverso la tipica fragranza di cui tutti ben sappiamo, (almeno perché abbiamo letto dei polizieschi,) ecco che sono arrivati i parenti e ci sono sembrati subito tanti o troppi, eppure assai interessanti.

Naturalmente accennavamo a loro appena di passaggio, in mezzo ad altri discorsi di vario tipo, tra cui non ultima la letteratura.

La gente legge poco, è vero, ma molti scrivono delle note, degli appunti, dei diari spesso incompleti, tanto per ricordarsi, per ragionare con se stessi, in alcuni casi di polizia potrebbero essere prove inequivocabili.

Ovviamente non le dissi che io scrivevo a tempo perso dei romanzi incompiuti, racconti a metà, poesie sbocconcellate dallo spazio e dal tempo. Proprio per questo sospettavo, o piuttosto speravo, che anche lei lo facesse, ma non me ne ha mai accennato niente e io non gliene ho chiesto conferma.

 

Maria Assunta Pelosini

La nostra collaborazione, nata per caso ma non troppo, comunque è piacevole. Il fatto è che purtroppo o per fortuna Adalberto è un bell'uomo, vagamente somigliante a uno Yul Brinner coi capelli attaccati sopra, come un improbabile cespuglietto di lattuga brizzolata. È intelligente, ironico e tutto, anche se le sue pensate sono troppo dispersive per diventare un vero detective, ancor meno agente segreto. Mi ha detto che è diventato un ficcanaso per scrivere dei romanzi polizieschi, ma le due cose gli sono sfuggite di mano, ho pensato io, si sono irrimediabilmente mischiate e ora lui non è né uno scrittore né un poliziotto dilettante, ma un bambinone buffo e piuttosto attempato. Si fa prendere ancora troppo dall'entusiasmo, va dietro alle ipotesi che lo affascinano di più, spesso non tiene conto abbastanza della realtà, giacché preferisce di gran lunga la fiction. Rimane a bocca aperta quando gli dico delle cose sulle nostre indagini, cose che a me sembrano lampanti, fin troppo evidenti, che l'unico dubbio che ho è addirittura se vale la pena di dirle o no. Per lui sono intuizioni geniali, per me delle bischerate ovvie.

 

 

Adalberto Maria Lemucchi

Magari sono stato io a ispirarla, figurarsi che da un momento all'altro lei si è resa conto che il giardinaggio era importante, non per la bellezza della casa, di cui le importava relativamente poco, anche dopo che io le avevo fatto notare che là fuori era tutto un po' troppo abbandonato a se stesso. Incredibile che non ci avesse mai pensato prima, un aspetto ingenuo che mi confonde un po' le idee su di lei, ma Assunta aveva finalmente capito che poteva spiare meglio con le forbici da potare in mano, tagliando il pratino con la pur eccessivamente cigolante falciatrice, (per fortuna un rugginoso cimelio rigorosamente meccanico a spinta umana che aveva esumato dal magazzino e oliato fino a schizzare liquido intorno a ogni giro di lamine) o perfino scavando una buca per una pianta nuova, perché intanto acquistava nuovi punti di vista ( e anche di ascolto) più vicini ai vicini, cioè all'oggetto principe dello spionaggio in questione. Io questo lo sapevo già da un po' , forse perché ai miei defunti genitori piaceva il giardinaggio, c'ero cresciuto in quel modo e anche se i nostri terreni non confinavano, prendemmo a salutarci da dietro le siepi, a gattoni sui pratini, o addirittura da sopra agli alberi dei rispettivi appezzamenti di terreno. E direi con una specie di sorrisino compartecipe che era già una specie di complicità tacita.

 

Maria Assunta Pelosini

Il nostro campo di studio era diviso in otto case visibili a me e le stesse otto ad Adalberto, già che escludevamo le nostre due per ovvi ma non esattamente confermati motivi. Di queste otto alcune si vedevano meglio col cannocchiale, ma noi ne avevamo diversi tipi e grandezze, cioè io ce ne avevo vari e lei sicuramente ne possedeva e ne usava, anche se io non gliene avevo mai visti. La sua casetta era anche a lato di una vecchia casa colonica senza giardino, come usavano anticamente, che ne comprendeva tre sezioni verticali, pitturate di tre diversi colori, con dentro tre gruppi familiari quindi, piccoli ma ben assortiti. Noi due non stavamo di fronte, ma di sbieco ci vedevamo, come ho già spiegato, perché il suo vicino dal lato destro era di fronte a me. Da non tralasciare che la strada faceva una lieve curva e questo complicava un po' la visione, ma noi avevamo diversi trucchi.

Tali gruppi familiari a nostra osservazione erano separati dal resto del paese da due boscaglie in cui poteva succedere di tutto, ma intanto bisognava andarci e lì noi potevamo intervenire in osservazione, oppure dal retro potevamo avventurarci in qualche ricognizione, ma raramente, solo in casi eccezionali, come quelli che sto per narrarvi.

Il gruppo uno era di una sola persona femminile, Agata Tortelli, trentacinquenne che non essendo come noi, spiava sì, ma senza cognizione di causa, senza propositi o intenti, solo curiosità saltuaria. Lavorava come infermiera e faceva i turni, ogni tanto appariva qualche innamorato nuovo, ma non durava mai molto. Aveva due cani, due gatti e varie tartarughine, pesci rossi, uccellini in gabbia per sconfiggere la solitudine, ma quella bastardona aveva sempre la meglio e tra pasticche e gocce Agata s'imbenzinava abbastanza tutti i giorni, non usava droghe propriamente dette, non beveva alcolici.

 

Adalberto Maria Lemucchi

Io e Assuntina avevamo due sistemi differenti e forse equivalenti per non sentirci soli, prima di tutto sapevamo che stare insieme agli altri era difficile, più che improbabile per due come noi, però la compagnia ci garbava, a patto che potessimo decidere di interromperla quando volevamo. La differenza era che io cercavo sempre nuove conoscenze, anche se poi le chiudevo parzialmente, un po' a finestrelle, come si dice, a lasciare solo poche scelte saltuarie interattività. Avevo più amici di internet che di carne e ossa, con cui potevo scambiare chiacchiere ed esperienze di vita, ma non un bicchiere di birra, nessun'ora in pizzeria. Cercavo sempre di conoscere gente nuova anche se immancabilmente mi deludeva. In buona sostanza cercavo di prendere il meglio da loro e anche di dargli qualcosa di buono, come regali virtuali e telefonate vere, qualche parola giusta al momento giusto o non troppo sbagliato, ma senza nessuna continuità, giammai.

Invece Assuntina non cercava mai nessuno, forse perché aveva già delle buone e bastevoli vecchie amicizie, quelle di autentica ciccia ambulante, per cui riceveva visite se non spesso in maniera quasi regolare, parevano persone che conoscesse da tempo e che fossero reciprocamente affezionate, anche se ognuna in modo diverso.

Aveva bisogno di una distrazione ogni tanto, perché il suo lavoro era incessante, secondo me. Appassionante e tutto quello che vogliamo, ma impegnativo. Magari con queste tre signore che la venivano a trovare condivideva particolari interessanti, ma l'uomo pareva di un altro tipo, forse persino interessato a lei come donna, come potenziale compagna, credo. È stato proprio leggendo il movimento delle labbra di lui, sotto la veranda a chiacchierare con lei in un giorno di pioggia primaverile, che appresi che Assuntina era un'autentica moglie di camionista, poi lui era morto, magari in un incidente, o scappato con una ballerina, chi lo sa? Ma quel piccolo particolare mi è piaciuto assai, mi sono quasi commosso.

 

Maria Assunta Pelosini

Il secondo nucleo familiare in questione era formato da tre personcine di estrema classe che litigavano assai e perciò ci tenevano piacevolmente impegnati, tra bestemmie e parolacce circolavano minacce di morte e altre robe interessanti, che forse non sarebbero mai stati realizzate fino in fondo, ma intanto noi due annotavamo, magari per un futuro processo come quelli dei film. I Bastiani, madre, padre e figlio maschio malcelatamente effeminato erano rozzi e raffinati allo stesso tempo, facciamo a capirci, riuscivano a far intravedere una densa storia personale piena di luci e ombre, più ombre che luci, d'accordo, ma gli acciacchi e le fissazioni anche a livello di stile di vita erano tanto evidenti e variegati, che ogni giorno facevano da motore alla loro assurda vita e ne risultava un vero piacere spiarli. Automaticamente riuscivano a farci sentire dei geni, oppure anche della gente realizzata, insomma quasi felice mentre rappresentavano instancabilmente la tragicomica esistenza di un trio infallibile nelle loro ridicole rivendicazioni e vicendevoli maledizioni. Da non trascurarsi le reciproche pretese sulla base di un codice di normalità e di appartenenza a una società conformista che non solo li aveva ostacolati con le sue regole, ma che poi non si curava certo delle sue stesse conseguenze. Il figlio fingeva ancora di andare dietro alle donne e aveva una cinquantina d'anni, i suoi vecchi malaticci pareva ancora che ci credessero. Secondo me lo sapevano a memoria ma si rifiutavano di accettare quel fatto da tempo tanto consumato e liso. Insomma recitavano una commedia, che per quanto già vista e rivista, attraverso tanti altri personaggi precedenti e contemporanei, loro sapevano interpretare con passione sorda, con disperazione ruspante, fingevano ma erano veri, puzzavano di morte ma profumavano anche di vita.

Non so se erano i preferiti anche di Adalberto, che si innamorava e si schifava della gente con la stessa facilità, bastava un niente per fargli cambiare l'opinione su qualcuno, anche costruita per mesi o perfino anni. Noi ogni tanto li menzionavamo, citavamo all'inizio timidamente le loro frasi ripetute fino a diventare dei quotidiani tormentoni e ci facevamo delle risate forse anche un poco amare, ma che intanto rafforzavamo la nostra intimità sui temi favoriti di “Istruzioni per rendersi infelici” di Paul Watzlawick. Gli esseri umani avevano veramente bisogno di tutta quella loro atavica infelicità per riuscire a vivere? Forse era quella la domanda che ci facevamo studiandoci a vicenda, noi e gli altri. E poi: noi due eravamo veramente superiori a tutto questo o in fondo ci mancava tutta quel dolore che trovavamo in giro tanto ben distribuito e in dosi magari fin troppo cavalline?

Noi non lo sapevamo, ma la casa tre, nucleo Bartoli Finn, era la contrapposizione a tutto questo, almeno apparentemente, non mancavano i soldi, lavoravano come bestie da soma, però professioni privilegiate, i due figli coltivano passioni vuote, ma forse avrebbero fatto in tempo a cambiare, anche se magari ci sarebbe voluta una meteorite a cadere sulla loro casa. Le facce pure non mi piacevano, forse neanche sconfinferavano loro stessi, ma fingevano di sì. Anche il Lemucchi li guardava con disprezzo, non avevo potuto fare a meno di accorgermene. Personalmente li trascuravo più di tutti gli altri, me ne ero resa conto di riflesso, forse perché erano assai poco espressivi, nascondevano i sentimenti, amplificavano e ripetevano le banalità imparate alla televisione, facevano più schifo di tutti, ma si sentivano superiori dall'alto dei loro conti in banca.

Nei boschetti intorno facevamo a turno delle visite, intanto, con i pretesti più vari, per raccogliere preservativi e siringhe, resti di quello che succedeva perlopiù di notte e attraverso gente che non era di lì. Dai movimenti dei fari si capiva che ci venivano a farci delle sane ma pericolose porcherie sessuali e a drogarsi al buio, a volte tutte e due le cose insieme, specialmente nelle stagioni più calde.

 

Adalberto Maria Lemucchi

Un giorno Assunta ha trovato un gigantesco alano arlecchino morto, ucciso con un'arma di grosso calibro, con ogni probabilità gli avevano sparato da un'altra parte, c'era troppo poco sangue in giro. Lo abbiamo dovuto sotterrare sul posto, per via della puzza, dopo aver stabilito che anch'esso veniva da fuori, forse era il caso di denunciarlo alla polizia, ma abbiamo deciso di non farlo. Le nostre metaforiche orecchie però erano già ritte e gli sguardi oltremodo attenti, ci siamo organizzati con dei turni di guardia complementari e supplementari. Da una pagina di amanti dei cani, su Facebook portata alla nostra attenzione da Clara, una delle amiche di Assunta, siamo venuti a sapere che ne era scomparso uno, di alani, a pochi chilometri da S.Gustavo, corrispondeva alla descrizione e la sua medaglietta che avevamo conservato recava proprio il nome giusto: Alan.

 

Maria Assunta Pelosini

Ci siamo messi in contatto con la famiglia, due cari vecchi signori, che immediatamente sono venuti, e hanno esumato il cadavere, lo hanno messo in un sacco e lo hanno seppellito nel loro giardino. Non sono rimasti tanto sorpresi quando gli abbiamo detto che era stato ucciso da un fucile da caccia al cinghiale. Anche questo era da annotarsi.

 

Adalberto Maria Lemucchi

Renè, l'amico di Assunta ha detto che un suo amico viveva a lato dei signori Carboncini, padroni di Alan e che il cagnone scappava spesso e faceva danni nei giardini e nei pollai limitrofi.

Le indagini preliminari erano già partite, automaticamente, prima che noi stessi ci rendessimo conto eravamo andati a interrogare tutti i nuclei familiari a nostra portata, gli amici di Assunta avevano fatto lo stesso.

Assunta gli ha fatto capire che se la polizia non si interessava di questi casi qualcuno lo doveva pur fare e visto che io e lei eravamo in pensione, era solo una questione di dovere civico. Chi sparava a un cane avrebbe potuto anche cominciare a impallinare la gente, non si sapeva mai. Quando la discussione è diventata agitata, io ho trascinato via Assunta, spesso l'alcool era cattivo consigliere ed era meglio evitare contrasti inutili.

Il nucleo cinque, prima sezione della casa colonica, era di tre persone, due sorelle e un fratello anziani, i Pacini, erano abbastanza rincoglioniti e poco disposti, ma le femmine erano piuttosto intriganti e colla vocazione repressa delle mogli di camionisti, ci è parso, anche se non ne hanno mai potuto sposare nessuno, magari non ne hanno avuto soverchia occasione. Hanno detto di non sapere niente, di non aver visto nessuno fare movimenti sospetti nella boscaglia, ma sia io che Assunta abbiamo avuto la sensazione che mentissero. Appena usciti la mia collega ha detto anche di aver visto dei riflessi alle loro finestre, in alcune occasioni, che avrebbero fatto pensare a un cannocchiale. Abbiamo concordato che sarebbero potute diventare alleate preziose, che bisognava pensare a cosa gli piacesse e magari arrufianarcisi un po'.

L'abitazione sei, sezione nel mezzo della casa lunga, nascondeva un pensionato vedovo e piuttosto scorbutico, Holger Calamari. Ce lo aspettavamo, non ci ha nemmeno aperto, ma lo abbiamo avvistato oltre le tende spesse. Renè Piersanti andava a fare delle lunghe camminate per perdere peso, tutti i giorni a ore diverse, quando ne aveva voglia, spesso la sera all'imbrunire, specialmente d'estate che il giorno era caldo. A S.Gustavo c'era una vallata lunga che diveniva sempre più stretta, come un imbuto e la strada sterrata la percorreva in lungo, nella parte finale sotto gli alberi e in salita, poi tornava quasi sul piano, ma intorno c'era una natura pressoché incontaminata e impressionante, sui pendii che salivano verso il cielo quasi a perpendicolo, lì non ci batteva mai il sole, c'era muschio e alberi caduti, rocce e anche rifiuti sparsi in fondo, dove d'inverno si formava un torrente.

 

 

A mezzogiorno Renè mangiava normalmente cercando di stare più lontano possibile dal pane, non sempre ci riusciva. Completava la dieta con un frullato di frutta più integratori alimentari a sostituire la cena. Dopo tanto tempo con le mani aveva sentito il suo stesso sterno, la sera sdraiato sul letto, e gli aveva quasi fatto impressione.

L'altra cosa da fare era evitare più possibile il computer, per via degli occhi stanchi dopo una vita da archivista e bibliotecario. Però leggeva ancora tanto, anzi ora più di prima, soprattutto gialli. Sua moglie lo avvertiva spesso di lasciare riposare gli occhi, ma quando lei usciva, quasi di nascosto, lui prendeva quella trama interrotta e la portava avanti quasi compulsivamente, facendo alla svelta prima che lei tornasse da fare la spesa, o da visitare amiche o parenti.

Secondo il medico era normale, quando il corpo era sotto sforzo e stava cambiando abitudini, non solo alimentari, che i sensi ingannassero la persona, ogni tanto. Soprattutto sotto sforzo. Nel caso specifico Renè aveva delle brevi ma intense allucinazioni, specialmente visive, ma a volte anche auditive, o anche olfattive, ma più raramente.

Gli parve quindi sotto controllo, quella situazione, quando vide una grossa faccia umana, o forse anche anche una scimmia, per pochi secondi, attraverso la boscaglia, in condizioni di stanchezza fisica. Poi la visione svaniva appena passato un albero o un cespuglio, cambiata la prospettiva, abbandonato per un attimo quel fascio di luce tra il denso fogliame.

Però la cosa divenne insistente, ricorrente e Renè notò che gli capitava sempre quando si fermava a fare la pipì, che per causa di alcune pastiglie che prendeva per la dieta, doveva orinare assai più frequentemente del normale.

Allora smise di farla sul percorso e la visione sparì, ma rimase curioso e ricominciò tanto per vedere se ricominciava e puntualmente rivedeva quella faccia scimmiesca. Era veramente grande se considerava la distanza che doveva essere sempre superiore o uguale a trenta metri.

Tutto pareva irreale, ma gli venne in mente una cosa razionale: poteva essere che lo scimmione uscisse a controllare quando sentiva che il crocchiare della ghiaia sotto le scarpe da ginnastica di Renè improvvisamente si zittiva. Provò allora a fermarsi senza fare la pipì, funzionava. L'immagine diventava anche sempre più aperta, meno frasche a nascondere il corpo, la scimmia era grande e si presentava di solito accasciata.

Gli venne in mente che lì a S.Gustavo quando lui era bambino, c'era un uomo dalla testa di scimmia, un'anomalia. Dicevano che aveva anche la coda, piccola, un mozzicone. Guidava il trattore, andava alla messa la domenica, ma non parlava. L'aveva visto personalmente più volte, in giacca e cravatta, nei banconi degli uomini, i bambini invece stavano insieme alle donne, nelle file più indietro, oltre i due altari minori. Però non era grande come la scimmia che lui vedeva ormai ogni volta che andava a camminare, quella doveva essere almeno tre metri.

Assunta non gli credette, almeno all'inizio, quando le raccontò della scimmia, Renè le spiegò anche dell'uomo con la testa di scimpanzè e lei fu anche al cimitero per vedere la foto sulla lapide. Impressionante anche per una S.Tommasa come lei, ma una cosa non ne vuol dire necessariamente un'altra, e quindi preferì lasciarle separate. Eppure troppe erano le coincidenze, secondo Yul, cioè Adalberto.

 

 

Maria Assunta Pelosini

Nella sette, muro a muro, una famigliuola ingenua, i Pisticci, con tre figli pestiferi e genitori molto lavoratori, ma poco guadagnatori. Nella grande confusione subito dopo cena, ci hanno detto di non aver molto tempo per guardarsi intorno e gli abbiamo senz'altro creduto sulla parola.

L'ottava famiglia era quella nuova, il nucleo Castagna-Ricci era formato da tre maschi sui venti-venticinque anni, due femmine sulla trentina, nipoti di una nonna in sedia a rotelle collo sguardo fisso, muta e immobile, in più uno zio burbero e silenzioso. Nessuno sorrideva, tutti di poche parole e bruschi nei modi. Non ci hanno buttato fuori, ma ci guardavano come se fosse solo una questione di tempo.

Comunque il caso degli animali morti era interessante, da quando sono qua a S.Gustavo era il migliore e certo il più grave e misterioso, insomma Yul c'inzuppava anche troppo il suo biscotto sensazionalistico, diciamocelo, l'esagerazione era il suo pane, per via della solitudine e tutto il resto... chi lo sapeva? Ma la sostanza c'era davvero stavolta e se la polizia se ne fregava, da una parte ci lasciava il campo libero e a noi non ci pareva vero.

Lui non sapeva che scrivevo anch'io e se mentiva pure lui, io sapevo certo molte più cose di Yul che lui di me.

 

Adalberto Maria Lemucchi

Ricapitolando, le posizioni erano così, sulla fila nord, dal lato della sponda del Lago Ciottoli, c'ero io, i tre Bastian Contrari, così denominati da Assunta, dopo i Trambusti ubriaconi che avevano anche una piccola cartoleria, giornali e tabacchi, con scarsi assortimento, pulizia e risultati. In fondo i riccastri Bartoli con un terreno più grande degli altri, e un'erronea concezione più alta di se stessi.

Oltre la provinciale 231, di fronte a me la signorina Tortelli, poi Maria Assunta Pelosini, nella casa colonica - detta anche Bongi - i tre vetusti Pacini, il misterioso ma non giovane Calamari, la rumorosa famiglia Pisticci e gli ultimi arrivati Castagna-Ricci.

Gli incontri con Assunta stavano diventando più regolari, per telefono ci segnalavamo anche i minimi movimenti sospetti, la nostra tacita collaborazione stava diventando sempre più instancabilmente operativa e ogni tanto abbiamo anche cominciato a parlare di letteratura in maniera più dettagliata, a partire dai gusti che se non si assomigliavano su tutto, avevano diversi punti in comune. Se lei scrivesse non lo sapevo, non me ne aveva mai parlato, io invece, forse per impressionarla, le ho rivelato il mio sforzo, spesso vano o incompleto, sui tasti del computer. Le ho confessato che avevo iniziato a spiare gli altri proprio per immaginarmi meglio le storie dei romanzi polizieschi. Lei rideva e ha detto anche che le avevo messo una strana voglia di cominciare a scrivere, ma aveva troppo da fare in casa e in giardino.

Proprio in quei giorni ero arrivato a una conclusione, che a molti può anche sembrare un’assurdità, ma in fondo chi se ne fregava: mi ero progressivamente sempre più convinto che per ottenere un buon scrittore, prima dall’altra parte ci volesse un buon lettore. Se lo scrittore era uno di quelli veri, allora scriveva in maniera piacevole e semplice, cose interessanti e tragicomiche, così come era la vita. Il lettore però, da parte sua, se ne doveva accorgere, doveva avere un fiuto sottile e capire cosa era vero e cosa era falso, rifiutare il sensazionalismo e tutte quelle pubblicazioni elaborate dai prezzolati che guadagnavano la loro pagnotta stantia seguendo le mode più idiote e svendendo la propria capacità a coloro che non ne avevano, tipo calciatori, attori, personaggi dello spettacolo in genere e comunque gente già famosa per altri motivi.

Se il lettore faceva piuttosto schifo, c'erano due opzioni: 1)lo scrittore si adeguava, per essere letto e apprezzato, diventava anche lui un cesso; 2)oppure illudendosi di poter cambiar la corrente, sperando che ci fossero in giro altri come lui, lottava contro i mulini a vento come un Don Chisciotte che cercava invano di salvare delle bellissime principesse ma che avevano l'unico però determinante difetto di non esistere, cieco contro draghi che lì accanto, comodamente seduti, sorseggiavano il caffè e si facevano beffe di lui. In seguito ci si rassegnava a campare in un limbo nebbioso, senza possibilità di miglioramento o di fuga, vivendo di un passato in cui gli autori erano stati veramente tali e quando si prendeva un libro in mano c’era la speranza che fosse buono o addirittura meraviglioso. Quando la gente aveva ancora un’immaginazione positiva, sapeva sognare per benino e quando si svegliava, sapeva distinguere le due cose, la realtà allora, quella vera, pareva assai migliore. Quando si prendeva un libro in mano non si andava giammai via col pensiero, si seguivano le frasi come se fossero descrizioni, fatti, ragionamenti autentici eccetera.

Come ultimamente ci capitava, nel mondo moderno avevamo due scelte, entrambe scadenti o peggio. Avevate seguito le ultime elezioni in giro per il mondo? Il migliore non c’era, almeno tra i candidati. Non sapendo qual era il peggiore, si optava per istinto, forse seguendo più il cuore che la ragione, ma entrambi - nel prossimo futuro - se ne sarebbero inevitabilmente sentiti danneggiati. Si sapeva già a cosa si andava incontro, ma non c'erano alternative. Noi sceglievamo allora di essere Don Chisciotti fessi e contenti, piuttosto che draghi arroganti, prepotenti e disonesti.

Ecco perché non terminavo le mie opere, perché nessuno ne avrebbe sentito la mancanza, ecco perché me ne fregavo di tutto e di tutti, raccontavo le mie storie a me stesso, perché lo sapevo che non gliene importava niente a nessuno. Niente di personale, erano proprio le storie che non interessavano più, in generale, la gente non aveva più tempo per le cose lunghe, si viveva di miscugli di robe spezzate e di interruzioni, si tagliava ogni immaginazione prima che ci potesse far del male, dimenticando che ci avrebbe potuto fare anche del bene.

Il mondo non era così quando ero nato e me ne accorgevo solo allora, tutto era stato molto più umano e romantico. Scrivendo mi ricordavo di tanti particolari accantonati e ingiustamente, perché quello era stato più bello e sano, molto meno complicato del tempo che era purtroppo quello attuale di allora e addirittura aveva funzionato ancora attraverso cose ormai superate e dimenticate denominate sentimenti. Dopo, cioè ora, siamo ulteriormente peggiorati.

Non che la gente non sia più mossa da forti sentimentalismi, ma invece di dirigerli verso le persone, li dedica piuttosto alle cose: tipo automobili, case, televisori e robe varie. C' è ancora tanta gente che vale la pena di conoscere e di farsene degli amici, credo solo che siano sempre più confusi, se osservo i miei vicini mi sembrano quasi tutte brave persone, almeno nelle intenzioni, poi nella pratica della routine fanno un casino tremendo, ingannano se stessi e disturbano gli altri. Quando non diventano dei serial killer. Uno dei peggiori lati dell'essere umano. Quello di non tentare nemmeno di fare autocritica. Come fanno a non guardarsi mai nel loro metaforico specchio?

Secondo me non sanno nemmeno che esiste, almeno una parte di loro. Chi lo sa invece ne ha paura, nelle loro testacce abbandonate alla tempesta temono che possa loro confondere le idee, solo che peggio di così non può andare, se facessero anche solo una mezza autocritica amatoriale se ne accorgerebbero. Molto meglio dare la colpa agli altri, anche se questa attività è molto poco interattiva, purtroppo, tutte le volte che ci proviamo quelli non accettano le proprie responsabilità. Figurarsi che dicono che invece è proprio colpa nostra! È roba da matti!

Proprio per questo, ma anche per altri motivi, la gente ammattisce.

Ad Assunta però queste cose non le dicevo, che lei le sapeva già, e poi il nostro gioco era piuttosto un altro. Più o meno coscientemente giocavamo agli agenti segreti.

Intanto, mentre io mi perdevo in quei ragionamenti concentrici si era trovato un altro cane massacrato, stavolta un barboncino nero, di nome Cino. Me lo è venuto a dire Assunta, il luogo del ritrovamento era non troppo lontano dal primo. Ci siamo messi subito al lavoro.

Il cugino della signora Pietrabuona, amica di Assunta, ci ha comunicato che il suo macellaio di fiducia, tale Patroclo Pietrogiovanna, ne aveva uno, scomparso due giorni prima, che corrispondeva al nome e alla descrizione. Ci ha mandato la moglie Teresita e il figlio Dario a fare il riconoscimento, si son presi il cadavere. Era stato impiccato con il filo spinato a un albero sulla sponda del lago. A ritrovarlo è stata la signorina Telma Pacini, che sembra Mr. Magoo con una parrucchetta sulla testa pelata, che andava spesso a fare fotografie in giro da pubblicare su Facebook. Quella del cane impiccato, però l'ha dovuta togliere subito, perché il macellaio in questione è una pasta d'uomo ma quando s'arrabbia fa impressione, specie se ha uno dei suoi coltellacci in mano.

 

Holger Calamari

Molti sono gli scontenti, ma non fanno niente a proposito, si limitano a sparlare degli altri, a denunciare verbalmente i governi, a criticare tutto e tutti in maniera astratta. Agire richiede sicurezza e determinazione, chi ce l'ha la usa per fare soldi, per accaparrarsi potere, chi se ne frega della giustizia? Chi se ne importa delle violenza contro gli animali quando gli uomini, intesi come umanità, la usano pure contro se stessi?

 

Maria Assunta Pelosini

I nostri sospetti erano caduti tutti sulla famiglia Castagna-Ricci, non solo perché si presentavano male assai, ma anche perché prima che loro si presentassero cose del genere non se ne erano mai presentate. Ci siamo messi all'osservazione intensiva del nucleo in questione, visto che parlarci non serviva a niente.

Intanto un'amica della signora Pietrogiovanna ci ha comunicato che a S.Gelmino, a due chilometri da noi, sparizioni e massacri di cani erano già diventati routine, secondo la signora Pieroni Dina, erano delle specie di faide tra vicini, ma quando erano iniziate non lo sapeva, perché la gente parla, sì, ma ci mette del suo in mezzo e poi il tempo fa pure un lavoro di lato allo spazio che confonde le idee d'assieme, per chi ce ne avesse.

Attraverso Facebook e un gruppo di protezione degli animali non siamo mai arrivati a comunicare col signor Calamari, che pur celato dallo pseudonimo Tintenfische e con una foto virato seppia di Winston Churchill da giovane, era stato sgamato dalla signorina Tortelli che nel frattempo si era unita a noi, temendo per la sorte dei suoi animaletti, già che una sua zia di Castellaccio, a tre chilometri oltre il lago, le aveva detto che di là venivano uccisi anche gatti e pesci rossi, tartarughine e criceti.

Abbiamo scoperto però che tale Holger Calamari, che aveva vissuto per anni in Ungheria e poi in Austria, aveva una rete di protezione animali a livello europeo propria e segreta, e anche piuttosto pericolosa, perché quando beccavano un maltrattatore colle mani nel sacco, arrivavano dagli eccessi delle torture fino alle esecuzioni sommarie. Tutto questo sempre attraverso numerose malelingue di Facebook, comunque voci non ancora confermate.

 

L'uomo con la benda all'occhio destro manda ordini con un cellulare speciale che non può essere rintracciato, i maltrattatori di animali vengono a loro volta, forse anche meritatamente, maltrattati. Un'organizzazione non governamentale e nemmeno legale che si occupa di robe brutte e le risolve aggiungendo maggior bruttezza. Al giorno d'oggi tutti protestano, alcuni a ragione, altri per confondere le acque, una cosa del genere, anche se più volte denunciata, non interessa a molti.

(Dal Giornaletto di Guglielmo Tell del 7 gennaio 2018, settimanale Bellinzonese di cose da pensare, poi eventualmente da dire, magari in un terzo momento anche da fare.)

 

Adalberto Maria Lemucchi

Secondo la Tortelli c'era da starci attenti, le notizie che correvano erano ripetute e tutte in quella direzione. Abbiamo chiesto che ce le documentasse e lei lo ha fatto, effettivamente i boati erano insistenti. Anche se io e Assunta eravamo due San Tommasi ambulanti e prima di credere a qualcosa ce ne volevamo sincerare per bene.

Quelle dieci abitazioni in questione e i relativi nuclei familiari si erano perlopiù ignorati nei dieci anni da me abitati a S.Gustavo, frazione Bongi-Guidi. Anche in città, ma soprattutto in campagna la gente si conosceva e si frequentava molto di più. Sarà stata l'illusione di non aver bisogno di nessuno, la sfrenata competizione dell'epoca moderna, che hanno allontanato sempre di più gl'individui tra di loro.

La località Bongi-Guidi, dove viviamo si chiama così perché qui vivevano le due famiglie rivali, un secolo fa, due case coloniche con dentro i due grandi nuclei, in perenne guerra tra di loro. Spostavano di notte i confini dei terreni e si ostacolavano come potevano. Pare che ci sia rimasta solo una delle due case, l'altra fu esplosa, durante la guerra ma a quanto pare non dai nemici dell'Italia. Questo segnò approssimativamente la fine contemporanea dei due conflitti bellici.

La lotta per la sopravvivenza che c'è tra gli animali, tra noi esseri umani è trasbordata in una sterile dimostrazione di potenza, che spesso diventa addirittura dannosa anche per il potente che oltre che dover sempre far la guerra a tutti, non godersi il suo potere che a piccoli tratti, presto o tardi trova uno più prepotente di lui che lo manda in rovina.

Dicono che la vanità alimenti la competizione che a sua volta stimola l'economia, che secondo alcuni è il motore che scuote l'atavica pigrizia dell'individuo, ma l'economia dovrebbe servire gli individui e invece succede il contrario, alla fine ci si rincorre la coda senza ricordarsi nemmeno dove e quando tutto questo sia cominciato e perché.

Dove s'infila la morte violenta di animali in questo contesto è quello che discutevamo spesso io e Assuntina, anche attraverso Whatsapp e Facebook, per il momento senza trovare un colpevole, un responsabile collettivo, se non una società malata. Ma la società era sempre stata malata o lo era diventata da poco? Anche a questo non sapevamo rispondere.

 

Maria Assunta Pelosini

Intanto stavamo monitorando la famiglia nuova, più il Calamari e ci stavamo avvicinando alle sorelle Pacini, che avendo due piccole cagnette Chihuaua e un gattone castrato, si erano interessate alla nostra sorveglianza non solo animalistica e la Tortelli anche aveva mosso anche amici e amiche in nostro favore.

Il Lemucchi era pieno di premure nei miei confronti, eppure avrebbe dovuto aver elementi sufficienti per capire che sapevo destreggiarmi anche meglio di lui, nella giungla della Toscana, anche se da noi a volte sembrava più una savana di olivi, con qualche cipresso abbondante. Non era da escludersi che oltre la sua concezione antropologica della realtà si stesse interessando anche al pianeta donna da me interpretato, a quanto pare in maniera lodevole, giudicando dal suo palese gradimento, non ne faceva alcun mistero.

Si vedeva che cercava sempre malcelatamente la mia approvazione e di ogni mossa che stava per fare chiedeva il mio parere, il quale, in caso di mia opinione negativa, trasformava in ordine tassativo. Mi scappava da ridere, ma mi faceva anche piacere.

 

Adalberto Maria Lemucchi

Gli amici di Assuntina e i miei di internet erano stati mobilitati, non tutti avevano aderito, ma Paco Livingrooms, pseudonimo di architetto di Ravenna, al quale mi univano 5 anni di amicizia su Facebook, mi aveva anche parlato di Calamari e di fatti poco rassicuranti sul litorale Romagnolo. Lo svizzero Karl Feuchtenberger, parlava un buon inglese e stava imparando lo spagnolo, mi ha scritto che a Bellinzona c'erano stati maltrattamenti di animali e conseguenti torture e addirittura morti dei maltrattatori. Qui il nome di Calamari non era venuto fuori, ma la maniera di operare pareva quella. La polizia non aveva scoperto niente, come sempre e niente collegava i cadaveri ai maltrattamenti di animali, secondo loro. Che coincidenza, continuava Karl, che Tintenfische si fosse installato vicino a noi, là dove c'erano questi episodi di animali massacrati. Nessuna coincidenza nel nome, ha commentato poi il mio amico di Facebook, Tintenfische significava Calamari in tedesco.

 

Agata Tortelli

Un ricordo di quando ero piccola riemerge ogni tanto: ero da sola sulla nostra Simca 1000 posteggiata, cioè quella di mio padre e lo aspettavo per parecchio tempo, in fila tra le altre macchine sui due lati di una strada sterrata, un'ampia curva in salita, tutta costeggiata da alberi di ciliegio. Mi sarebbe piaciuto sapere cosa era andato a fare mio padre, se quel ricordo era una serie di ripetute attese o una volta sola, dove era avvenuto, perché mi sarebbe piaciuto tornarci.

Cercavo ancora la mia anima gemella, anche se ci credevo sempre meno, scrivevo poco e lavoravo assai, passavo poco tempo in casa, coi miei animaletti che facevano la guardia in mia assenza. Ogni tanto qualche innamorato che durava poco, forse più per colpa mia, ma anche perché le opzioni erano scarse e in più io sceglievo immancabilmente i peggiori disponibili. Intanto m'innamoravo perdutamente, senza nemmeno conoscerli abbastanza, degli indisponibili. Se uno di quest'ultimi improvvisamente se ne accorgeva, diventava magicamente disponibile, allora perdevo interesse, forse anche perché poi avevo occasione di conoscerli meglio, approdavo come in un naufragio sugli scogli ai soliti dannati limiti umani, miei e loro.

Vivevo a S.Gustavo da due anni. Il territorio lì attorno era piuttosto accidentato, terreno ideale per gli oliveti, colline scoscese e rocciose, boschi in pendenza e vegetazione intricata. Sempre secco d'estate, uno dei ruscelli che davano vita al lago, dal lato della frazione Bongi-Guidi, cioè dalla sponda nord-ovest, si era fatto largo nelle strettoie di pareti scivolose, tra pendii muschiosi e impressionanti, tipo giungla, di radici abbarbicate sulle rocce, naturalmente scalare da quelle parti era oltremodo pericoloso. Di solito era lì che andavamo. Quando potevo con i miei cani mi garbava fare delle passeggiate che diventavano a volte anche pericolose, perché quando mi trovavo di fronte a pareti scoscese, a boscaglie impenetrabili e a proibitive difficoltà in genere, non tornavamo indietro, anzi le prendevamo come sfide. Le indagini, segretamente ma non troppo, correvano serrate specialmente per Adalberto e Assunta, io avevo poco tempo, ma quando potevo gli davo man forte, anche grazie alle mie amicizie che avevano aderito, non ultime quelle di Facebook. Quando ho trovato il nascondiglio, in una boscaglia impenetrabile non lontano dalla riva del lago, hanno deciso di avvisare la polizia.

Il nascondiglio era un torrione vegetale probabilmente del tutto naturale, formato da una grande acacia su cui era cresciuto attorno un coacervo di rovi che a un certo punto si erano arrampicati sui rami scesi in basso fin quasi a toccare i pruni. L'effetto era una montagna di due verdi diversi e mischiati, come un intenso salice piangente che aveva formato pareti impenetrabili sui lati e nel mezzo c'era un vuoto. Da lontano non si vedeva, perché era cresciuto in mezzo a una radura nascosta da alti lecci attorno e i rovi erano andati sull'acacia a una decina di metri altezza, dove normalmente non arrivano mai. Lì sotto gli scheletri e gli animali in decomposizione si ammucchiavano, la formidabile puzza ci aveva guidati, i miei cani sembravano impazziti.

Il territorio del comune di S.Gustavo si estendeva di sbieco allungandosi tra boschetti e campi coltivati, fino ad arrivare vicino a S.Gelmino e a distanziarsi dal centro del nostro paese di appartenenza. Lì c'eravamo noi, a pochi passi dalla statale 43, separati dai boschi e dai campi, che se avevamo bisogno di comprare qualsiasi cosa, a trecento metri o poco più avevamo il centro dell'altro villaggio e piuttosto raramente andavamo a S.Gustavo, se non per motivi anagrafici o cose del genere amministrativo.

Pare che il nascondiglio si trovasse proprio sul confine trai due territori. Le due amministrazioni quindi lo hanno preso come pretesto per non occuparsene. I Carabinieri dovevano vigilare sulle persone, in fondo e la loro giurisdizione comprendeva non solo i due paesi ma anche altri sei, le cosiddette indagini continuarono a essere solo le nostre. Non che ci aspettassimo niente di differente, ma così non potevano accusarci di aver mantenuto le cose in gran segreto. Una base di ufficialità ci voleva, secondo Assuntina.

 

George Albert Bartoli Finn

Tutta questa gente attorno se ne frega del suo futuro, non cura nemmeno il suo presente, il loro passato gli è scappato di mano da tempo immemorabile. La nostra famiglia è diversa, non ci mischiamo a questi non solo perché non hanno idee, ma criticano addirittura le nostre, che se le applicassero gli risolverebbero ogni tipo di problema. No, ci navigano nei problemi, non sanno vivere senza. Hanno rinunciato a ogni controllo sulla loro vita. Che cosa è la vita senza un po' di sicurezza?

 

Maria Assunta Pelosini

La nostra piccola frazione in poco tempo si era ulteriormente frazionata. Si contavano almeno tre parti distinte. Da una parte tutti quelli che avevano cani, gatti e animali da compagnia, che cercavano di darci una mano per svelare quel mistero di animali ammazzati. Dall' altra quelli che in una maniera o nell'altra se ne fregavano o addirittura erano sospettati di essere dei massacratori di bestioline, anche se non sempre indifese.

Dalla parte della protezione animali Holger Calamari, che personalmente nessuno conosceva, non collaborava con noi, ma era sospettato a sua volta di condurre una rete di torturatori e uccisori di esseri umani maltrattatori di animali.

La rivendita di giornali, bibite e cose varie dei Trambusti ha avuto quindi sempre meno clienti. I Bartoli non sono riusciti a diventare più antipatici, non era facile. I Castagna-Ricci hanno continuato a vivere separati da tutto e da tutti. Tutti gli altri hanno collaborato, chi più chi meno, anche coinvolgendo amici e conoscenti che non abitavano lì attorno, alcuni anche fuori dall'Italia attraverso internet.

Nell'arco di due anni a seguire, questi nuclei si sono avvicinati, si può parlare già quasi di amicizie; gli altri hanno continuato separati, Holger è andato a vivere altrove ma nessuno è venuto a occupare la sua casa. Non ci sono stati più animali massacrati, almeno non nei paraggi, però altrove se ne hanno notizie se non regolari neanche troppo saltuarie.

Uno dei giovani dei Castagna-Ricci è sparito. Si è scoperto che la nonna era morta da tempo e l'avevano imbalsamata per riscuotere la consistente pensione. Io e Adalberto abbiamo tentato di fare un resoconto degli avvenimenti di questi anni, il riassunto è questo, frammentario e confuso, come la vita stessa, ma nel frattempo ci siamo anche sposati. Renè è morto lo scorso maggio e ha continuato fino all'ultimo a vedere la sua scimmia gigante. Il senso della vita è ancora piuttosto misterioso. Il confine tra realtà e fantasia risulta soggettivo e assai fluttuante.

 

Da giovedì c'è un nuovo membro in prova, ma è una donna. L'ha portata Qiang e ha l'aria di divertirsi assai a guardarci, secondo me ci vede come bambinoni che fanno finta di comportarsi da adulti, ma non ci riescono se non come imitatori di una realtà alla quale non vogliono, non possono e non devono appartenere. Il che secondo me sarebbe una cosa positiva. Però non dice granché e il suo sorriso ci pare piuttosto ironico. A differenza di noi è abbastanza famosa, i suoi libri gialli sono pubblicati in varie lingue, ma non in italiano, perché vive a Firenze e non vuole essere riconosciuta, giacché parla male dell'Italia, ma soprattutto degli italiani.

Ho letto già in tedesco e in portoghese alcuni dei suoi gialli, tradizionali come struttura, e mi piacciono, il commissario Marroni è un personaggio che mi pare assai credibile. Dina non perde l'occasione di denunciare il sistema e la mentalità tipicamente peninsulare di gente che si lamenta sempre, ma non fa assolutamente niente per cambiare. Si chiama Dina Löwe ed è brasiliana di origine tedesca, ma ha vissuto un po' dovunque prima di arrivare qui da noi.

Naturalmente Qiang è stato oggetto di proteste da ogni lato, ma lui dice che bisogna lasciarla ambientare, che sarà importante per noi, perché próprio per noi avrebbe grandi progetti anche a livello editoriale ed è ricca di famiglia. Il fatto che sia femmina e che il suo romanzo noir rispetti gli schemi consueti del genere, sebbene nessuno lo dica apertamente, almeno finora sono stati taciti elementi  negativi. Da giovane deve essere stata una bella donna, ha degli occhi magnetici e una settantina di anni,  un fascino discreto, sottile eppure forte assai. I nostri due brasiliani sono dalla sua parte, secondo me, ma non si manifestano, gli altri per ora sono tutti contro, a vari livelli d'intensità, Dietmar appoggia Qiang ma senza molta convinzione.

Intimidita da quegli sguardi inquisitori, che si aspettavano solo critiche e niente di buono da lei, visto anche che è una scrittrice affermata, non ha quasi mai parlato, se non con frasi spezzate e di circostanza, finché è stata chiesta a gran voce una sua prova scritta, per la quale inizialmente ha recalcitrato, ma forse poi ha intravisto la maniera più semplice di dire cosa pensava, senza perdere troppo tempo e l'ha presa al volo. Il suo giallo non tradizionale l'ha voluto leggere lei stessa ed è stato una parodia del nostro gruppo, una mezza rufianata, che ci ha lasciati di stucco, ma credo che la nostra parte maschile abbia apprezzato quella sua femminile, senza troppe cerimonie ma cortese e affabile, simpatica in maniera un po' timida, ho creduto che stesse solo aspettando di tirare fuori le grinfie, come è normale in certe occasioni. È partita con gli elogi , in senso generale di noi gli è piaciuto quasi tutto, a cominciare dal nome, dalla casa, dalle discussioni della gente, dagli stessi racconti, dai progetti futuri eccetera. Mentre leggeva non volava una mosca, anche perché era gennaio ed il freddo era notevole, ma tutti si erano aspettati critiche feroci e invece andava quasi tutto bene, ma quel quasi ci provocava dell'ansia, anche se lei attraverso un dialogo dei personaggi ci spiegava in maniera buffa e credibile il perché. La spirale delle cose positive si stava esaurendo mentre piccoli elementi di critica stavano pian-piano entrando nel dialogo trai membri,  che parlavano di arte e di letteratura poliziottesca non come se fosse la cosa più importante, ma certo tra le fondamentali. Abbiamo tutti riconosciuto bene Qiang, che se anche fosse una donna, nessuno potrebbe equivocare e scambiarlo con un altro. Poi a uno ad uno, in poche frasi, si erano dichiarati contrari a ogni cambiamento tutti i rimanenti membri, sebbene lo nascondessero anche a se stessi.  Ma sapevano che stavano semplificando troppo una cosa che è molto complessa, il giallo ha bisogno di un intreccio, un'indagine fondamentalmente complicata, perché risalire a quello che è successo senza averlo visto e sentito, non può essere mai troppo facile.

Qui le proteste hanno impedito a Dina di continuare, lei ha sorriso e si è seduta, poi ha detto, appena ha potuto parlare, che il racconto finiva lì, non aveva voluto continuare a scrivere, perché sapeva che sarebbe stata troppa presunzione, che ognuno avrebbe potuto finirlo alla sua maniera.

Il racconto, se così si poteva chiamare, poi circolò di mano in mano, terminava con queste parole che lei non aveva letto:

 

“La credibilità di una situazione descritta da un autore letterario non dipende tanto dalla sua conformità o meno alla realtà, ma piuttosto dall'abilità di tale scrittore nel raccontarla, che lui si senta come la stesse vivendo davvero, mentre mitraglia le lettere, e che il risultato pratico sul monitor non differisca troppo dai suoi sentimenti in quel momento, da quello che la sua immaginazione e la sua tecnica fanno magicamente diventare realtà.

Oppure tutto il contrario.

Alle Quasi Sorelle Bronte la discussione sull’arte viene fuori spesso quanto malvolentieri, direi.  Quando è che la scrittura è arte? Quando invece no? L’emozione è quello che conta secondo alcuni, altri invece non lo dicono, ma si basano più sul successo, le vendite eccetera. Lucilla quando si parla di arte cita sempre, e a sproposito secondo me, il pittore russo Mark Rothko, che per lui è la dimostrazione della meravigliosa libertà di espressione artistica umana. Per gli altri invece è piuttosto la rappresentazione dell'imbecillità, dell'arte semmai di saper ingannare se stessi.

Qui Marquinha ha realizzato una pagina test per Lucilla, chiedendogli ironicamente se questa è arte o no, la quale ha detto di no, ma l’ha apprezzata e ha suggerito di includerla nel libro. Può essere un buon esempio, secondo lei. Anche secondo noi, ma per lui è positivo, per noi negativo. Che la cosa giusta stia sempre in mezzo? In questo caso non credo.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10

 

 

Dopo più di 4 anni di accettazione del loro ruolo di gigioni-ribelli quello veniva messo finalmente in dubbio e Dina, appena arrivata, aveva innescato una rivoluzione, in maniera forse irreversibile e Qiang l'ha dovuta accompagnare a casa, la rivolta era verbalmente violenta e forse quello era stato un mezzo troppo affrettato per comunicarci quella roba da un momento all'altro. Erano le dieci di sera e il freddo polare non era certo invitante. La discussione tra noi è diventata furibonda, come al solito c'erano due fazioni, ma io e Dietmar eravamo nel mezzo.  Leo e Marcos a favore, gli altri contro. Quando Qiang è ritornato era mattina e aveva gli occhi assonnati ancora più a fessura del solito.

Il problema naturalmente non era come finire il giallo, ha placidamente detto a colazione, ma come cambiare questo nostro aspetto, secondo Dina negativo e anche secondo noi stessi, pur se non ce ne rendevamo ancora conto. Lei diceva che il nostro talento era innegabile, stavamo giocando una partita divertente, sì, ma fine a se stessa, quella era una roba che si poteva usare meglio. Non c'era bisogno di ribellarsi a quel sistema, era uno sforzo sterile, attorno a noi non avrebbe cambiato niente e se avesse cambiato qualcosa non gliene sarebbe fregato niente a nessuno. Stavamo ingannando noi stessi, il problema non era quello. Dal punto di vista umano e antropologico, sociale e psicologico andava tutto bene, scrivevamo bene, ma forse eravamo solo troppo pigri per perderci nel romanzo, i racconti erano più agevoli e fini a se stessi, ma  tutto questo andava messo al servizio di qualcosa di più efficace, meno di nicchia,  alla portata del grande pubblico. Secondo lei si potevano e si dovevano scrivere dei gialli di denuncia sociale e politica, restava solo da vedere se noi volevamo. Era un genere che stava già nascendo in quantità e qualità, perché la gente era stanca delle fake news e voleva sapere la verità e che noi avremmo potuto cavalcare tutti insieme fondando una casa editrice di genere e potendo commercializzare i nostri stessi volumi in tutto il mondo.

Lei aveva già gli informatori, altri ne avrebbe trovati, bastava trovare la formula giusta per pubblicare e non essere perseguiti da chi veniva denunciato, noi dovevamo solo romanzare i fatti e dargli una leggibilità fruibile ai più, testi facili da leggere, divertendosi anche unendo comicità e tragedia, come nella vita, ma con dei contenuti bomba.

Ci ha portato Uomini che odiano le donne di Stig Larsson, ci ha detto che la prima parte era un esempio della letteratura che Dina voleva da noi, poi il libro si perdeva in altre cose, forse era anche troppo serioso e cupo, si poteva fare di meglio, per renderlo più appetibile alla massa, ma che la facesse seguire una polemica giusta.

Noi tutti lo conoscevamo già, e avevamo letto anche gli altri due della trilogia dell'autore. Poi aveva portato anche una borsata di volumetti di genere, alcuni conosciuti, altri no, ma episodi a se stanti, non esisteva ancora una casa editrice specializzata nel genere, la voce si sarebbe sparsa velocemente.

La riunione seguente l'abbiamo fatta in libreria, con la presenza di Harold e Florence, lui inizialmente contro e lei subito a favore. La casa editrice si chiamerà “Il senno di poi è una scienza esatta”.

Dina durante la riunione di ieri ha detto che noi Gialli ma non troppo eravamo rassegnati a lasciare il mondo così com'era, anche se non ci piaceva e si capiva da quello che scrivevamo. Magari non ci saremmo riusciti, ma l'importante era piuttosto che  provassimo e lasciassimo perdere i capricci da intellettuali maschi e figli unici.

Avremmo cominciato a parlare delle magagne dell'Italia e del Brasile, ma poi ci saremmo allargati a macchia di olio, si fa per dire. Il segreto per non essere perseguiti dalla mafia o dai poteri forti era quello di Pulcinella, ma era un Pulcinella meno napoletano e più internazionale.

L'idea di Dina era la stessa che aveva applicato a se stessa e alle avventure del commissario Marroni: in Italia non avremmo né stampato né commercializzato, in lingua italiana, ma in Svizzera italiana e dovunque ci fossero stati abbastanza emigranti peninsulari nel mondo. In Brasile non avremmo tradotto e venduto in lingua portoghese brasiliana, ma in Portogallo e dovunque si parlasse anche il portoghese. In Inghilterra e negli Usa no, ma dovunque si parlasse la lingua inglese. In Germania no, ma dove si parlasse e si capisse sì.

Naturalmente tutto sarebbe stato disponibile in internet, e in tutto il mondo. La gente si sarebbe dovuta sforzare un pochino per capire, ma i diretti interessati e accusati non si sarebbero preoccupati più di tanto. Almeno all'inizio.

Quando anche ci fossero arrivati noi avremmo avuto il tempo per nasconderci, gli autori partendo da subito con pseudonimi e nascondendo la nostra sede virtuale nel mondo dell'internet, attraverso degli hacker specializzati.

I personaggi dei libri avrebbero anche avuto pseudonimi, ma in maniera da essere facilmente riconosciuti, una volta capita la linea della casa editrice e quella delle denunce in serie, la veridicità assoluta delle notizie, tutto sarebbe già talmente sparso nel mondo da non poter più essere fermato. Anche la pubblicità dei libri avrebbe detto e non detto, in modo da  incuriosire, ma da non poter essere denunciata. Queste le intenzioni, che naturalmente potranno cambiare anche con le esigenze del mercato o della stessa casa editrice.

Insomma un fottuto stress e poi non avrebbe cambiato niente, quanta gente legge dei libri al giorno d'oggi? Certo Dina aveva ragione, ma a me, o a noi, chi ce lo faceva fare a quest'età di cominciare a fare gli eroi?

Dina sorrideva ironicamente, noi non sapevamo che il mondo stava già arrostendo la nostra patata, come dicono in Brasile.

Alla fine, passato questo terremoto, il gruppo Gialli ma non troppo ha continuato a esistere, con gli stessi membri, tutti maschi, ma Rino, Marcos e Tommaso hanno cominciato anche per la nuova casa editrice, che è stata chiamata solo: Il senno di poi.

Non hanno di che lamentarsi, a parte il fatto che sono diventati professionisti e quasi sempre saltano le riunioni in montagna. I libri vendono bene, ci sono venti altri autori che scrivono, in lingua italiana, inglese, tedesca, spagnola e portoghese.

Non si può dire che il mondo non si sia accorto di loro, ma di effetti per cambiarlo per ora non ce ne sono stati, se non indirettamente, magari in prospettiva futura, però nessun processo è stato riaperto, per quanto se ne sappia in giro e nessun grande figlio di puttana arrestato, o anche solo messo alle strette.

Per quanto ci riguardava, invece la profezia di Dina Löwe si è compiuta dopo due anni, quando la banca ci ha strappato la libreria, Harold è passato alla distribuzione del Senno di poi in lingua inglese. Intanto i Bonsai non vendevano più tanto, quelli di plastica gommata erano più a buon mercato e ora li fanno anche su misura. Il lavoro in generale ha cambiato prospettive, rotta e padroni. Le pensioni sono diminuite, gli stipendi sono rimasti pressoché bloccati, il costo della vita è aumentato e sale ogni giorno senza che si possa fermarlo.

Alla fine ci siamo trovati di nuovo tutti insieme a lavorare separatamente per la donna che nel frattempo si era sposata con Qiang. Florence rimasta anche lei senza pasticceria, sta cercando di aprire la branca francese che sta resistendo un po', chissà perché. Nel frattempo sta iniziando a cercare di fare la traduttrice nella sua prima lingua.

Per la prima volta uno dei nostri autori, un tedesco che si firma sotto falso nome, è stato minacciato di morte, per Dina è il segno che i nodi stiano arrivando finalmente al pettine. La nostra ex libreria è stata comprata dalla casa editrice e ci hanno messo dentro diverse cose separate e unite: uffici, distribuzione, magazzino e vendita dei libri del Senno di poi.

Le riunioni a  Cime Tempestose ora si fanno solo una volta al mese, lei non è stata invitata e secondo me non gliene è importato granché. Gli autori leggono parti dei gialli di denuncia che hanno scritto, quelle che gli piacciono di più, o quelli su cui hanno dei dubbi. Si parla più che altro delle frasi romantiche nascoste tra le altre, si indugia e si gioca sull'uso di ogni singola parola, sulla sintassi dei contenuti. Si resiste insomma, mentre il mondo attorno gira vorticoso su altre cose, per conservare e sviluppare un'arte, nella quale si sta sempre imparando. Noi siamo sempre più appassionati, perché questa è una delle poche roccaforti rimaste della letteratura dalla parte del manico, anche se non gliene frega niente a nessuno, o forse proprio per questa ragione.

La signora Pelosini e Romolo sono tornati in libreria da soli, forse vogliono comunicarci il loro appoggio, anche se va sempre più verso la morte, la vita continua. Leo spesso rimane là sul vecchio sofà ad accarezzarli, è l'unico tra di noi che ha pubblicato un libro indipendente, a sue spese, dopo la nascita del Senno di poi, parla dei Gialli ma non troppo, fino al terremoto in questione, come se fossi io a raccontare la storia degli ultimi mesi, ma in realtà è lui. Dovrebbe essere questo che avete appena terminato.

 

 

 

 

 

 

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